Carlo Goldoni
Il vero amico

ATTO TERZO

SCENA QUINDICESIMA

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SCENA QUINDICESIMA

 

Florindo ed Ottavio.

 

FLOR. (Se le volesse bene davvero, non se la passerebbe con questa indifferenza). (da sé)

OTT. Orsù, signor Florindo, stendiamo la scritta.

FLOR. Son qui per far tutto quel che volete.

OTT. Questo pezzo di carta sarà bastante; ecco come tutte le cose vengono a tempo. (cava quel pezzo di carta che ha trovato in terra)

FLOR. In quella carta poco vi può capire.

OTT. Scriverò minuto. Ci entrerà tutto. Tiriamo in qua il tavolino. L’aria che passa dalle fessure di quella finestra, fa consumar la candela. (tira il tavolino) Sediamo. (scrive) Il signor Florindo degli Ardenti promette di sposare la signora Rosaura Aretusi senza dote, senza alcuna dote, senza alcuna pretensione di dote, rinunziando a qualunque azione e ragione che avesse per la dote, professandosi non aver bisogno di dote e di non volere la dote.

FLOR. (A forza di dote ha empiuto la carta). (da sé)

OTT. Item, promette sposarla senz’abiti, senza biancheria, senza nulla, senza nulla, prendendola ed accettandola come è nata. Promettendo inoltre fare una contraddote... Ehi, quanto volete darle di contraddote?

FLOR. Questa contraddote io non l’intendo.

OTT. Oh! senza contraddote non facciamo nulla.

FLOR. Via, che cosa pretendereste ch’io le dessi?

OTT. Datele seimila scudi.

FLOR. Signor Ottavio, è troppo.

OTT. Per quel che sento, anche voi siete avaro.

FLOR. Signor sì, son avaro.

OTT. Mia figlia non la voglio maritare con un avaro.

FLOR. Certo fate bene, perché è figliuola d’un uomo generoso.

OTT. Se ne avessi, vedreste s’io sarei generoso. Sono un miserabile. Ma via, concludiamo. Quanto le volete dare di contraddote?

FLOR. (Già deve esser mia, non importa). (da sé) Via, gli darò seimila scudi.

OTT. Promettendo darle di contraddote seimila scudi, e questi pagarli subito nella stipulazione del contratto al signor Ottavio di lei padre...

FLOR. Perché li ho io da dare a voi?

OTT. Il padre è il legittimo amministratore dei beni della figliuola.

FLOR. E il marito è amministratore dei beni della moglie e la contraddote non si , se non in caso di separazione o di morte.

OTT. Ma io ho da vivere sulla contraddote della figliuola.

FLOR. Per qual ragione?

OTT. Perché son miserabile.

FLOR. I seimila nelle vostre mani non vengono certamente.

OTT. Fate una cosa, mantenetemi voi.

FLOR. Se volete venire a Venezia con me, siete padrone.

OTT. Sì, verrò... (Ma lo scrigno?... Non lo potrò portare con me... E i danari che ho dati a interesse?... No, non ci vado). (da sé) Fate una cosa, datemi cento doppie, e tenetevi la contraddote.

FLOR. Benissimo; tutto quel che volete. (Amore mi obbliga a sagrificare ogni cosa). (da sé)

OTT. Son miserabile. Non so come vivere. Mandatele le camicie.

FLOR. Signor sì, le manderò.

OTT. Mandate la tela, che le farò cucire da Colombina. (Ne farò quattro anche per me). (da sé)

FLOR. Benissimo; e se mi date licenza, manderò qualche cosa, e si pranzerà in compagnia.

OTT. No, no; quel che volete spendere, datelo a me, che provvederò io. Se vado io a comprare, vedrete che bell’uova, che preziosi erbaggi! che buon castrato! Vi farò scialare.

 

 

 


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