LIBRO
QUARTO
Ma la regina d'amoroso strale
già
punta il core, e ne le vene accesa
d'occulto
foco, intanto arde e si sface;
e
de l'amato Enea fra sé volgendo
il
legnaggio, il valore, il senno, l'opre,
e
quel che piú le sta ne l'alma impresso,
soave
ragionar, dolce sembiante,
tutta
notte ne pensa e mai non dorme.
Sorgea l'Aurora, quando surse anch'ella
cui
le piume parean già stecchi e spini;
e
con la sua diletta e fida suora
si
ristrinse e le disse: «Anna sorella,
che
vigilie, che sogni, che spaventi
son
questi miei? che peregrino è questo
che
qui novellamente è capitato?
Vedestu
mai sí grazioso aspetto?
Conoscesti
unqua il piú saggio, il piú forte,
e
'l piú guerriero? Io credo (e non è vana
la
mia credenza) che dal ciel discenda
veracemente.
L'alterezza è segno
d'animi
generosi. E che fortune,
e
che guerre ne conta! Io, se non fusse
che
fermo e stabilito ho nel cor mio
che
nodo marital piú non mi stringa,
poiché
'l primo si ruppe, e se d'ognuno
schiva
non fossi, solamente a lui
forse
m'inchinerei. Ché, a dirti 'l vero,
Anna
mia, da che morte e l'empio frate
mi
privâr di Sichèo, sol questi ha mosso
i
miei sensi e 'l mio core, e solo in lui
conosco
i segni de l'antica fiamma.
Ma
la terra m'ingoi, e 'l ciel mi fulmini,
e
ne l'abisso mi trabocchi in prima
ch'io
ti vïoli mai, pudico amore.
Col
mio Sichèo, con chi pria mi giungesti,
giungimi
sempre, e 'ntemerato e puro
entro
al sepolcro suo seco ti serba».
E
qui piangendo e sospirando tacque.
Anna
rispose: «O piú de la mia vita
stessa,
amata sorella, adunque sola
vuoi
tu vedova sempre e sconsolata
passar
questi tuoi verdi e florid'anni?
Abbiti
insino a qui fatto rifiuto
e
del getúlo Iarba e di tant'altri
possenti,
generosi e ricchi duci
peni
e fenici; ch'io di ciò ti scuso,
com'allor
dolorosa, e non amante.
Ma
poich'ami, ad amor sarai rubella,
e
ritrosa a te stessa? Ah! non sovvienti
qual
cinga il tuo reame assedio intorno?
com'ha
gl'insuperabili Getúli
da
l'una parte, i Numidi da l'altra,
fera
gente e sfrenata? indi le secche,
quinci
i deserti, e piú da lunge infesti
i
feroci Barcèi? Taccio le guerre
che
già sorgon di Tiro, e le minacce
del
fiero tuo fratello. Io penso certo
che
la gran Giuno, e tutto 'l ciel benigno
ne
si mostrasse allor che a' nostri liti
questi
legni approdaro. O qual cittade,
qual
imperio fia questo ! Quanto onore,
quanto
pro, quanta gloria a questo regno
ne
verrà, quando ei teco, e l'armi sue
saran
giunte a le nostre! Or via, sorella,
porgi
preci a gli dèi, fa' vezzi a lui,
assecuralo,
onoralo, intrattienlo:
ché
'l crudo verno, il tempestoso mare,
il
piovoso Orïone, i vènti, il cielo,
le
sconquassate navi in ciò ne dànno
mille
scuse di mora e di ritegno».
Con questo dir, che fu qual aura al foco
ond'era
il cor de la regina acceso,
l'infiammò,
l'incitò, speme le diede
e
vergogna le tolse. Andaro in prima
a
visitare i templi, a chieder pace
e
favor de' celesti, a porger doni,
a
far d'elette pecorelle offerta
a
Cerere, ad Apollo, al padre Bacco,
e,
pria che a tutti gli altri, a la gran Giuno,
cui
son le nozze e i maritaggi a cura.
La
regina ella stessa ornata e bella
tien
d'oro un nappo, e fra le corna il versa
d'una
candida vacca; o si ravvolge
intorno
a' pingui altari, ed ogni giorno
rinnova
i doni, e de le aperte vittime
le
palpitanti fibre, i vivi moti,
e
le spiranti viscere contempla,
e
con lor si consiglia. O menti sciocche
de
gl'indovini! E che ponno i delúbri,
e
i vóti, esterni aiuti, a mal ch'è dentro?
Nel
cor, ne le midolle e ne le vene
è
la piaga e la fiamma, ond'arde e père.
Arde
Dido infelice, e furïosa
per
tutta la città s'aggira e smania:
qual
ne' boschi di Creta incauta cerva
d'insidïoso
arcier fugge lo strale
che
l'ha già colta; e seco, ovunque vada,
lo
porta al fianco infisso. Or a diporto
va
con Enea per la città, mostrando
le
fabbriche, i disegni e le ricchezze
del
suo novo reame; or disïosa
di
scoprirgli il suo duol, prende consiglio:
poi
non osa, o s'arresta. E quando il giorno
va
dechinando, a convivar ritorna,
e
di nuovo a spïar de gli accidenti
e
de' fati di Troia, e nuovamente
pende
dal volto del facondo amante.
Tolti
da mensa, allor che notte oscura
in
disparte gli tragge, e che le stelle
sonno,
dal ciel caggendo, a gli occhi infondono;
dolente,
in solitudine ridotta,
ritirata
da gli altri, è sol con lui
che
le sta lunge, e lui sol vede e sente.
Talvolta
Ascanio, il pargoletto figlio
per
sembianza del padre in grembo accolto,
tenta,
se cosí può, l'ardente amore
o
spegnere, o scemare, o fargli inganno.
Le torri, i templi, ogn'edificio intanto
cessa
di sormontar; cessa da l'arme
la
gioventú. Le porte, il porto, il molo
non
sorgon piú; dismesse ed interrotte
pendon
l'opere tutte e la gran macchina
che
fea dianzi ira a' monti e scorno al cielo.
Vide
da l'alto la saturnia Giuno
il
furor di Didone, e tal che fama
e
rispetto d'onor piú non l'affrena;
onde
Venere assalse, e 'n cotal guisa
disdegnosa
le disse: «Una gran loda
certo,
un gran merto, un memorabil nome
tu
col fanciullo tuo, Ciprigna, acquisti
d'aver
due sí gran dii vinta una femina!
