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La contessa Rosaura che osserva, e detti.
PANT. Son contentissimo.
ROS. (Mio padre e mio marito sono pacificati. Parlano amichevolmente fra loro. Lodato il cielo). (da sé)
PANT. No vedo l’ora che vegna a casa mia fia.
OTT. Quando verrà, la consolerete.
ROS. Eccomi, eccomi. Consolatemi, per carità.
PANT. Fia mia, vegnì qua. (s’alza)
OTT. (Mi si leverà dagli occhi). (da sé)
ROS. Via, che avete a dirmi? Marito mio, siete voi di buona voglia?
OTT. Sì; non vedete? (mostra ilarità)
ROS. Sia ringraziato il cielo.
PANT. Rosaura, vu sè sempre stada una fia obbediente, una muggier rassegnada. Adesso bisogna che sta ubbidienza, sta rassegnazion, la pratichè eroicamente. Qua ghe xe vostro pare, là ghe xe vostro mario. Tutti do d’accordo i ve parla, e coll’autorità che i gh’ha sora de vu, i ve comanda, che ve contentè per qualche tempo de vegnir a Roma con mi, de lassar per qualche tempo el consorte: (Rosaura piange) de uniformarve in questo alla volontà del cielo, e far cognosser al mondo che sè una donna de garbo, che sa superar le passion. Cossa me diseu?
OTT. Non crediate già ch’io vi abbandoni. Vi mando con vostro padre a divertirvi in una città magnifica. Non vi lascerò mancare il vostro bisogno. Vi assegno dugento zecchini l’anno, ed eccovi la mia obbligazione. (dà la carta a Rosaura)
ROS. Che sono moglie del conte Ottavio, che sol la morte mi potrà da lui separare, e ch’io non accetto patti ingiusti, obbligazioni scandalose. (straccia la carta, e parte)
OTT. (Maladetta! Te ne pentirai!) (da sé, parte)
PANT. Oh poveretto mi! oh poveretto mi! oh poveretto mi! (parte)