LIBRO SESTO
Cosí piangendo disse: e navigando
di
Cuma in vèr l'euboïca riviera
si
spinse a tutto corso, onde ben tosto
vi
furon sopra, e v'approdaro alfine.
Volser
le prue, gittâr l'ancore; e i legni,
sí
come stêro un dopo l'altro in fila,
di
lungo tratto ricovrîr la riva.
Lieta la gioventú nel lito esperio
gittossi:
ed in un tempo al vitto intesi,
chi
qua, chi là si diêro a picchiar selci,
a
tagliar boschi, a cercar fiumi e fonti.
Intanto
Enea verso la ròcca ascese,
ove
in alto sorgea di Febo il tempio,
e
là dov'era la spelonca immane
de
l'orrenda Sibilla, a cui fu dato
dal
gran delio profeta animo e mente
d'aprir
l'occulte e le future cose.
Avea di Trivia già varcato il bosco,
quando
avanti di marmo ornato e d'oro
il
bel tempio si vide. È fama antica
che
Dedalo, di Creta allor fuggendo
ch'ebbe
ardimento di levarsi a volo
con
piú felici e con piú destre penne
che
'l suo figlio non mosse, il freddo polo
vide
piú presso; e per sentier non dato
a
l'uman seme, a questo monte alfine
del
calcidico seno il corso volse.
Qui
giunto e fermo, a te, Febo, de l'ali
l'ordigno
appese, e 'l tuo gran tempio eresse,
ne
le cui porte era da l'un de' lati
d'Andrògëo
la morte, e quella pena
che
di Cècrope i figli a dar costrinse
sette
lor corpi a l'empio mostro ogn'anno:
miserabil
tributo! e v'era l'urna,
onde
a sorte eran tratti. Eravi Creta
da
l'altro lato, alto dal mar levata,
ch'avea
del tauro istorïata intorno
e
di Pasífe il bestïale amore,
e
la bestia di lor nata biforme,
di
sí nefando ardor memoria infame.
Eravi
l'intricato laberinto:
eravi
il filo, onde gl'intrighi suoi
e
le sue cieche vie Dedalo stesso,
per
pietà ch'ebbe a la regina, aperse.
E
tu, se 'l pianto del tuo padre e 'l duolo
nol
contendea, saresti, Icaro, a parte
di
sí nobil lavoro. Ma due volte
tentò
ritrarti in oro, ed altrettante
sí
l'abborrí, che l'opera e lo stile
di
man gli cadde. Era con gli altri Enea
tutto
a mirar sospeso, quando Acate
tornò,
ch'era precorso, e seco addusse
Deïfobe
di Glauco, una ministra
di
Dïana e d'Apollo. Ella rivolta
al
frigio duce: «Non è tempo, - disse, -
ch'a
ciò si badi. Or è d'offrir mestiero
sette
non domi ancor giovenchi, e sette
negre
pecore elette». E ciò spedito
tosto,
come s'impose, ella nel tempio
seco
i Teucri condusse. È da l'un canto
dell'euboïca
rupe un antro immenso
che
nel monte penètra. Avvi d'intorno
cento
vie, cento porte; e cento voci
n'escono
insieme, allor che la Sibilla
le
sue risposte intuona. Era a la soglia
il
padre Enea, quando: «Ora è 'l tempo - disse
la
vergine. - Di', di'; chiedi tue sorti:
ecco
lo dio ch'è già comparso e spira».
Ciò
dicendo, de l'antro in su la bocca
in
piú volti cangiossi e in piú colori;
sconmpigliossi
le chionme; aprissi il petto;
le
batté 'l fianco, e 'l cor di rabbia l'arse.
Parve
in vista maggior; maggior il tuono
fu
che d'umana voce; e poiché 'l nume
piú
le fu presso: «A che badi, - soggiunse -
figlio
d'Anchise? Se non di', non s'apre
questa
di Febo attonita cortina».
E
qui si tacque. Orror per l'ossa e gelo
corse
allor de' Troiani; e 'l teucro duce
infin
de l'imo petto orò dicendo:
«Febo, la cui pietà mai sempre a Troia
fu
propizia e benigna, onde di Pari
già
reggesti la man, drizzasti il tèlo
contro
al corpo d'Achille, io, dal tuo lume
scòrto
fin qui, tanto di mare ho corso,
tante
terre ho girate, a tanti rischi
mi
son esposto; insino a le remote
massíle
genti, insin dentro a le Sirti
son
penetrato; ed or, per tua mercede,
di
questa fuggitiva Italia il lito
ecco
già tocco, e ci son giunto al fine.