Io
so ben che guardinga e sospettosa
di
me ti rende e de la mia Cartago
il
temer di tuo figlio. Ma fia mai
che
questa téma e questa gelosia
si
finisca tra noi? Ché non piú tosto
con
una eterna pace e con un saldo
nodo
di maritaggio unitamente
ne
ristringemo? Ecco hai già vinto; e vedi
quel
che piú desïavi. Ama, arde, infuria:
con
ogni affetto è verso Enea tuo figlio
la
mia Dido rivolta. Or lui si prenda;
e
noi concordemente in pace abbiamo
ambedue
questo popolo in tutela;
né
ti sdegnar che sí nobil regina
serva
a frigio marito, e ch'ei le genti
n'aggia
di Tiro e di Cartago in dote».
Venere, che ben vide ove mirava
il
colpo di Giunone; e che l'occulto
suo
bersaglio era sol con questo avviso
distor
d'Italia il destinato impero
e
trasportarlo in Libia, incontro a lei
cosí
scaltra rispose: «E chi sí folle
sarebbe
mai ch'un tal fesse rifiuto
di
quel ch'ei piú desia, per teco averne,
teco
che tanto puoi, gara e tenzone,
quando
ciò che tu di' possibil fosse?
Ma
non so che si possa, né che 'l fato,
né
che Giove il permetta, che due genti
diverse,
come son Tiri e Troiani,
una
sola divenga. Tu consorte
gli
sei; tu ne 'l dimanda, e tu l'impetra,
ch'io,
per me, me n'appago ». «Ed io, - soggiunse
Giuno
- sopra di me l'incarco assumo,
ch'ei
ne 'l consenta. Or odi brevemente
il
modo che a ciò far già ne si porge.
Tosto
che 'l sol dimane uscirà fuori,
uscire
ancor l'innamorata Dido
col
troian duce a caccia s'apparecchia.
Ove
opportunamente a la foresta,
mentre
de' cacciatori e de' cavalli
andran
le schiere in volta, io loro un nembo
spargerò
sopra tempestoso e nero,
con
un turbo di grandine e di pioggia,
e
di sí fieri tuoni il cielo empiendo,
ch'indi
percossi i lor seguaci tutti,
andran
dispersi e d'atra nube involti.
Solo
con sola Dido Enea ridotto
in
un antro medesimo accôrrassi.
Io
vi sarò; saravvi anco Imeneo;
e
se del tuo voler tu m'assecuri,
io
farò sí ch'ivi ambidue saranno
di
nodo indissolubile congiunti».
Venere
in ciò non disdicendo, insieme
chinò
la testa: e de la dolce froda
dolcemente
sorrise. Uscio del mare
l'Aurora
intanto; ed ecco fuori armati
di
spiedi e di zagaglie, a suon di corni,
venirne
i cacciatori, altri con reti,
altri
con cani. Ha questi un gran molosso,
quegli
un veltro a guinzaglio, e lunghe file
van
di segugi incatenati avanti.
Scorrono
intorno i cavalier Massíli:
e
i maggior Peni, e' piú chiari Fenici
stanno
in sella aspettando anzi al palagio,
mentre
ad uscir fa la regina indugio;
e
presto intanto d'ostro e d'oro adorno
il
suo ginnetto, e, vagamente fiero,
ringhia,
e sparge la terra, e morde il freno.
Esce a la fine accompagnata intorno
da
regio stuolo, e non con regio arnese,
ma
leggiadro e ristretto. È la sua veste
di
tirio drappo, e d'arabo lavoro
riccamente
fregiata: è la sua chioma
con
nastri d'oro in treccia al capo avvolta,
tutta
di gemme come stelle aspersa;
e
d'oro son le fibbie, onde sospeso
le
sta d'intorno de la gonna il lembo.
Da
gli omeri le pende una faretra,
dal
fianco un arco. I Frigi, e 'l bello Iulo
le
cavalcano avanti; e via piú bello,
ma
di beltà feroce e grazïosa,
le
giva Enea con la sua schiera a lato.
Qual
se ne va da Licia e da le rive
di
Xanto, ove soggiorna il freddo inverno,
a
la materna Delo il biondo Apollo,
allor
che festeggiando accolti e misti
infra
gli altari i Drïopi, i Cretesi,
e
i dipinti Agatirsi in varie tresche
gli
s'aggirano intorno; o quando spazia
per
le piagge di Cinto, a l'aura sparsi
i
bei crin d'oro, e de l'amata fronde
le
tempie avvolto, e di faretra armato;
tal
fra la gente si mostrava, e tale
era
ne' gesti e nel sembiante Enea,
sovra
d'ogni altro valoroso e vago.
Poscia che furo a' monti, e nel piú folto
penetrâr
de le selve, ecco da i balzi
de
l'alte rupi uscir capri e camozze;
e
cervi altronde, che, d'armenti in guisa,
quasi
in un gruppo, spaventati a torme
fuggono
al piano, e fan nubi di polve.
Di
ciò gioioso il giovinetto Iulo
sul
feroce destrier per la campagna
gridando
e traversando, or questo arriva,
or
quel trapassa: e nel suo core agogna
tra
le timide belve o d'un cignale
aver
rincontro, o che dal monte scenda
un
velluto leone. In questa il cielo
mormorando
turbossi, e pioggia e grandine
diluvïando,
d'ogni parte in fuga
Ascanio,
i Teucri, i Tiri ai piú propinqui
tetti
si ritiraro; e fiumi intanto
sceser
da' monti, ed allagaro i piani.
Solo
con sola Dido Enea ridotto
in
un antro medesimo s'accolse.
Diè,
di quel che seguí, la terra segno
e
la pronuba Giuno. I lampi, i tuoni
fûr
de le nozze lor le faci e i canti;
testimoni
assistenti e consapevoli
sol
ne fûr l'aria e l'antro; e sopra 'l monte
n'ulularon
le ninfe. Il primo giorno
fu
questo, e questa fu la prima origine
di
tutti i mali, e de la morte alfine
de
la Regina; a cui poscia non calse
né
de l'indegnità, né de l'onore,
né
de la secretezza. Ella si fece
moglie
chiamar d'Enea; con questo nome
ricoverse
il suo fallo; e di ciò tosto
per
le terre di Libia andò la Fama.
