Carlo Goldoni
Il vero amico

ATTO PRIMO

SCENA SESTA

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SCENA SESTA

 

Florindo e Lelio.

 

FLOR. Caro signor Lelio, è necessario, come io vi diceva, che vada via, e sarà un segno di vera amicizia, se mi lascerete partire senza farmi maggior violenza.

LEL. Non so che dire, andate dunque, se così vi aggrada. Ma di una grazia volea pregarvi.

FLOR. Ed io prometto di compiacervi.

LEL. Aspettate a partire fino a domani.

FLOR. Non posso dirvi di no. Ma certo mi saria più caro partir adesso.

LEL. No, partirete dimani. Oggi ho bisogno di voi.

FLOR. Comandatemi. In che vi posso servire?

LEL. Sapete ch’io devo sposare la signora Rosaura.

FLOR. (Ah, lo so pur troppo!) (da sé)

LEL. A voi son note le indigenze della mia casa, spero di accomodarmi colla sua dote. Ma oltre l’interesse, mi piace perché è una giovine molto bella e graziosa.

FLOR. (Mi fa morire). (da sé)

LEL. Che dite, non è egli vero? Non è una bellezza particolare? Non è uno spirito peregrino?

FLOR. (Ah me infelice!) (da sé)

LEL. Come! Non l’approvate? Non è ella bella?

FLOR. Sì, è bella.

LEL. Ella mostrò d’amarmi, e per qualche tempo pareva che fosse di me contenta. Ma sono parecchi giorni che cambiatasi meco, più non mi dice le solite amorose parole, e mi tratta assai freddamente.

FLOR. (Ah! temo d’essere io la causa di questo male). (da sé)

LEL. Io ho procurato destramente rilevar da’ suoi labbri la verità, ma non mi è stato possibile.

FLOR. Eh via, caro amico; parrà a voi che non vi voglia bene. Le donne son soggette anch’esse a qualche piccola stravaganza. Hanno dell’ore, in cui tutto viene loro in fastidio. Bisogna conoscerle, bisogna sapersi regolare; secondarle, quando sono di buona voglia, e non inquietarle, quando sono di cattivo umore.

LEL. Dite bene. Le donne sono volubili.

FLOR. Le donne sono volubili? E noi altri che cosa siamo? Ditemi, caro amico, vi siete mai trovato in faccia dell’amorosa senza volontà di parlare? Perché volete che la ragazza sia sempre di un umore? Perché volete che rida, mentre avrà qualche cosa che la disturba?

LEL. Orsù, fatemi un piacere, andate voi dalla signora Rosaura; procurate che cada il discorso sulla persona mia...

FLOR. Lelio, vi supplico a dispensarmi; dalla signora Rosaura non ho piacere d’andarvi.

LEL. Come! Partirete voi senza congedarvi da una casa, in cui siete stato quasi ogni giorno in conversazione? Il padre di Rosaura è pur vostro amico.

FLOR. La mia premura di partire è grande, onde prego voi di far le mie parti.

LEL. Ma se partite dimani, avete tempo di farlo da voi medesimo.

FLOR. Bisognerebbe che partissi ora.

LEL. Mi avete promesso d’aspettare a domani.

FLOR. Sì, starò qui con voi, ma non ho voglia di complimentare.

LEL. Voi mi fate pensare che per qualche mistero non vogliate riveder Rosaura.

FLOR. Che cosa potete voi pensare? Sono un uomo d’onore, son vostro amico, e mi fate torto giudicando sinistramente di me.

LEL. Dubito che qualche dispiacere abbiate ricevuto dal di lei padre.

FLOR. Basta, non so niente. Dimani vado via, e la serata la passeremo qui fra di noi.

LEL. Il signor Ottavio, padre di Rosaura, è un uomo sordido, un avaro indiscreto, un uomo che per qualche massima storta d’economia non ha riguardo a disgustare gli amici.

FLOR. Sia com’esser si voglia, egli è vecchio, non ha altro che quell’unica figlia, e se risparmia, risparmia per voi.

LEL. Ma se egli ha fatto a voi qualche torto, voglio che mi senta. Chi offende il mio amico, offende me medesimo.

FLOR. Via, non mi ha fatto niente.

LEL. Se così è, andiamo a ritrovarlo.

FLOR. Fatemi questo piacere, se mi volete bene, dispensatemi.

LEL. Dunque vi avrà fatto qualche dispiacere la signora Rosaura.

FLOR. Quella fanciulla non è capace di far dispiacere a nessuno.

LEL. Se così è, non vi è ragione in contrario. Andiamo in questo punto a vederla.

FLOR. Ma no, caro Lelio...

LEL. Amico, se più ricusate, mi farete sospettare qualche cosa di peggio.

FLOR. (Non vi è rimedio: bisogna andare). (da sé)

LEL. Che cosa mi rispondete?

FLOR. Che ho la testa confusa, che adesso non ho voglia di discorrere, ma che per compiacervi, verrò dove voi volete.

LEL. Andiamo dunque; ma prima sentite che cosa voglio da voi.

FLOR. Dite dunque, che cosa volete?

LEL. Voglio che destramente rileviate l’animo della signora Rosaura, che facciate cadere il discorso sopra di me, che se ha qualche mala impressione de’ fatti miei, cerchiate disingannarla; ma se avesse fissato di non volermi amare, voglio che le diciate per parte mia, che chi non mi vuol, non mi merita.

FLOR. Io per questa sorta di cose non sono buono.

LEL. Ah! so quanto siete franco e brillante in simili congiunture. Io non ho altro amico più fidato di voi. Prima di partire da me, dovete farmi questa finezza. Ve la dimando per quell’amicizia che a me professate; né posso credere che vogliate lasciarmi col dispiacere di credere che non mi siate più amico.

FLOR. Andiamo dove vi aggrada, farò tutto ciò che volete. (Qui bisogna crepare, non vi è rimedio). (da sé)

LEL. Andiamo, vi farò scorta sino alla casa, poi vi lascerò in libertà di discorrere.

FLOR. (Misero me! Come farò io a resistere?) (da sé)

LEL. Da voi aspetto la quiete dell’animo mio. Le vostre parole mi daranno consiglio. A norma delle vostre insinuazioni, o lascerò d’amare Rosaura, o procurerò d’accelerare le di lei nozze. (parte)

FLOR. Le mie parole, le mie insinuazioni, saranno sempre da uomo onesto. Sagrificherò il cuore, trionferà l’amicizia. (parte)

 

 

 


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