Ah,
che questo sia il fine, e qui rimanga
l'infortunio
di Troia! È tempo omai,
dii
tutti e dee, cui la dardania gente
unqua
fece onta, che perdono e pace
le
concediate. E tu, vergine santa,
del
futuro presaga, or ne dimostra
il
seggio e 'l regno che ne dànno i fati
(se
pur nel dànno) ove i Troiani afflitti,
ove
di Troia i travagliati numi,
e
i dispersi Penati alberghi e posi;
ch'allor
di saldo marmo a Trivia, a Febo
ergerò
i templi, e del suo nome i ludi
consacrerolli,
e i dí fèsti e solenni;
ed
ancor tu nel nostro regno avrai
sacri
luoghi reposti, ove serbati
per
lumi e specchi a le future genti
da
venerandi a ciò patrizi eletti
saranno
i detti e i vaticini tuoi.
Quel
che prima ti chieggio è che i tuoi carmi
s'odan
per la tua lingua, e non che in foglie
sian
da te scritti, onde ludibrio poi
sian
di rapidi vènti». E piú non disse.
Ella già presa, ma non doma ancóra
dal
febèo nume, per di sotto trarsi
a
sí gran salma, quasi poltra e fiera
scapestrata
giumenta, per la grotta
imperversando
e mugolando andava.
Ma
com' piú si scotea, piú dal gran dio
era
affrenata, e le rabbiose labbia
e
l'efferato core al suo misterio
piú
mansueto e piú vinto rendea.
Eran
da lor già della grotta aperte
le
cento porte, allor ch'ella gridando
cosí
mandò la sua risposta a l'aura:
«Compíti son del mar tutti i pericoli;
restan
quei de la terra, che terribili
saran
veracemente e formidabili.
Verranno
i Teucri al regno di Lavinio:
di
ciò t'affido. Ma ben tosto d'esservi
si
pentiranno. Guerre, guerre orribili
sorger
ne veggio, e pien di sangue il Tevere.
Saravvi
un altro Xanto, un altro Simoi,
altri
Greci, altro Achille, che progenie
ancor
egli è di dea. Giuno implacabile
allor
piú ti sarà, che supplichevole
andrai
d'Italia a quai non terre o popoli
d'aíta
mendicando e di sussidii!
E
fian di tanto mal di nuovo origine
d'esterna
moglie esterne sponsalizie.
Ma
'l tuo cor non paventi, anzi con l'animo
supera
le fatiche e gl'infortunii;
ché
tua salute ancor da terra argolica
(quel
che men credi) avrà lume e principio».
Questi intricati e spaventosi detti
dal
piú reposto loco alto mugghiando,
la
cumèa profetessa empiea lo speco
d'orribil
tuoni: e come il suo furore
era
da Febo raffrenato o spinto,
o
dal suo raggio avea barbaglio o lume,
cosí
miste le tenebre col vero
sciogliea
la lingua, e disgombrava il petto.
Poiché
la furia e la rabbiosa bocca
quetossi,
Enea ricominciando, disse:
«Vergine,
a me nulla si mostra omai
faccia
né di fatica né d'affanno,
che
mi sia nuova, o non pensata in prima.
Tutto
ho previsto, tutto ho presentito,
che
da te m'è predetto; e tutto io sono
a
soffrir preparato. Or sol ti chieggio
(poscia
che qui si dice esser l'intrata
de'
regni inferni, e d'Acheronte il lago)
che
per te quinci nel cospetto io venga
del
mio diletto padre; e tu la porta,
tu
'l sentier me ne mostra, e tu mi guida.
Io
lui dal fuoco e da mill'armi infeste
tratto
ho di mezzo a le nimiche schiere
su
queste spalle; ed ei scorta e compagno
del
mio viaggio e del mio esiglio, meco
i
perigli, i disagi e le tempeste
del
mar, del cielo e de l'età soffrendo,
vèglio,
debile e stanco ha me seguíto;
ed
egli stesso m'ha nel sonno imposto
che
a te ne venga, e per tuo mezzo a lui
mi
riconduca. Abbi pietà, ti priego,
e
del padre e del figlio; ed ambi insieme,
come
puoi (che puoi tutto), or ne congiungi:
ch'Ècate
non indarno a queste selve
t'ha
d'Averno preposta. Il tracio Orfeo
(sola
mercé de la sonora cetra)
scender
potevvi, e richiamarne in vita
l'amata
donna. Ne poté Polluce
ritrarre
il frate, ed a vicenda seco
vita
e morte cangiando, irvi e redirvi
tante
fïate. Andovvi Tèseo; andovvi
il
grande Alcide; ed ancor io dal cielo
traggo
principio, e son da Giove anch'io».