È questa Fama un mal, di cui null'altro
è
piú veloce; e com' piú va, piú cresce;
e
maggior forza acquista. È da principio
picciola
e debil cosa, e non s'arrischia
di
palesarsi; poi di mano in mano
si
discopre e s'avanza, e sopra terra
sen
va movendo e sormontando a l'aura,
tanto
che 'l capo infra le nubi asconde.
Dicon che già la nostra madre antica,
per
la ruina de' Giganti irata
contr'a'
celesti, al mondo la produsse,
d'Encèlado
e di Ceo minor sorella;
mostro
orribile e grande, d'ali presta
e
veloce de' piè; che quante ha piume,
tanti
ha sotto occhi vigilanti, e tante
(meraviglia
a ridirlo) ha lingue e bocche
per
favellare, e per udire orecchi.
Vola
di notte per l'oscure tenebre
de
la terra e del ciel senza riposo,
stridendo
sempre, e non chiude occhi mai.
Il
giorno sopra tetti, e per le torri
sen
va de le città, spïando tutto
che
si vede e che s'ode: e seminando,
non
men che 'l bene e 'l vero, il male e 'l falso
di
rumor empie e di spavento i popoli.
Questa,
gioiosa, bisbigliando in prima,
poscia
crescendo, del seguíto caso
molte
cose dicea vere e non vere.
Dicea, ch'un di troiana stirpe uscito,
venuto
era in Cartago, a cui degnata
s'era
la bella Dido esser congiunta.
Queste e cose altre assai, la sozza dea
per
le bocche degli uomini spargendo,
tosto
in Getulia al gran Iarba pervenne;
e
con parole e con punture acerbe
sí
de l'offeso re l'animo accese,
ch'arse
d'ira e di sdegno. Era d'Ammone,
e
de la garamantide Napea,
già
rapita da lui, questo re nato,
onde
a Giove suo padre entro a' suoi regni
cento
gran templi e cento pingui altari
avea
sacrati, e di continui fochi
mantenendo
agli dèi vigilie eterne
di
vittime, di fiori e di ghirlande
gli
tenea sempre riveriti e cólti.
Ei
sí com'era afflitto e conturbato
da
l'amara novella, anzi agli altari
e
fra gli dèi, le mani al cielo alzando,
cotali,
umile insieme e disdegnoso,
porse
prieghi e querele: «Onnipotente
padre,
a cui tanti opimi e sontuosi
conviti,
e di Lenèo sí larghi onori
offrisce
oggi de' Mauri il gran paese,
vedi
tu queste cose? o pure invano
tonando
e folgorando ci spaventi?
Una
femina errante, una che dianzi
ebbe
a prezzo da me nel mio paese,
per
fondar la sua terra un picciol sito:
una
ch'arena ha per arare, ha vitto,
loco
e leggi da me, me per marito
rifiuta;
e di sé donno e del suo regno
ha
fatto Enea. Questo or novello Pari
mitrato
il mento e profumato il crine,
va
del mio scorno e del suo furto altero:
ed
io qui me ne sto vittime e doni
a
te porgendo, e son tuo figlio indarno».
Cosí Iarba dicea; né da l'altare
s'era
ancor tolto, quando il padre udillo;
e
gli occhi in vèr Cartagine torcendo
vide
gli amanti ch'a gioire intesi
avean
posti in oblio la fama e i regni.
Onde
vòlto a Mercurio: «Va, figliuolo, -
gli
disse, - chiama i vènti, e ratto scendi
là
've sí neghittoso il troian duce
bada
in Cartago, e 'l destinato impero
non
gradisce e non cura; e ciò gli annunzia
da
parte mia, che Venere sua madre
non
per tal lo mi diede, e ch'a tal fine
non
è stato da lei da l'armi greche
già
due volte scampato. EIla promise
ch'ei
sarebbe atto a sostener gl'imperi
e
le guerre d'Italia, a trar qua suso
la
progenie di Teucro, a porre il freno,
a
dar le leggi al mondo. A ciò se 'l pregio
di
sí gran cose e de la gloria stessa
non
muove lui, perché non guarda al figlio?
Perché
di tanta sua grandezza il froda,
di
quanta fian Lavinio ed Alba e Roma
ne'
secoli a venire? E con che speme,
con
che disegno in Libia fa dimora,
e
co' nemici suoi? Navighi in somma.
Questo
dilli in mio nome». Udito ch'ebbe
Mercurio,
ad eseguir tosto s'accinse
i
precetti del padre; e prima a' piedi
i
talari adattossi. Ali son queste
con
penne d'oro, ond'ei l'aria trattando,
sostenuto
da' vènti, ovunque il corso
volga,
o sopra la terra, o sopra al mare,
va
per lo ciel rapidamente a volo.
Indi
prende la verga, ond'ha possanza
fin
ne l'inferno, onde richiama in vita
l'anime
spente, onde le vive adduce
ne
l'imo abisso, e dà sonno e vigilia
e
vita e morte; aduna e sparge i vènti,
e
trapassa le nubi. Era volando
giunto
là 've d'Atlante il capo e 'l fianco
scorgea,
de le cui spalle il cielo è soma;
d'Atlante
la cui testa irta di pini,
di
nubi involta, a piogge, a vènti, a nembi
è
sempre esposta; il cui mento, il cui dorso,
e
per nevi e per gel canuto e gobbo,
è
da fiumi rigato. In questo monte,
che
fu padre di Maia, avo di lui,
primamente
fermossi. Indi calando
si
gittò sovra l'onde, e lungo al lito
di
Libia se n'andò, l'aure secando
in
quella guisa che marino augello
d'un'alta
ripa, a nuova pesca inteso,
terra
terra sen va tra rive e scogli
umilmente
volando. A pena giunto
era
in Cartago, che davanti Enea
si
vide, intento a dar siti e disegni
ai
superbi edifici. Avea dal manco
lato
una storta, di dïaspro e d'oro
guarnita,
e di stellate gemme adoma.
Dal
tergo gli pendea di tiria ardente
porpora
un ricco manto, arnesi e doni
de
la sua Dido, ch'ella stessa intesta
avea
la tela, e ricamati i fregi.
Né
'l vide pria, che gli fu sopra, e disse:
«Tu te ne stai sí neghittosamente,
Enea,
servo d'amor, ligio di donna,
a
fondar l'altrui regno; e 'l tuo non curi?
