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SCENA PRIMA
GOTT. E bene. Cosa c'è? Cos'avete? Dopo sei giorni di matrimonio, cominciate di già a farmi il grugno?
PLAC. Veramente in questi primi giorni voi mi date gran ragione di star allegra!
GOTT. E di me vi potete voi lamentare?
PLAC. Bella cosa! maritati senza fare un poco di nozze, senza dare un pranzo né ai nostri amici, né ai nostri parenti!
GOTT. Via, cara la mia Placida, siate buona. Sapete che vi voglio bene. Sapete che non ho guardato a spendere quando si è trattato di mettervi all'ordine con pulizia; voi avete degli abiti, delle gioiette, della biancheria in abbondanza, potete comparir colle altre: se avete voglia di qualche altra cosa, ve la farò volentieri, ma non mi parlate di dar da mangiare a nessuno, perché non l'intendo, e non l'intenderò mai.
PLAC. E bene dunque, se siete risolto di non voler dar da pranzo a nessuno, non è giusto che noi andiamo dagli altri. Ci siamo stati anche troppo, e non conviene contrarre delle obbligazioni, quando non si è in caso, o non si ha volontà di rendere la pariglia.
GOTT. Benissimo. Per grazia del cielo, noi non ne abbiamo di bisogno. Oggi sarà l'ultima volta ch'io anderò a desinare fuori di casa.
PLAC. Ah! oggi ancora dovete andare fuori di casa.
GOTT. Sì, ho dato parola a mio compare Bernardo. Per oggi non posso far a meno; ma vi prometto che sarà l'ultima volta.
PLAC. Ed io resterò sola in casa, come una bestia.
GOTT. Voi, se non volete star sola, potete andare da vostra madre.
PLAC. Sì, sì, anderò da mia madre, per non darvi la spesa di far da pranzo per me.
GOTT. Ma voi prendete tutte le cose in sinistra parte; dite ch'io vi tratto male, e mi pare che voi mi trattiate peggio.
PLAC. Sì, è vero. Io sono la sofistica, io sono la stravagante.
GOTT. Via, se non volete ch'io vada, non anderò.
PLAC. No, no; andate pure. Non voglio che dite, che per causa mia...
GOTT. Ma vorrei vedervi tranquilla.
PLAC. In verità non è sì facile che mi vediate tranquilla.
GOTT. Ma perché? Cosa faccio per inquietarvi? Volete che dia da pranzo? Via, per contentarvi, lo farò. È tutto questo quello che vi dà pena?
PLAC. Eh, se non fosse altro che questo!
GOTT. Parlatemi, ditemi che cosa avete, se non parlate è impossibile ch'io vi capisca.
PLAC. Orsù, io sono una donna sincera, e non voglio aver da rimproverarmi d'aver taciuto. Mi fa specie il cambiamento ch'io vedo in voi di condotta, di genio, di inclinazione, e di temperamento. Una volta voi eravate allegro, gioviale, vi piaceva la compagnia, ed ora dico fra me stessa, è impossibile che Gottardo si sia cangiato tutto ad un tratto.
GOTT. Sapete chi mi ha fatto cangiare?
PLAC. Chi?
GOTT. Voi.
PLAC. Io?
GOTT. Sì, voi. Ora ho preso moglie, vi voglio bene, non penso che a voi, non mi curo d'altri divertimenti, ed ecco la ragione del mio cangiamento.
PLAC. Se la cosa fosse così, come dite..
GOTT. Ella è così, ve lo giuro.
PLAC. Eh caro Gottardo, una volta vi piaceva la compagnia delle gonnelle, e non vorrei che oggi fingeste meco di essere diventato un altro uomo, e poi andaste fuori di casa a divertirvi colle vostre sguaiatelle passate.
GOTT. È possibile che possiate pensare ad una simile bestialità?
PLAC. Qual premura avete d'andar oggi dal signor compare?
GOTT. Perché gli ho dato parola.
GOTT. Perché... mi ha tanto pregato.
PLAC. Vi ha pregato! badate bene, che se me n'accorgo, se me n'accorgo, povero voi.
GOTT. In verità, Placida, voi mi fate torto.
PLAC. Orsù, non parliamo altro. Voi andate da vostro compare, ed io anderò da mia madre.
GOTT. Benissimo. Aspettatemi lì, che verrò a prendervi avanti sera.
PLAC. Non vi è bisogno che venghiate a prendermi. Non so venire a casa da me?
GOTT. Ma se fosse tardi, non voglio che venghiate sola.
PLAC. Io non ho paura di nessuno.
GOTT. Ed io ho paura, e non voglio che venghiate sola.
PLAC. Bene, vi aspetterò. È meglio ch'io vada subito, perché mi ha pregato mia madre che vada, quando posso, a tagliarle delle camicie, e così le farò il piacere, e resto a pranzo da lei.
GOTT. Bene, andate e salutatela da parte mia, e ditele che circa al lino, di cui mi ha parlato... ma no, non le dite niente, che già verrò io a prendervi, e le parlerò.
PLAC. Non c'è bisogno che voi venghiate, poiché già può essere che non mi troviate.
GOTT. E perché può essere che non vi trovi?
PLAC. Perché può essere che, quando ho pranzato, ritorni a casa.
GOTT. Signora, voi aspettatemi.
PLAC. Oh quest'è bella! non posso venire a casa quando mi pare e piace?
GOTT. Signora no, quando vi dico che m'aspettiate.
PLAC. Ecco qui, vuol a suo modo. Mi contende fino le più picciole cose che non servono a niente, per dispetto, per astio, per ostinazione.
GOTT. Io non vi domando cose che non siano da domandare, e se voi ci avete delle difficoltà, vi sarà sotto qualche mistero.
PLAC. Mi maraviglio di voi...
GOTT. Datemi la chiave della porta.
GOTT. Sì, la chiave della porta.
PLAC. Non avete la vostra chiave? Che bisogno c'è della mia?
GOTT. Datemela, e non pensate altro.
PLAC. Ho capito. Ha paura ch'io venga a casa. Non son padrona di niente. Ecco la chiave. Si serva come comanda. (getta la chiave in terra)
GOTT. È la maniera questa di darmela? (con flemma)
PLAC. Povera me! Chi me l'avesse detto...
GOTT. Di che? (placidamente)
PLAC. Voi non mi volete più bene; voi siete annoiato di me.
GOTT. Oh via, Placida, non mi dite di queste cose.
PLAC. Lasciatemi stare. (in atto di partire)
GOTT. Venite qui, avanti d'andar via. Facciamo la pace.
PLAC. La pace? (calmandosi)
GOTT. Sì, la pace. (la prende per la mano)
PLAC. Datemi la mia chiave. (la vorrebbe prender di terra)
GOTT. Oh, la chiave poi no. (l'impedisce)
PLAC. Ostinato che siete! tenetela, non me n'importa niente. Vado da mia madre. Venite, non venite, fate quel che volete, non ci penso, non me ne curo; non vo' impazzire per voi. (parte per la porta di strada, e la chiude)