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LEL. Osserva, Arlecchino, quelle due maschere che escono di quella casa.
LEL. In questa città, il primo giorno della fiera si fanno maschere ancor di mattina.
LEL. Assolutamente saranno le due sorelle, colle quali ho parlato la scorsa notte.
ARL. Sti mustazzi coverti l'è una brutta usanza.
LEL. Signore, non occorre celar il volto per coprire le vostre bellezze, mentre la luce tramandata da' vostri occhi bastantemente vi manifesta.
ROS. (accennando Colombina) Anco questa?
LEL. Sono impegnato per ora a non distinguere il merito di una sorella da quello dell'altra.
ROS. Ma questa è la cameriera.
ARL. Alto là, sior padron, questa l'è roba mia.
LEL. Non è gran cosa ch'io abbia equivocato con due maschere.
ROS. Però i raggi delle luci di Colombina fanno nel vostro spirito l'istessa impressione de' miei.
LEL. Signora, ora che posso parlarvi con libertà, vi dirò che voi sola siete quella che attraete tutte le mie ammirazioni, che occupate intieramente il mio cuore, e se parlai egualmente della creduta vostra sorella, lo feci senza mirarla.
ROS. E mi distinguete da mia sorella, benché mascherata?
LEL. E come! Vi amerei ben poco, se non sapessi conoscervi.
LEL. Dalla voce, dalla figura, dall'aria nobile e maestosa, dal brio de' vostri occhi, e poi dal mio cuore, che meco non sa mentire.
ROS. Ditemi, in grazia, chi sono io?
LEL. (Conviene indovinarlo). Rosaura.
ROS. Bravo! ora vedo che mi conoscete. (si scuopre)
LEL. (Questa volta la sorte mi ha fatto coglier nel vero.) (piano ad Arlecchino) Osserva, Arlecchino, che volto amabile!
ARL. (Crepo dalla curiosità de veder in tel babbio quell'altra.)
ROS. Posso veramente assicurarmi dell'amor vostro?
LEL. Asdrubale non sa mentire. Vi amo, vi adoro, e quando mi è vietato il vedervi, non fo che da me stesso ripetere il vostro nome, lodar le vostre bellezze. (ad Arlecchino) Di' tu, non è vero?
ARL. (da sé) (Se podesse veder quella maschereta!)
LEL. Rispondi, non è vero? (starnuta)
ROS. Perché dunque, se tanto mi amate, non vi siete finora spiegato?
LEL. Vi dirò, mia cara. Il mio genitore voleva accasarmi a Napoli con una palermitana, ed io che l'aborriva anzi che amarla, mi assentai per non esser astretto alle odiose nozze. Scrissi a mio padre che, acceso delle vostre bellezze, vi desiderava in consorte, e solo jeri n'ebbi con lettera il di lui assenso.
ROS. Mi par difficile che vostro padre vi accordi che sposiate la figlia di un medico.
LEL. Eppure è la verità. (starnuta)
ARL. Signora sì, la lettera l'ho letta mi.
ROS. Ma la dote che potrà darvi mio padre, non sarà corrispondente al merito della vostra casa.
LEL. La casa di Castel d'Oro non ha bisogno di dote. Il mio genitore è un bravo economo. Sono venti anni che egli accumula gioje, ori, argenti per le mie nozze. Voi sarete una ricca sposa.
ROS. Rimango sorpresa, e le troppe grandezze che mi mettete in vista, mi fanno temere che mi deludiate per divertirvi.
LEL. Guardimi il cielo, che io dica una falsità; non sono capace di alterare in una minima parte la verità. Da che ho l'uso della ragione, non vi è persona che possa rimproverarmi di una leggiera bugia. (Arlecchino ride) Domandatelo al mio servitore. (starnuta)
ARL. Signora sì; el me padron l'è la bocca della verità.
ROS. Quando potrò sperare veder qualche prova della verità che mi dite?
LEL. Subito che ritorna vostro padre in Venezia.
ROS. Vedrò se veramente mi amate di cuor leale.
LEL. Non troverete l'uomo più sincero di me.