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TAR. Signora, queste venti doppie le manda la signora donna Aurora, ed il signor Guglielmo le ha portate sino alla porta.
LIV. Che ha egli detto nel dare a voi questa borsa?
TAR. Mi ha ordinato di dirle espressamente, che le invia una donna d’onore e le porta un giovine sfortunato.
LIV. Perché non viene egli stesso a recarmele di sua mano?
LIV. Andate; cercatelo, e ditegli che si lasci da me vedere.
LIV. Ah, signora Eleonora! Guglielmo merita una gran fortuna; il cielo gliela offerisce, e voi gliela strappate di pugno.
ELEON. Voi mi trafiggete, voi mi uccidete. Ditemi, che far potrei, per non essere la cagione della sua rovina? Potrei sagrificar l’amor mio; potrei perdere il cuore; potrei donargli la vita; ma come riparare all’onore? Come rimediare ai disordini della mia fuga? Che sarebbe di me, sventurata ch’io sono?
LIV. Venite meco, e se amate veramente Guglielmo preparatevi a far due cose per lui. La prima a giustificar l’esser suo, cogli attestati che sono in vostro potere; la seconda, e questa sarà per voi la più dura, far un sagrifizio del vostro cuore alla di lui fortuna.
ELEON. Aggiungetene un’altra: morire per sua cagione.
LIV. Se non avete valor per resistere, non lo fate.
ELEON. Voi non mi proponete una cosa da risolversi su due piedi.
LIV. Andiamo; pensateci, e ne parleremo.
ELEON. Sì, andiamo, e se il destino vuol la mia morte, si muoia. (parte)
LIV. Eh, che il dolor non uccide. Troverò il modo io coll’oro e coll’argento di acquietare Eleonora, di obbligare Guglielmo, e di consolare l’innamorato mio cuore. (parte)