Carlo Goldoni
L'avventuriere onorato

ATTO SECONDO

SCENA OTTAVA

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SCENA OTTAVA

 

Donna Livia, poi Guglielmo.

 

LIV. Non ha tardato a venirmi a vedere. Segno che conosce la mia parzialità, e l’aggradisce.

GUGL. Servitor umilissimo, mia signora.

LIV. Riverisco il signor Guglielmo: vi ringrazio che siete venuto a vedermi. Che vuol dire, che ora non mi parete più tanto allegro?

GUGL. Mah! S’è cangiato il vento, signora. Il mare parea per me abbonacciato, ma ora è più che mai in burrasca.

LIV. Che c’è? Qualche novità?

GUGL. La novità non è picciola. Il signor don Filiberto con gentilezza mi ha dato il mio congedo, ed io sono un uccellin sulla frasca, senza nido, senza ricovero e senza panìco.

LIV. Per che causa don Filiberto vi ha licenziato?

GUGL. Non saprei; male azioni io non ne ho fatte certo. Si sarà stancato di favorirmi.

LIV. Ma si licenzia di casa un galantuomo così da un momento all’altro? (La cosa mi mette un poco in pensiero!) (da sé)

GUGL. In fatti il mio decoro ne tocca in questo fatterello ch’è qui. Non ha voluto dirmi il perché; credo per altro potermelo immaginare.

LIV. Sarebbe bene che in ogni modo si venisse in chiaro della verità.

GUGL. Ho paura, per dirgliela, che quelle dieci doppie che mi ha dato donna Aurora questa mattina...

LIV. Dieci sole ve ne ha date?

GUGL. Dieci sole. Non ha sentito?

LIV. E vi ha lasciato uscire di casa sua, senza darvene dieci altre?

GUGL. Anzi ha ripigliate anche quelle che mi aveva donate.

LIV. Le ha ripigliate? Questa è un’azione indegna. A questo passo non so più contenermi. Sappiate che io stamane ho mandate venti doppie a donna Aurora acciò, per via d’amicizia, senza che voi sapeste da chi venissero, fossero a voi donate.

GUGL. Ora capisco il mistero. Le venti doppie le ha divise a puntino: metà a me, e metà a suo marito. Sempre più, signora donna Livia, si accrescono le mie obbligazioni verso di lei; e sempre più mi maraviglio come don Filiberto abbia potuto farmi la malazione.

LIV. L’avranno fatto per profittar delle venti doppie; ma non gliela vomenar buona. Mi sentirà donna Aurora...

GUGL. La supplico, signora; se son degno di sperar qualche grazia, non mi nieghi questa per amor del cielo. Dissimuliamo, doniamo tutto a donna Aurora e a don Filiberto. Mi hanno mantenuto per tanto tempo, non è giusto ch’io paghi con un risentimento le obbligazioni che ho seco loro contratto.

LIV. Siete un uomo di belle viscere. Ammiro la vostra gratitudine, e me ne compiaccio.

GUGL. La gratitudine è un debito, che non si cancella nemmeno coglinsulti di quello che ci ha una volta fatto del bene.

LIV. (Sempre più con queste belle massime m’innamora). (da sé) Che cosa dunque risolvete di fare?

GUGL. Non lo so nemmen io. (sospirando)

LIV. Caro signor Guglielmo, se la casa mia vi aggrada, ve ne fo padrone.

GUGL. Signora, la sua esibizione mi consola. Ma un giusto riguardo mi tiene in dubbio, se io la debba accettare.

LIV. E qual è questo dubbio?

GUGL. Ella è sola, io sono un forestiere; con qual titolo onesto vorrebbe ella ch’io stessi in casa?

LIV. Se vi degnate, avrete la bontà di assistere agli affari della mia casa, e di rispondere per me a qualche lettera di rimarco.

GUGL. Se mi degno, ella dice? Una signora com’ella è, rende onore e fregio a chi ha la sorte di poterla servire.

 

 

 


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