A
te mi manda il regnator celeste,
ch'io
ti dica 'n sua vece: "Che pensiero,
che
studio è il tuo? con che speranza indugi
in
queste parti? Se 'l tuo proprio onore,
se
la propria grandezza non ti spinge;
ché
non miri a' tuoi posteri, al destino,
a
la speranza del tuo figlio Iulo,
a
cui si deve il glorïoso impero
de
l'Italia e di Roma?"» E piú non disse,
né
piú risposta attese; anzi dicendo,
uscio
d'umana forma, e dileguossi.
Stupí, si raggricciò, tremante e fioco
divenne
il troian duce, il gran precetto,
e
chi 'l portava, e chi 'l mandava udendo.
Già
pensa di ritrarsi. Ma che modo
terrà
con Dido ad impetrar commiato?
Con
quai parole assalirà, con quali
disporrà
mai la furïosa amante?
Pensa,
volge, rivolge: in un momento
or
questo, or quel partito, or tutti insieme
va
discorrendo; ed ora ad un s'appiglia,
ed
ora a l'altro. Si risolve al fine:
e
fatto a sé venir Memmo, Sergesto,
e
l'ardito Cloanto: «Andate, - disse -
raunate
i compagni; itene al porto,
e
con bel modo chetamente l'arme
apprestate
e l'armata; e non mostrate
segno
di novità, né di partenza.
Intanto
io troverò loco opportuno,
e
tempo accomodato e destro modo
d'ottener
da quest'ottima regina
che
da lei con dolcezza mi diparta,
nulla
sapendo ancor di mia partita,
né
sperando tal fine a tanto amore».
A l'ordine d'Enea lieti i compagni
obbedîr
tutti; e prestamente in punto
fu
ciò che impose. Ma Didon del tratto
tosto
s'avvide: e che non vede amore?
Ella
pria se n'accorse; ch'ogni cosa
temea,
benché secura. E già la stessa
Fama
importunamente le rapporta
armarsi
i legni, esser i Teucri accinti
a
navigare. Onde d'amore e d'ira
accesa,
infurïata, e fuori uscita
di
se medesma, imperversando scorre
per
tutta la città. Quale a i notturni
gridi
di Citeron Tïade, allora
che
'l trïennal di Bacco si rinnova,
nel
suo moto maggior si scaglia e freme,
e
scapigliata e fiera attraversando,
e
mugolando al monte si conduce;
tal
era Dido, e da tal furia spinta
Enea
da sé con tai parole assalse:
«Ah perfido! Celar dunque sperasti
una
tal tradigione, e di nascosto
partir
de la mia terra? E del mio amore,
de
la tua data fé, di quella morte
che
ne farà la sfortunata Dido,
punto
non ti sovviene, e non ti cale?
Forse
che non t'arrischi in mezzo al verno
tra'
piú fieri Aquiloni a l'onde esporti?
Crudele!
Or che faresti, se straniere
non
ti fosser le terre, ignoti i lochi
che
tu procuri? E che faresti, quando
fosse
ancor Troia in piede? A Troia andresti
di
questi tempi? E me lasci, e me fuggi?
Deh!
per queste mie lagrime, per quello
che
tu della tua fé pegno mi desti
(poiché
a Dido infelice altro non resta
che
a sé tolto non aggia), per lo nostro
marital
nodo, per l'imprese nozze,
per
quanti ti fei mai, se mai ti fei
commodo
o grazia alcuna, o s'alcun dolce
avesti
unqua da me; ti priego ch'abbi
pietà
del dolor mio, de la ruina
che
di ciò m'avverrebbe; e (se piú luogo
han
le preci con te) che tu del tutto
lasci
questo pensiero. Io per te sono
in
odio a Libia tutta, a' suoi tiranni,
a'
miei Tiri, a me stessa. Or come in preda
solo
a morte mi lasci, ospite mio?
ch'ospite
sol mi resta di chiamarti,
di
marito che m'eri. E perché deggio,
lassa,
viver io piú? Per veder forse
che
'l mio fratel Pigmalïon distrugga
queste
mie mura, o 'l tuo rivale Iarba
in
servitú m'adduca? Almeno avanti
la
tua partita avess'io fatto acquisto
d'un
pargoletto Enea che per le sale
mi
scherzasse d'intorno, e solo il volto,
e
non altro, di te sembianza avesse;
ch'esser
non mi parrebbe abbandonata,
né
delusa del tutto». A tai parole
Enea
di Giove al gran precetto affisso
tenea
il pensiero e gli occhi immoti e saldi;
e
brevemente le rispose al fine:
«Regina, e' non fia mai ch'io non mi tenga
doverti
quanto forse unqua potessi
rimproverarmi.
E non fia mai ch'Elisa
non
mi ricordi, infin che ricordanza
avrò
di me medesmo, e che 'l mio spirto
reggerà
queste membra. Ora in discarco
di
me dirò sol questo, che sperato,
né
pensato ho pur mai d'allontanarmi
da
te, come tu di'. Se 'l mio destino
fosse
che la mia vita e i miei pensieri
a
mia voglia reggessi, a Troia in prima
farei
ritorno: raccôrrei le dolci
sue
disperse reliquie: a la mia patria
di
nuovo renderei la vita e i figli,
e
la reggia e le torri e me con loro.
Ma
ne l'Italia il mio fato mi chiama.
Italia
Apollo in Delo, in Licia, ovunque
vado,
o mando a spïarne, mi promette.
Quest'è
l'amor, quest'è la patria mia.
Se
tu, che di Fenicia sei venuta,
siedi
in Cartago, e ti diletti e godi
del
tuo libico regno; qual divieto,
qual
invidia è la tua, che i miei Troiani
prendano
Ausonia? Non lece anco a noi
cercar
de' regni esterni? E non cuopre ombra
la
terra mai, non mai sorgon le stelle,
che
del mio padre una turbata imago
non
veggia in sogno, e che di ciò ricordo
non
mi porga e spavento. A tutte l'ore
del
mio figlio sovviemmi e de l'ingiuria
che
riceve da me sí caro pegno,
se
del regno d'Italia io lo defraudo,
che
gli son padre, quando il fato e Giove
ne
'l privilegia. E pur dianzi mi venne
dal
ciel mandato il messaggier celeste
a
portarmi di ciò nuova imbasciata
dal
gran re degli dèi. Donna, io ti giuro
per
la lor deità, per la salute
d'ambedue
noi, che con quest'occhi il vidi
qui
dentro in chiaro lume; e la sua voce
con
quest'orecchi udii. Rimanti adunque
di
piú dolerti; e con le tue querele
né
te, né me piú conturbare. Italia
non
a mia voglia io seguo». E piú non disse.
