Carlo Goldoni
L’apatista

ATTO PRIMO

SCENA TERZA

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SCENA TERZA

 

Il Conte Policastro, la Contessa Lavinia e detti.

 

PAOLINO:

Eccoli per l'appunto.

CONTE:

Schiavo di lor signori.

CAVALIERE:

Riverente m'inchino: che grazie, che favori

Impartiti mi vengono con generoso cuore

Da una dama compita, da un sì gentil signore?

CONTE:

L'amore ed il rispetto... anzi le brame nostre...

Fate voi, Contessina, le mie parti e le vostre.

LAVINIA:

Alla città tornando, siamo di qui passati;

Riposano i cavalli dal corso affaticati,

E di fermarci un poco l'agio da voi si spera.

CAVALIERE:

(Quanto cortese è il padre, tanto la figlia è altera). (Da sé.)

LAVINIA:

(Temo che don Paolino disturbi il mio disegno). (Da sé.)

PAOLINO:

(La Contessa è confusa). (Da sé.)

CONTE:

(Sono in un doppio impegno).

CAVALIERE:

Sia qualunque il motivo che trattener vi sproni,

Casa mia è casa vostra, di lei vi fo padroni.

Ehi, da seder. (I Servitori recano le sedie.)

CONTE:

Signore, venuti a ritrovarvi

Siamo per desiderio... (Al Cavaliere.)

LAVINIA:

Non già d'incomodarvi. (Al Cavaliere.)

Ma trapassando, a caso, ci siam fermati qui.

Non è vero, signore? (Al Conte.)

CONTE:

Bene; sarà così.

PAOLINO:

Perdon (se troppo ardisco) alla Contessa io chiedo;

Che opera sia del caso il suo venir non credo.

E il Cavaliere istesso, benché di creder finga,

Di una cagion più bella l'animo suo lusinga.

CAVALIERE:

Senza ragione, amico, voi giudicate al certo.

So ben che una finezza, so che un favor non merto.

Senza fatica alcuna da me son persuaso,

Che abbia qui trattenuta questa damina il caso.

CONTE:

Non signor, per parlarvi con tutta verità...

LAVINIA:

Di veder questo Feudo s'avea curiosità.

Il zio del Cavaliere, ch'era mio zio non meno,

So che piacer vi prese, so che l'ha reso ameno.

Parlar delle fontane, parlar de' bei giardini,

Ho più volte sentito ancor ne' miei confini.

Bramai con tale incontro veder le cose udite.

Ditel voi, non è vero? (Al Conte.)

CONTE:

Sarà come voi dite.

PAOLINO:

Ma delle tante cose degne d'ammirazione

Veder non desiate anche il gentil padrone? (Alla Contessa.)

CAVALIERE:

Qual brama aver potrebbe la nobile fanciulla

Di veder un che al mondo conta sì poco, o nulla?

Parlar di tai delizie avrà sentito assai;

Non avrà di me inteso a favellar giammai.

Poco son io sociabile, vivo al rumor lontano,

Scarsissimo di mente, filosofo un po' strano;

Non ho quel brio giocondo, non ho quell'intelletto,

Che altrui di rivedermi possa ispirar l'oggetto.

CONTE:

Non è la prima volta, che noi ci siam veduti:

Sono i meriti vostri palesi e conosciuti.

Mia figlia che, per dirla, ne sa più di un dottore,

Fa di voi molta stima.

CAVALIERE:

Non merto un tale onore.

CONTE:

Io che padre le sono, e padre compiacente,

So che il suo cor...

LAVINIA:

Scusate; non sapete nïente. (Al Conte.)

CONTE:

Sarà così.

LAVINIA:

Il mio core conosce il suo dovere,

Sa che a figlia non lice venir da un cavaliere.

Sol per vedere il Feudo si prese un tal sentiero;

Non è vero, signore? (Al Conte, arditamente.)

CONTE:

Sì, cara figlia, è vero.

PAOLINO:

Da un simile discorso chiaro si può capire,

Cavalier, ch'ella teme di farvi insuperbire.

Maschera la cagione, che a lei servì di scorta,

Ma non è per nascondersi bastantemente accorta.

CONTE:

Male le mie parole, signore, interpretate. (A don Paolino.)

CAVALIERE:

Amico, questa volta, lo so anch'io, v'ingannate. (A don Paolino.)

Questa dama di spirito sa quel che mi conviene;

Per me il tempo prezioso a perdere non viene;

E quando un tanto onore venissemi da lei,

Credetemi, superbo per questo io non sarei.

LAVINIA:

Crederebbe il tributo men del suo merto ancora.