Cosí pregando avea le braccia avvinte
al
sacro altare, allor che la Sibilla
a
dir riprese: Enea, germe del cielo,
lo
scender ne l'Averno è cosa agevole
ché
notte e dí ne sta l'entrata aperta;
ma
tornar poscia a riveder le stelle,
qui
la fatica e qui l'opra consiste.
Questo
a pochi è concesso, ed a quei pochi
ch'a
Dio son cari, o per uman valore
se
ne poggiano al cielo. A questi è dato
come
a' celesti. Il loco tutto in mezzo
è
da selve intricato, e da negre acque
de
l'infernal Cocíto intorno è cinto.
Ma
se tanto disio, se tanto amore
t'invoglia
di veder due volte Stige
e
due volte l'abisso, e soffrir osi
un
cosí grave affanno, odi che prima
oprar
convienti. È ne la selva opaca,
tra
valli oscure e dense ombre riposto
e
ne l'arbore stesso un lento ramo
con
foglie d'oro, il cui tronco è sacrato
a
Giuno inferna: e chi seco divelto
questo
non porta, ne' secreti regni
penetrar
di Plutone unqua non pote.
Ciò
la bella Prosèrpina comanda,
che
per suo dono il chiede; e svèlto l'uno,
tosto
l'altro risorge, e parimente
ha
la sua verga e le sue chiome d'oro.
Entra
nel bosco, e con le luci in alto
lo
cerca, il trova, e di tua man lo sterpa;
ch'agevolmente
sterperassi, quando
lo
ti consenta il fato. In altra guisa
né
con man, né con ferro, né con altra
umana
forza mai fia che si schianti,
o
che si tronchi. Oltre di ciò, nel lito
(mentre
qui badi e la risposta attendi)
giace,
lasso! d'un tuo, che tu non sai,
disanimato
e non sepolto un corpo,
che
tutti rende i tuoi legni funesti.
A
questo procurar seggio e sepolcro
pria
converratti. Or per sua purga in prima
negre
pecore adduci; e 'n cotal guisa
vedrai
gli elisi campi, e i stigi regni
cui
vedere a' mortali anzi a la morte
non
è concesso». E qui la bocca chiuse.
Enea gli occhi abbassando, afflitto e mesto
de
l'antro uscio, tra se stesso volgendo
l'oscure
profezie. Giva con lui
il
fido Acate, e con lui parimente
traea
pensieri e passi. Erano entrambi
ragionando
in pensar di qual amico,
di
qual corpo insepolto ella parlasse,
che
coprir si dovesse: allor che giunti
nel
secco lito in su l'arena steso
vider
Miseno indegnamente estinto;
Miseno
il figlio d'Eolo, ch'araldo
era
supremo e col suo fiato solo
possente
a suscitar Marte e Bellona.
Era
costui del grand'Ettòr compagno,
e
de' piú segnalati intorno a lui
combattendo,
or la tromba ed or la lancia
adoperava:
e poi che 'l fiero Achille
Ettore
ancise, come ardito e fido,
seguí
l'arme d'Enea: ché non fu punto
inferiore
a lui. Stava sul mare
sonando
il folle con Tritone a gara,
quando
da lui, ch'astio sentinne e sdegno
(se
creder dêssi), insidïosamente
tratto
giú da lo scoglio ov'era assiso,
fu
ne l'onde sommerso. Al corpo intorno
convocati
già tutti, amaro pianto
ed
alte strida insieme ne gittaro;
e
piú de gli altri Enea. Poscia seguendo
quel
ch'era lor da la Sibilla imposto,
gli
apprestaron l'esequie. Entrâr nel bosco,
di
fere antico albergo; ed elci ed orni
e
frassini atterrando, alzâr gli altari;
poser
la tomba, fabbricâr la pira,
e
la spinsero al cielo. Il frigio duce
fra
le sue schiere di bipenne armato
a
par degli altri, e piú di tutti ardente,
di
propria mano adoperando, a l'opra
esortava
i compagni; e fra se stesso
pensoso,
inverso il bosco il guardo inteso,
cosí
pregava: «Oh se quel ramo d'oro
ne
si scoprisse in questa selva intanto,
come
n'ha la Sibilla, ahimè, pur troppo
di
te, Miseno, annunzïato il vero!»