Ella, mentre dicea, crucciata e torva
lo
rimirava, e volgea gli occhi intorno
senza
far motto. Alfin, da sdegno vinta
cosí
proruppe: «Tu, perfido, tu
sei
di Venere nato? Tu del sangue
di
Dardano? Non già; ché l'aspre rupi
ti
produsser di Caucaso, e l'Ircane
tigri
ti fûr nutrici. A che tacere?
Il
simular che giova? E che di meglio
ne
ritrarrei? Forse ch'a' miei lamenti
ha
mai questo crudel tratto un sospiro,
o
gittata una lagrima, o pur mostro
atto
o segno d'amore, o di pietade?
Di
che prima mi dolgo? di che poi?
Ah!
che né Giuno omai, né Giove stesso
cura
di noi: né con giust'occhi mira
piú
l'opre nostre. Ov'è qua giú piú fede?
E
chi piú la mantiene? Era costui
dianzi
nel lito mio naufrago, errante,
mendíco.
Io l'ho raccolto, io gli ho ridotti
i
suoi compagni, e i suoi navili insieme,
ch'eran
morti e dispersi; ed io l'ho messo
(folle!)
a parte con me del regno mio,
e
di me stessa. Ahi, da furor, da foco
rapir
mi sento! Ora il profeta Apollo,
or
le sorti di Licia, ora un araldo,
che
dal ciel gli si manda, a gran faccende
quinci
lo chiama. Un gran pensiero han certo
di
ciò gli dèi. D'un gran travaglio è questo
a
lor quïete. Or va', che per innanzi
piú
non ti tegno, e piú non ti contrasto.
Va'
pur, segui l'Italia, acquista i regni
che
ti dan l'onde e i venti. Ma se i numi
son
pietosi, e se ponno, io spero ancora
che
da' vènti e da l'onde e da gli scogli
n'avrai
degno castigo; e che piú volte
chiamerai
Dido, che lontana ancora
co'
neri fuochi suoi ti fia presente:
e
tosto che di morte il freddo gelo
l'anima
dal mio corpo avrà disgiunta,
passo
non moverai che l'ombra mia
non
ti sia intorno. Avrai, crudele, avrai
ricompensa
a' tuoi merti, e ne l'inferno
tosto
me ne verrà lieta novella».
Qui
'l suo dire interruppe; e lui per téma
confuso
e molto a replicarle inteso
lasciando,
con disdegno e con angoscia
gli
si tolse davanti. Incontanente
le
fûr l'ancelle intorno; e sí com'era
egra
e dolente, entro al suo ricco albergo
le
diêr sovra le piume agio e riposo.
Enea, quantunque pio, quantunque afflitto
e
d'amore infiammato e di desire
di
consolar la dolorosa amante,
nel
suo core ostinossi. E fermo e saldo
d'obbedire
a gli dèi fatto pensiero,
calossi
al mare, e i suoi legni rivide.
Allor
furo in un tempo unti e rispinti
e
posti in acqua; e, per la fretta, i remi
diventarono
i rami che dal bosco
si
portavano allor frondosi e rozzi.
Era a veder da la cittade al porto
de'
Teucri, de le ciurme, e de le robe
ch'al
mar si conducean, pieno il sentiero:
qual
è, quando le provvide formiche
de
le lor vernaricce vettovaglie
pensose
e procaccevoli, si dànno
a
depredar di biade un grande acervo;
che
va dal monte ai ripostigli loro
la
negra torma, e per angusta e lunga
sèmita
le campagne attraversando,
altre
al carreggio intese o lo s'addossano,
o
traendo o spingendo lo conducono;
altre
tengon le schiere unite, ed altre
castigan
l'infingarde; e tutte insieme
fan
che tutta la via brulica e ferve.
Che cor, misera Dido, che lamenti
erano
allora i tuoi, quando da l'alto
un
tal moto scorgevi, e tanti gridi
ne
sentivi dal mare? Iniquo amore,
che
non puoi tu ne' petti de' mortali?
Ella
di nuovo al pianto, a le preghiere,
a
sottoporsi a l'amoroso giogo
da
la tua forza è suo malgrado astretta.
Ma
per fare ogni schermo, anzi che muoia,
la
sorella chiamando: «Anna, - le disse -
tu
vedi che s'affrettano, e sen vanno.
Vedi
già loro in su la spiaggia accolti,
le
vele in alto, e le corone in poppa.
Sorella
mia, s'avessi un tal dolore
antiveder
potuto, io potrei forse
anco
soffrirlo. Or questo solo affanno
prendi
per la tua misera sirocchia,
poiché
te sola quel crudele ascolta,
e
sol di te si fida, e i lochi e i tempi
sai
d'esser seco e di trattar con lui;
truova
questo superbo mio nimico,
e
supplichevolmente gli favella.
Dilli
che Dido io sono, e che non fui
in
Aulide co' Greci a far congiura
contra
a' Troiani; e che di Troia a' danni
né
i miei legni mandai, né le mie genti.
Dilli
che né le ceneri, né l'ombre
né
del suo padre mai, né d'altri suoi
non
vïolai. Qual dunque o mio demerto
o
sua durezza fa ch'ei non ascolti
il
mio dire, e me fugga, e sé precipiti?
Chiedili
per mercé dell'amor mio,
per
salvezza di lui, per la mia vita,
ch'indugi
il suo partir tanto che 'l mare
sia
piú sicuro e piú propizi i vènti.
Né
piú del maritaggio io lo richieggio,
c'ha
già tradito, né vo' piú che manchi
del
suo bel Lazio, o i suoi regni non curi.
Un
picciol tempo, e d'ogni obbligo sciolto
io
gli dimando, e tanto o di quïete,
o
d'intervallo al mio cieco furore,
ch'in
parte il duol disacerbando, impari
a
men dolermi. Questo è 'l dono estremo
che
da lui per tuo mezzo agogna e brama
questa
tua miserabile sorella:
e
se tu lo m'impetri, altro che morte
forza
non avrà mai ch'io me n'oblii».
