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ARL. No vedo l'ora che vegna a Venezia so pader, perché sto matto el se vol precipitar.
COL. Ora che le padrone vanno a letto, posso anch'io prendere un poco d'aria.
ARL. Un'altra femena sul terrazzin! No la me par nissuna de quelle do.
COL. Un uomo passeggia e mi guarda; sarebbe tempo che anch'io, poverina, trovassi la mia fortuna.
ARL. Vòi veder se me basta l'animo anca a mi de infilzarghene quattro, sul gusto del mio padron.
COL. In verità, che si va accostando.
ARL. Riverisco quel bello che anche di notte risplende, e non veduto, innamora.3
COL. Signore, chi siete voi?
ARL. Don Piccaro di Catalogna.
COL. (Il Don è titolo di cavaliere.)
ARL. Son uno che more, spasima e diventa matto per voi.
COL. Ma io non vi conosco.
ARL. Sono un amante timido e vergognoso.
COL. Con me può parlare con libertà, mentre sono una povera serva.
ARL. (Serva! Giusto un bon negozio per mi.) Ditemi, bella servetta, avete voi sentita a cantare quella canzonetta?
COL. Sì, signore, l'ho sentita.
COL. Io, no certamente.
ARL. Io ho l'abilità di cantare in tutte le voci. I miei acuti vanno due ottave fuori del cembalo.
COL. Era veramente una bella canzonetta amorosa.
COL. È anche poeta?
ARL. Ho succhiato anch'io il latte di una mussa.4
COL. Ma per chi ha fatto tutte queste fatiche?
ARL. Per voi, mia cara, per voi.
COL. Se credessi dicesse il vero, avrei occasione d'insuperbirmi.
ARL. Credetelo, ve lo giuro per tutti i titoli della mia nobiltà.
COL. Vi ringrazio di tutto cuore.
ARL. Mia bella, che non farei per le vostre luci vermiglie?
COL. Vengo, vengo. Signore, le mie padrone mi chiamano.
ARL. Deh, non mi private delle rubiconde tenebri della vostra bellezza.
COL. Non posso più trattenermi.
COL. Sì, ci rivedremo. Signor Don Piccaro, vi riverisco. (entra)
ARL. Gnanca mi no m'ho portà mal. Dise ben el proverbi, che chi stà col lovo, impara a urlar. Faria tort al me padron se andass via dal so servizio, senza aver imparà a dir cento mille busie. (va in locanda)