Ciò disse a pena, ed ecco da traverso
due
colombe venir dal ciel volando,
ch'avanti
a lui sul verde si posaro.
Conobbe
il magno eroe le messaggiere
de
la sua madre, e lieto orando: «O, - disse, -
siatemi
guide voi, materni augelli,
s'a
ciò sentier si truova; ite per l'aura
drizzando
il nostro corso, ov'è de l'ombra
del
prezïoso arbusto il bosco opaco.
E
tu, madre benigna, in sí dubbioso
passo,
del lume tuo ne porgi aíta».
E,
ciò detto, fermossi. Elle pascendo,
andando,
saltellando, a scosse, a volo,
quanto
l'occhio scorgea, di mano in mano
giunsero
ove d'Averno era la bocca:
e
'l tetro alito suo schivando, in alto
ratte
l'ali spiegaro, e dal ciel puro
al
desïato loco in giú rivolte,
si
posâr sopra a la gemella pianta;
indi
tra frondi e frondi il color d'oro,
che
diverso dal verde uscia raggiando,
di
tremulo splendor l'aura percosse.
Come ne' boschi al brumal tempo suole
di
vischio un cesto in altrui scorza nato
spiegar
verdi le frondi e gialli i pomi,
e
con le sue radici ai non suoi rami
abbarbicarsi
intorno; cosí 'l bronco
era
de l'oro avviticchiato a l'elce,
ond'era
surto, e cosí lievi al vento
crepitando
movea l'aurate foglie.
Tosto
che 'l vide Enea, di piglio dielli,
e
disïoso, ancor che duro e valido
gli
sembrasse, a la fin lo svelse; e seco
a
l'indovina vergine lo trasse.
Non s'intermise di Miseno in tanto
condur
l'esequie al suo cenere estremo.
E
primamente la gran pira estrutta,
di
pingui tede e di squarciati roveri
v'alzâr
cataste: di funeste frondi,
d'atri
cipressi ornâr la fronte e i lati,
e
piantâr ne la cima armi e trofei.
Parte
di loro al foco, e parte a l'acque,
e
parte intorno al freddo corpo intenti,
chi
lo spogliò, chi lo lavò, chi l'unse.
Poiché fu pianto, in una ricca bara
lo
collocaro, e di purpuree vesti
de'
suoi piú noti e piú graditi arnesi
gli
feron fregi e mostre e monti intorno.
Altri
(pietoso e tristo ministero)
il
gran feretro agli omeri addossârsi;
altri,
com'è de' piú stretti congiunti
antica
usanza, vòlti i volti indietro,
tenner
le faci, e diêr foco a la pira;
e
gran copia d'incenso e di liquori
e
di cibi e di vasi ancor con essi,
sí
come è l'uso antico, entro gittârvi.
Poiché cessâr le fiamme, e 'ncenerissi
il
rogo e 'l corpo; le reliquie e l'ossa
furon
da Corinèo tra le faville
ricerche
e scelte; e di vin puro asperse,
poi
di sua mano acconciamente in una
di
dorato metallo urna reposte.
Lo
stesso Corinèo tre volte intorno
con
un rampollo di felice oliva
spruzzando
di chiar'onda i suoi compagni,
li
purgò tutti, e 'l vale ultimo disse.
Oltre
a ciò, fece Enea per suo sepolcro
ergere
un'alta e sontuosa mole,
e
l'armi e 'l remo e la sonora tuba
al
monte appese, che d'Aërio il nome
fino
allor ebbe, ed or da lui nomato
Miseno
è detto, e si dirà mai sempre.
Ciò
finito, a finir quel che gl'impose
la
profetessa, incontinente mosse.
Era un'atra spelonca, la cui bocca
fin
dal baratro aperta, ampia vorago
facea
di rozza e di scheggiosa roccia.
Da
negro lago era difesa intorno,
e
da selve ricinta annose e folte.