Queste e tali altre cose ella piangendo
dicea
con Anna, ed Anna al frigio duce
disse,
ridisse, e riportò piú volte
or
da l'una or da l'altro, e tutte in vano;
ché
né pianti, né preci, né querele
punto
lo muovon piú. Gli ostano i fati,
e
solo in ciò gli ha dio chiuse l'orecchie;
benché
dolce e trattabile e benigno
fusse
nel resto. Come annosa e valida
quercia,
che sia ne l'alpi esposta a Borea,
s'or
da l'uno or da l'altro de' suoi turbini
è
combattuta, si scontorce e títuba:
stridono
i rami e 'l suol di frondi spargesi,
e
'l tronco al monte infisso immoto e solido
se
ne sta sempre; e quanto sorge a l'aura
con
la sua cima, tanto in giú stendendosi
se
ne va con le barbe infino agl'inferi:
cosí,
da preci e da querele assidue
battuto,
duolsi il gran Troiano ed angesi,
e
con la mente in sé raccolta e rigida
gitta
indarno per lei sospiri e lagrime.
La sfortunata Dido, poiché tronca
si
vide ogni speranza, spaventata
dal
suo fato, e di sé schiva e del sole,
disïò
di morire; e gran portenti
di
ciò presagio e fretta anco le fêro.
Ella,
mentre a gli altari incensi e doni
offria
devota (orribil cosa a dire!),
vide
avanti di sé cogli occhi suoi
farsi
lurido e negro ogni liquore,
e
'l puro vin cangiarsi in tetro sangue:
e
'l vide, e 'l tacque, e 'nfino a la sorella
lo
tenne ascoso. Entro al suo regio albergo
avea
di marmo un bel delúbro eretto,
e
dedicato al suo marito antico.
Questo
con molto studio, e molt'onore
fu
mai sempre da lei di bianchi velli
e
di festiva fronde ornato e cinto.
Quinci
notturne voci udir le parve
del
suo caro Sichèo che la chiamasse;
e
nel suo tetto un solitario gufo
molte
fïate con lugúbri accenti
fe'
di pianto una lunga querimonia.
Oltre
a ciò da l'antiche profezie,
da
pronostici orrendi e spaventosi
de
la vicina morte era ammonita.
Vedeasi
Enea tutte le notti avanti
con
fera imago, che turbata e mesta
la
tenea sempre. Le parea da tutti
restare
abbandonata, e per un lungo
e
deserto cammino andar solinga
de'
suoi Tiri cercando. In cotal guisa
le
schiere de l'Eumènidi vedea
Pèntëo
forsennato, e doppio il sole
e
doppia Tebe. In cotal guisa Oreste
per
le scene imperversa, e furïoso
vede,
fuggendo, la sua madre armata
di
serpenti e di faci, e 'n su le porte
le
Furie ultrici. Or poi che la meschina
fu
da tanto furor, da tanto affanno
oppressa
e vinta, e di morir disposta,
divisò
fra se stessa il tempo e 'l modo:
ed
Anna, sí com'era afflitta e mesta,
a
sé chiamando, il suo fiero consiglio
celò
nel core, e nel sereno volto
spiegò
gioia e speranza: «Anna, - dicendo -
rallegrati
con me, che al fin trovato
ho
com'io debba o racquistar quell'empio,
o
ritôrmi da lui. Nel lito estremo
de
l'Oceàn, là dove il sol si corca,
de
l'Etïopia a l'ultimo confino,
e
presso a dove Atlante il ciel sostiene,
giace
un paese, ond'ora è qui venuta
una
sacerdotessa incantatrice,
che,
massíla di gente, è stata poi
del
tempio de l'Espèridi ministra,
e
del drago nudrice, e de le piante
del
pomo d'oro guardïana un tempo.
Questa, d'umido mèle e d'oblïosi
papaveri
composto un suo miscuglio,
promette
con parole e con malíe
altri
sciôr da l'amore, altri legare,
com'a
lei piace; distornare i fiumi,
ritrar
le stelle, e convocar per forza
le
notturne fantasme. Udrai la terra
mugghiar
sotto a' tuoi piè. Vedrai da' monti
calar
gli orni e le querce. Io per gli dèi,
per
te, per la tua vita a me sí cara,
ti
giuro, suora mia, che mal mio grado
m'adduco
a questi magici incantesmi;
ma
gran forza mi spinge. Or va, sorella;
scegli
per entro a le mie stanze un luogo
il
piú remoto e solo, a l'aura esposto.
Ivi
ergi una gran pira, e vi conduci
l'armi
che a la mia camera sospese
lasciò
quel disleale, e quelle spoglie,
in
somma ogni suo arnese. Ché la maga
cosí
m'impone, e vuol ch'ogni memoria,
ogni
segno di lui si spenga e pèra».
Cosí detto, si tacque, e di pallore
tutta
si tinse. Non però s'avvide
Anna
che sotto a' nuovi sacrifici
si
celasse di lei morte sí fera:
ché
sí fero concetto non le venne,
e
non temé che peggio le avvenisse
che
in morte di Sichèo. Tosto fe' dunque
quel
ch'imposto le fu. Fatta la pira,
e
d'ilici e di tede aride e scisse
altamente
composta, la regina
d'atre
ghirlande e di funeste frondi
ornar
la fece intorno: indi le spoglie
e
la spada e l'effigie de l'amante
sopra
a giacer vi pose, ben secura
di
ciò che n'avverrebbe. Eran d'intorno
gli
altari eretti; era tra lor la maga
scapigliata
e discinta; e con un tuono
di
voce formidabile invocava
trecento
deità, l'Erebo, il Cao,
Ècate
con tre forme, e con tre facce
la
vergine Dïana. Avea già sparse
le
finte acque d'Averno, e i suffumigi
fatti
de le nocive erbe novelle
che
per punti di luna, e con la falce
d'incantato
metallo eran segate.
Si
fe' venir la malïosa carne
che
de la fronte al tenero pulledro
con
l'amor de la madre si divelle.
Essa
stessa regina il farro e 'l sale
con
le man pie sovr'a gli altari impone,
e
d'un piè scalza, e di tutt'altro sciolta,
solo
accinta a morir, per testimoni
chiama
li dèi. Protestasi a le stelle
del
suo fato consorti: e s'alcun nume
mira
a gli afflitti e sfortunati amanti,
questo
prega e scongiura che ragione
e
ricordo ne tenga, e ne gli caglia.
Era la notte; e già di mezzo il corso
cadean
le stelle; onde la terra e 'l mare,
le
selve, i monti e le campagne tutte,
e
tutti gli animali, i bruti, i pesci,
e
i volanti e i serpenti e ciò che vive
avea
da ciò che la lor vita affanna
tregua,
silenzio, oblio, sonno e riposo.