CONTE:

Che prontezza di spirito!

CAVALIERE:

Non per ciò, mia signora,

Ma io, per mio costume, sono egualmente avvezzo

A non curar gli onori, e a non curar lo sprezzo.

LAVINIA:

Signor, l'avete inteso? Può dir più francamente,

Che di me non si cura? (Al Conte.)

CONTE:

Si vede apertamente. (Alla Contessa.)

CAVALIERE:

Eppure il mio rispetto in ogni tempo e caso

Son pronto a dimostrarle. (Al Conte.)

CONTE:

Di ciò son persuaso.

PAOLINO:

Questo linguaggio oscuro capite, Conte mio,

Cosa voglia inferire? (Al Conte.)

CONTE:

Non lo so nemmen io.

LAVINIA:

Pare che non vi voglia a intenderlo gran cosa:

Il Cavalier paventa ch'io voglia esser sua sposa;

Teme che il testamento ad osservar lo astringa,

Ch'io voglia porre in pratica la forza o la lusinga.

Spiacegli rinunziare dei beni una metà;

Meco goderli unito inclinazion non ha.

Il coraggio gli manca per dire, io non ti voglio;

Cerca le vie più facili per ischivar lo scoglio.

Onde in forma ci tratta dubbia, confusa e strana.

Parvi che al ver mi apponga? (Al Conte.)

CONTE:

Non siete al ver lontana.

CAVALIERE:

La Contessa s'inganna, s'ella mi crede avaro;

Poco i comodi apprezzo, pochissimo il danaro.

Tanto è lontan ch'io peni seco a spartire il frutto,

Che se il desia, son pronto a rilasciarle il tutto.

Molto più sbaglia ancora, se crede ai desir miei

Possa riescir penoso il vincolarmi a lei.

Del zio dopo la morte non si è parlato ancora,

Il mio pensiere in questo non ispiegai finora;

E se in lei tal sospetto senza ragion prevale,

Sembra ch'ella mi sprezzi. (Al Conte.)

CONTE:

Affé, non dice male. (Alla Contessa.)

PAOLINO:

Conte, non vi affliggete, temendo i loro sdegni;

Questi arguti rimproveri sono d'amore i segni.

Da così buon principio molto sperar conviene.

CONTE:

Don Paolino, io credo che voi diciate bene.

PAOLINO:

Dagli occhi e dalle labbra il di lei cuor comprendo. (Alla Contessa, in modo di rimproverarla con arte.)

CONTE:

Ah! che dite, figliuola? (Alla Contessa.)

LAVINIA:

(Don Paolino intendo). (Da sé.)

PAOLINO:

Il Cavaliere anch'esso arde d'amor per lei.

CONTE:

Sentite? Rispondete. (Al Cavaliere.)

CAVALIERE:

Non dico i fatti miei.

CONTE:

Orsù, noi siam venuti...

LAVINIA:

Per divertirci, a caso. (Con aria sprezzante.)

CAVALIERE:

Via, non vi affaticate, che ne son persuaso. (Alla Contessa.)

CONTE:

signor, siam venuti a caso, come vuole;

Ma posto che ci siamo, diciam quattro parole.

Parliam del testamento...

LAVINIA:

Signor, con sua licenza, (s'alza.)

Parlar di tal affare non deesi in mia presenza.

Se immaginar poteva tal cosa intavolata,

Signor, ve lo protesto, non mi sarei fermata.

Impedire non deggio che il genitor ragioni;

Servisi pur, ma intanto, s'io vado via, perdoni.

D'uopo di mia presenza in quest'affar non c'è,

Le mie ragioni il padre può dir senza di me.

Egli non ha bisogno della figliuola allato.

CONTE:

Ma io senza di voi mi troverò imbrogliato.

CAVALIERE:

Sola vuol la Contessa partir da questo loco?

LAVINIA:

Anderò nel giardino a passeggiare un poco.

CONTE:

Dunque il parlar sospendo.

LAVINIA:

Anzi parlar dovete.

CONTE:

Ma che poss'io risolvere, quando voi non ci siete?

Io non ho gran memoria; mi scordo facilmente.

LAVINIA:

Con voi don Paolino può rimaner presente.

PAOLINO:

Ch'io nel giardin vi serva, signora mia, sdegnate?

LAVINIA:

Per compagnia del padre bramo che voi restiate.

Non so se il Cavaliere in mio favore inclini,

Non so a qual condizione il padre mi destini;

E in voi, don Paolino, che siete un uom d'onore,

Lascio alle mie ragioni l'amico e il difensore. (Parte.)

 

 


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