Uscia
de la sua bocca a l'aura un fiato
anzi
una peste, a cui volar di sopra
con
la vita agli uccelli era interdetto;
onde
da' Greci poi si disse Averno.
Qui pria quattro giovenchi Enea condotti
di
negro tergo, la Sibilla in fronte
riversò
lor di vin le tazze intere;
e
da ciascun di mezzo le due corna
di
setole maggiori il ciuffo svèlto,
diè
per saggio primiero al santo foco,
Ecate
ad alta voce in ciò chiamando,
de
l'Erebo e del ciel nume possente.
Parte
di lor con le coltella in mano
le
vittime svenando, e parte in vasi
stava
il sangue accogliendo. Egli a la Notte,
che
de le Furie è madre, ed a la Terra
ch'è
sua sorella, con la propria spada
di
negro vello un'agna, ed una vacca
sterile
a te, Proserpina, percosse.
Poscia
a l'imperador de' regni inferni
notturni
altari ergendo, i tauri interi
sopra
a le fiamme impose, e di pingue olio
le
bollenti lor viscere consperse.
Ed ecco a l'apparir del primo sole
mugghiò
la terra, si crollaro i monti,
si
sgominâr le selve, urlâr le Furie
al
venir de la dea». «Via, via profani, -
gridò
la profetessa, - itene lunge
dal
bosco tutto; e tu meco te n'entra,
e
la tua spada impugna. Or d'uopo, Enea,
fa
d'animo e di cor costante e fermo».
Ciò
disse, e da furor spinta, con lui,
ch'adeguava
i suoi passi arditamente,
si
mise dentro a le secrete cose.
O dii, che sopra l'alme imperio avete,
o
tacit'ombre, o Flegetonte, o Cao,
o
ne la notte e nel silenzio eterno
luoghi
sepolti e bui, con pace vostra
siami
di rivelar lecito a' vivi
quel
ch'ho de' morti udito. Ivan per entro
le
cieche grotte, per gli oscuri e vòti
regni
di Dite; e sol d'errori e d'ombre
avean
rincontri: come chi per selve
fa
notturno viaggio, allor che scema
la
nuova luna è da le nubi involta,
e
la grand'ombra del terrestre globo
priva
di luce e di color le cose.
Nel primo entrar del doloroso regno
stanno
il Pianto, l'Angoscia, e le voraci
Cure,
e i pallidi Morbi e 'l duro Affanno
con
la debil Vecchiezza. Evvi la Téma,
evvi
la Fame: una ch'è freno al bene,
l'altra
stimolo al male: orrendi tutti
e
spaventosi aspetti. Avvi il Disagio,
la
Povertà, la Morte, e, de la Morte
parente,
il Sonno. Avvi de' cor non sani
le
non sincere Gioie. Avvi la Guerra,
de
le genti omicida, e de le Furie
i
ferrati covili, il Furor folle,
l'empia
Discordia, che di serpi ha 'l crine,
e
di sangue mai sempre il volto intriso.
Nel mezzo erge le braccia annose al cielo
un
olmo opaco e grande, ove si dice
che
s'annidano i Sogni, e ch'ogni fronda
v'ha
la sua vana imago e 'l suo fantasma.
Molte,
oltre a ciò, vi son di varie fere
mostruose
apparenze. In su le porte
i
biformi Centauri, e le biformi
due
Scille: Brïarèo di cento doppi;
la
Chimera di tre, che con tre bocche
il
fuoco avventa: il gran serpe di Lerna
con
sette teste; e con tre corpi umani
Erilo
e Gerïone; e con Medusa
le
Górgoni sorelle; e l'empie Arpie,
che
son vergini insieme, augelli e cagne.
Qui preso Enea da súbita paura
strinse
la spada, e la sua punta volse
incontro
a l'ombre; e se non ch'ombre e vite
vòte
de' corpi e nude forme e lievi
conoscer
ne le fe' la saggia guida,
avrebbe
impeto fatto, e vanamente
in
vane cose ardir mostro e valore.
Quinci preser la via là 've si varca
il
tartareo Acheronte. Un fiume è questo
fangoso
e torbo, e fa gorgo e vorago,
che
bolle e frange, e col suo negro loto
si
devolve in Cocito. È guardiano
e
passeggiero a questa riva imposto
Caron
demonio spaventoso e sozzo,
a
cui lunga dal mento incolta ed irta
pende
canuta barba. Ha gli occhi accesi
come
di bragia. Ha con un groppo al collo
appeso
un lordo ammanto; e con un palo,
che
gli fa remo, e con la vela regge
l'affumicato
legno, onde tragitta
su
l'altra riva ognor la gente morta.
