Carlo Goldoni
L'avventuriere onorato

ATTO PRIMO

SCENA SESTA

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SCENA SESTA

 

Donna Aurora, poi Guglielmo.

 

AUR. A tempo giunte sono le venti doppie. Se donna Livia mi lascia in libertà di disporne, posso impiegarne dieci per acquietar mio marito, e ciò facendo, tornano anch’esse in profitto di quello a cui erano destinate.

GUGL. Servitore divoto della signora donna Aurora.

AUR. Serva, signor Guglielmo; che vuol dire che mi parete confuso?

GUGL. Per dirle la verità, batto un poco la luna.

AUR. Che cosa avete che vi disturba?

GUGL. Non vedo lettere di casa mia; passano i giorni e i mesi, e sono stanco di essere sfortunato.

AUR. Via, abbiate pazienza. Seguite a tollerar di buon animo le vostre disavventure. La sorte s’ha da cambiare, e ha poi da farvi quella giustizia che meritate.

GUGL. Ma non sono più in caso di differire. Conviene ch’io faccia qualche risoluzione.

AUR. Siete annoiato di stare in questa casa?

GUGL. Un uomo onorato, quale io professo di essere, deve poi arrossire di aver dato un incomodo così lungo ad una casa che lo ha favorito con tanta bontà.

AUR. Queste sono inutili cerimonie. Servitevi, che ne siete il padrone; e quanto più state in casa nostra, tanto più ci moltiplicate il piacere.

GUGL. Conosco di non meritar tante grazie. Nel caso in cui sono, la loro pietà è per me una provvidenza del cielo. Ma non posso tirar innanzi così; conviene per assoluto ch’io me ne vada.

AUR. Perché mai, signor Guglielmo? Perché?

GUGL. Signora, io sono un uomo schietto e sincero, e non mi vergogno parlar delle mie miserie. Oltre la casa, oltre il vitto, si sa quante cose sono necessarie ad un galantuomo; non dico altro; veda ella se mi conviene partire.

AUR. (Il discorso non può essere più opportuno). (da sé) No, signor Guglielmo, voi non avete da partire per questo. In tutta confidenza, eccovi dieci doppie, servitevene nelle vostre occorrenze.

GUGL. Dieci doppie?... La mi perdoni; non sono in grado di riceverle.

AUR. Per qual ragione le ricusate?

GUGL. Domanderò a lei, se mi licenza, per qual ragione me le vuol dare.

AUR. Perché ne avete bisogno.

GUGL. Ne ho bisogno, è vero, ma non per questo...

AUR. Oh via, tenetele e non parlate.

GUGL. Ma, la supplico. Da chi viene l’offerta? Da lei o dal signor don Filiberto?

AUR. Ricevetele dalle mie mani, e non cercate più oltre.

GUGL. E s’io le ricevessi, a chi ne sarei debitore?

AUR. A nessuno.

GUGL. Non permetterò certamente...

AUR. Orsù, la vostra insistenza nel ricusarle è un’ingiuria che voi mi fate.

GUGL. Non so che dire... Per non mostrare di essere ingrato, le prenderò. (Ne ho di bisogno, ma pure le accetto con del rimorso). (da sé)

AUR. (Povero giovine! Può essere più modesto? Può essere più discreto?) (da sé)

GUGL. Non so che dire. Sono confuso da tante grazie...

AUR. Non ne parliamo più. Ditemi, signor Guglielmo, siete dunque afflitto perché non avete lettere?

GUGL. Da che sono a Palermo, non ho avuta nuova di casa mia.

AUR. E della vostra signora Eleonora avete avuto notizia alcuna?

GUGL. Nemmeno di lei.

AUR. Questo sarà il motivo della vostra malinconia, perché non avete avuto nuove della vostra cara.

GUGL. Le dirò: la signora Eleonora l’ho amata, come le ho raccontato più volte, ma se devo dire la verità, l’ho amata più per gratitudine che per inclinazione. Per impegno le ho promesso sposarla, e per lei mi sono quasi precipitato. Sono quattro mesi ch’ella non mi scrive. S’ella si è scordata di me, procurerò io pure di scordarmi di lei.

AUR. Lo sa che siete in Palermo?

GUGL. Lo sa, perché gliel’ho scritto.

AUR. Non lo sapete? Lontan dagli occhi, lontan dal cuore, ne avrà ritrovato un altro.

GUGL. Quasi avrei piacere che fosse così. Conosco che io facea malissimo a sposarla. Ma quando uno è innamorato, non pensa all’avvenire; e dopo fatto, lo sproposito si conosce.

 

 

 


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