Ma
non Dido infelice, a cui la notte
né
gli occhi grava, né 'l pensiero alleggia;
anzi
maggior col tramontar del sole
in
lei risorge l'amorosa cura:
e
non men che d'amor, d'ira avvampando,
cosí
fra sé farnetica e favella:
«E che farò cosí delusa poi?
Chi
piú mi seguirà de' primi amanti?
Proferirommi
per consorte io stessa
d'un
Zingaro, d'un Moro, o d'un Aràbo,
quando
n'ho vilipesi e rifiutati
tanti
e tai, tante volte? Andrò co' Teucri
in
su l'armata? Mi farò soggetta,
di
regina ch'io sono, e serva a loro?
Sí
certo, che gran pro fin qui riporto
de
le mie loro usate cortesie;
e
grado me n'avranno, e grazia poi.
Ma
ciò, dato ch'io voglia, chi permette
ch'io
l'eseguisca? Chi cosí schernita
volentier
mi raccoglie? Ahi sfortunata
Dido!
ch'ancor non vedi a che sei giunta,
e
le frodi non sai di questa iniqua
schiatta
di Laomedonte. E poi, che fia
per
questo? Deggio sola in compagnia
di
marinari andar femina errante?
o
condur meco i miei Fenici tutti
con
altra armata? e trarli un'altra volta
d'un'altra
patria in mare, in preda a' vènti
senz'alcun
pro, senza cagione alcuna,
quando
anco a pena di Sidon gli trassi
per
ritôrli da man d'empio tiranno?
Ah!
muor piú tosto, come degnamente
hai
meritato; e pon col ferro fine
al
tuo grave dolore. Ah, mia sorella!
tu
sei prima cagion di tanto male;
tu,
vinta dal mio pianto, in quest'angoscia
m'hai
posta, e data ad un nemico in preda;
ché
dovea vita solitaria e fera
menar
piú tosto, che commetter fallo
sí
dannoso e sí grave, e romper fede
al
cener di Sichèo». Questi lamenti
uscian
del petto a l'affannata Dido;
quando
già di partir fermo e parato
Enea,
per riposar pria che sciogliesse,
s'era
a dormir sopra la poppa agiato.
Ed
ecco un'altra volta in sogno, avanti
del
medesmo celeste messaggiero
gli
appar l'imago, con quel volto stesso,
con
quel color, con quella chioma d'oro
con
che lo vide pria giovane e bello;
e
da la stessa voce udir gli parve:
«Tu corri, Enea, sí gran fortuna, e dormi?
Non
senti qual ti spira aura seconda?
Dido
cose nefande ordisce ed osa
certa
già di morire, e d'ira accesa
a
dire imprese è vòlta; e tu non fuggi,
mentre
fuggir ti lece? A mano a mano
di
legni travagliar vedrassi il mare,
di
fochi il lito, e di furor le genti
incontra
a te, se tu qui 'l giorno aspetti.
Via
di qua tosto: da' le vele a' vènti.
Femina
è cosa mobil per natura,
e
per disdegno impetuosa e fera».
E
qui tacendo entrò nel buio, e sparve.
Enea, preso da súbito spavento,
destossi,
e fe' destar la gente tutta:
«Via,
compagni, - dicendo - a i banchi, e a i remi;
ch'or
d'altro uopo ne fa che di riposo.
Fate
vela, sciogliete: ché di nuovo
precetto
ne si fa dal cielo e fretta.
Ecco,
qual tu ti sia, messo celeste,
che
'l tuo detto seguiamo; e tu benigno
n'aíta
e 'l cielo e 'l mar ne rendi amico».
Ciò detto, il ferro strinse, e fulminando
del
suo legno la gómona recise.
Cosí
fêr gli altri, e col medesmo ardore
tutti
insieme sciogliendo, travasando,
e
spingendosi in alto, in un momento
lasciaro
il lito; e 'l mar, da i legni ascoso,
si
fe' per tanti remi e tante vele
spumoso
e bianco. Era vermiglio e rancio
fatto
già de la notte il bruno ammanto,
lasciando
di Titon l'Aurora il letto:
quando
d'un'alta loggia la regina
tutto
scoprendo, poi ch'a piene vele
vide
le frige navi irne a dilungo,
e
vòti i liti, e senza ciurma il porto;
contra
sé fatta ingiurïosa e fera,
il
delicato petto e l'auree chiome
si
percoté, si lacerò piú volte;
e
'ncontra al ciel rivolta: «Ah, Giove!, - disse -
dunque
pur se n'andrà? Dunque son io
fatta
d'un forestier ludibrio e scherno
nel
regno mio? Né fia chi prenda l'armi?
Né
chi lui segua, né i suoi legni incenda?
Via
tosto a le lor navi, a l'armi, al foco;
mano
a le vele, a' remi; oltre, nel mare!
Che
parlo? O dove sono? E che furore
è
'l tuo, Dido infelice? Iniquo fato,
misera,
ti persegue. Allor fu d'uopo
ciò
che tu di', quando di te signore
e
del tuo regno il festi. Ecco la destra,
ecco
la fede sua. Questi è quel pio
che
seco adduce i suoi patrii Penati,
e
'l vecchio padre a gli omeri s'impose.
Non
potea farlo prendere e sbranarlo?
e
gittarlo nel mare? ancider lui
con
tutti i suoi? dilanïare il figlio,
e
darlo in cibo al padre? Oh, perigliosa
fôra
stata l'impresa! E di periglio
la
si fosse, e di morte; in ogni guisa
morir
dovendo, a che temere indarno?
Arsi
avrei gli steccati, incesi i legni,
occiso
il padre, il figlio, il seme in tutto
di
questa gente, e me spenta con loro.
Sole, a cui de' mortali ogni opra è conta;
Ècate,
che ne' trivi orribilmente
sei
di notte invocata; ultrici Furie,
spiriti
inferni, e dii de l'infelice
Dido
ch'a morte è giunta, il mio non degno
caso
riconoscete, e insieme udite
queste
dolenti mie parole estreme.
Se
forza, se destino, se decreto
è
di Giove e del cielo, e fisso e saldo
è
pur che questo iniquo in porto arrivi
e
terra acquisti; almen da fiera gente
sia
combattuto, e, de' suoi fini in bando,
da
suo figlio divelto implori aiuto,
e
perir veggia i suoi di morte indegna.
Né
leggi che riceva, o pace iniqua
che
accetti, anco gli giovi; né del regno,
né
de la vita lungamente goda:
ma
caggia anzi al suo giorno, e ne l'arena
giaccia
insepolto. Questi prieghi estremi
col
mio sangue consacro. E voi, miei Tiri,
coi
discesi da voi, tenete seco
e
co' posteri suoi guerra mai sempre.
Questi
doni al mio cenere mandate,
morta
ch'io sia. Né mai tra queste genti
amor
nasca, né pace; anzi alcun sorga
de
l'ossa mie, che di mia morte prenda
alta
vendetta, e la dardania gente
con
le fiamme e col ferro assalga e spenga
ora,
in futuro e sempre; e sian le forze
a
quest'animo eguali: i liti ai liti
contrari
eternamente, l'onde a l'onde,
e
l'armi incontro a l'armi, e i nostri ai loro
in
ogni tempo». E ciò detto, imprecando,
schiva
di piú veder l'eterea luce,
affrettò
di morire. E Barce in prima
vistasi
intorno, una nutrice antica
del
suo Sichèo (ché la sua propria in Tiro
era
cenere già): «Cara nutrice, -
le
disse - va', mi chiama Anna mia suora,
e
le di' che solleciti, e che l'onda
del
fiume e l'ostie e i suffumigi adduca,
e
ciò ch'è d'uopo, come pria le dissi,
a
prepararmi: ché finire intendo
il
sacrifizio che a Plutone inferno
solennemente
ho di già fare impreso,
per
fine imporre a' miei gravi martiri,
e
dar foco a la pira, ov'è l'imago
di
quell'empio Troiano». A tal precetto
mossa
la vecchiarella, a suo potere
lentamente
affrettossi ad eseguirlo.
Dido nel suo pensiero immane e fiero
fieramente
ostinata, in atto prima
di
paventosa, poi di sangue infetta
le
torve luci, di pallore il volto,
e
tutta di color di morte aspersa,
se
n'entrò furïosa ove secreto
era
il suo rogo a l'aura apparecchiato.
Sopra
vi salse; e la dardania spada,
ch'ebbe
da lui non a tal uso in dono,
distrinse:
e rimirando i frigi arnesi
e
'l noto letto, poich'in sé raccolta
lagrimando
e pensando alquanto stette,
sopra
vi s'inchinò col ferro al petto,
e
mandò fuor quest'ultime parole:
«Spoglie,
mentre al ciel piacque, amate e care
a
voi rendo io quest'anima dolente.
Voi
l'accogliete: e voi di questa angoscia
mi
liberate. Ecco, io son giunta al fine
de
la mia vita, e di mia sorte il corso
ho
già compito. Or la mia grande imago
n'andrà
sotterra: e qui di me che lascio?
Fondata
ho pur questa mia nobil terra;
viste
ho pur le mie mura; ho vendicato
il
mio consorte; ho castigato il fiero
mio
nimico fratello. Ah, che felice,
felice
assai morrei, se a questa spiaggia
giunte
non fosser mai vele troiane!»
E
qui su 'l letto abbandonossi, e 'l volto
vi
tenne impresso; indi soggiunse: «Adunque
morrò
senza vendetta? Eh, che si muoia,
comunque
sia. Cosí, cosí mi giova
girne
tra l'ombre inferne: e poi ch'il crudo,
mentre
meco era, il mio foco non vide,
veggalo
di lontano; e 'l tristo augurio
de
la mia morte almen seco ne porte».
Avea
ciò detto, quando le ministre
la
vider sopra al ferro il petto infissa,
col
ferro e con le man di sangue intrise
spumante
e caldo. In pianti, in ululati
di
donne in un momento si converse
la
reggia tutta, e 'nsino al ciel n'andaro
voci
alte e fioche, e suon di man con elle.
N'andò
per la città grido e tumulto,
come
se presa da' nemici a forza
fosse
Tiro, o Cartago arsa e distrutta.
Anna, tosto ch'udillo, il volto e 'l petto
battessi
e lacerossi; e fra la gente
verso
la moribonda sua sorella,
stridendo,
e 'l nome suo gridando corse:
«E
per questo, - dicea - suora, son io
da
te cosí tradita? Io t'ho per questo
la
pira e l'are e 'l foco apparecchiato?
Deserta
me! Di che dorrommi in prima?
Perché,
morir dovendo, una tua suora
per
compagna rifiuti? E perché teco,
lassa!
non m'invitasti? Ch'un dolore,
un
ferro, un'ora stessa ambe n'avrebbe
tolte
d'affanno. Ohimé! con le mie mani
t'ho
posto il rogo. Ohimé! con la mia voce
ho
gli dèi de la patria a ciò chiamati.
Tutto,
folle! ho fatt'io, perché tu muoia,
perch'io
nel tuo morir teco non sia.
Con
te, me, questo popol, questa terra
e
'l sidonio senato hai, suora, estinto.
Or
mi date che 'l corpo omai componga,
che
lavi la ferita, che raccolga
con
le mie labbia il suo spirito estremo,
se
piú spirto le resta». E, ciò dicendo,
già
de la pira era salita in cima.
Ivi
lei che spirava in seno accolta,
la
sanguinosa piaga, lagrimando,
con
le sue vesti le rasciuga e terge.
Ella
talor, le gravi luci alzando,
la
mira a pena, che di nuovo a forza
morte
le chiude; e la ferita intanto
sangue
e fiato spargendo anela e stride.
Tre
volte sopra il cubito risorse:
tre
volte cadde, ed a la terza giacque:
e
gli occhi vòlti al ciel, quasi cercando
veder
la luce, poiché vista l'ebbe,
ne
sospirò. De l'affannosa morte
fatta
Giuno pietosa, Iri dal cielo
mandò,
che 'l groppo disciogliesse tosto,
che
la tenea, malgrado anco di morte,
col
suo mortal sí strettamente avvinta;
ch'anzi
tempo morendo, e non dal fato,
ma
dal furore ancisa, non le avea
Prosèrpina
divelto anco il fatale
suo
dorato capello; né dannata
era
ancor la sua testa a l'Orco inferno.
Ratto spiegò la rugiadosa dea
le
sue penne dorate, e 'ncontra al sole
di
quei tanti suoi lucidi colori
lunga
striscia traendo; indi sospesa
sopra
al capo le stette, e d'oro un filo
ne
svelse e disse: «Io qui dal ciel mandata
questo
a Pluto consacro, e te disciolgo
da
le tue membra». Ciò dicendo, sparve.
Ed
ella, in aura il suo spirto converso,
restò
senza calore e senza vita.
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