Vecchio
è d'aspetto e d'anni; ma di forze,
come
dio, vigoroso e verde è sempre.
A questa riva d'ogn'intorno ognora
d'ogni
età, d'ogni sesso e d'ogni grado
a
schiere si traean l'anime spente,
e
de' figli anco innanzi a' padri estinti.
Non
tante foglie ne l'estremo autunno
per
le selve cader, non tanti augelli
si
veggon d'alto mar calarsi a terra,
quando
il freddo li caccia ai liti aprichi,
quanti
eran questi. I primi avanti orando
chiedean
passaggio, e con le sporte mani
mostravan
il disio de l'altra ripa:
ma
'l severo nocchiero or questi or quelli
scegliendo
o rifiutando, una gran parte
lunge
tenea dal porto e da l'arena.
Enea la moltitudine, e 'l tumulto
meravigliando:
«Ond'è, vergine, - disse -
questo
concorso al fiume? e qual disio
mena
quest'alme? e qual grazia o divieto
fa
che queste dan volta, e quelle approdano?»
A ciò la profetessa brevemente
cosí
rispose: «Enea, stirpe divina
veracemente
(che di ciò n'accerta
il
qui vederti), là Cocito stagna;
quinci
va Stige, la palude e 'l nume
per
cui di spergiurar fino a gli dèi
del
cielo è formidabile e tremendo.
Questi
è Caronte, il suo tristo nocchiero:
quella
turba che passa, è de' sepolti:
questa
che torna, è de' meschini estinti
che
né tomba, né lacrime, né polve
ebber
morendo. A lor non è concesso
traiettar
queste ripe e questo fiume,
se
pria l'ossa non han seggio e coverchio.
Erran
cent'anni vagolando intorno
a
questi liti, e 'l desïato stagno
visitando
sovente, infin ch'al passo
non
sono ammessi». Enea di ciò pensando,
mosso
a pietà de la lor sorte iniqua,
fermossi;
ed ecco incontro gli si fanno
mesti,
d'esequie privi e di sepolcro,
Leucaspi,
e 'l conduttor de' Lici Oronte,
ambi
Troiani, ambi dal vento insieme
coi
Lici tutti, e con l'intera nave
nel
mar sommersi. Appresso Palinuro,
il
gran nocchier de la troiana armata,
che
dianzi nel tornar di Libia, il cielo
e
le stelle mirando, in mar fu tratto.
A
costui si rivolse, e poiché l'ebbe
per
entro una grand'ombra a pena scorto,
cosí
prima gli disse: «O Palinuro,
e
qual fu de gli dèi ch'a noi ti tolse,
ed
a l'onde ti diede? Or lo mi conta:
ché
deluso da Febo unqua non fui,
se
non se in te: Febo predisse pure
che
tu nosco del mar securo e salvo
Italia
attingeresti. Ah! dunque un dio,
e
dio del vero, in tal guisa ne froda?»
Rispose Palinuro: «Inclito duce,
né
l'oracol d'Apollo ha te deluso,
né
l'ira ha me di dio nel mar sommerso;
ché
'l temone, ond'io mai non mi divelsi
per
tua salute, ancor per man ritenni
allor
ch'in mare io caddi. Io giuro, Enea,
per
l'onde irate, che di me non tanto,
quanto
del tuo periglio ebbi timore,
che
non la nave tua, del mio governo
spogliata
e del suo freno, al mar già gonfio
restasse
in preda. Austro tre notti intere
con
la sua correntia per l'ampio mare
mi
trasse a forza. Il quarto giorno a pena
discoverta
l'Italia, a poco a poco
m'accostava
a la terra; e giunto omai
cosí
com'era ancor di veste grave,
e
stanco e molle, con l'adunche mani
m'aggrappava
a la ripa, e salvo fôra:
se
non ch'ignara e fera gente incontro,
com'a
preda marina, mi si fece,
e
col ferro m'ancise. Or lungo ai liti
vassene
il corpo mio ludibrio a' vènti,
e
scherzo a' flutti. Ed io, signore invitto,
per
la superna luce, per quell'aura
onde
si vive, per tuo padre Anchise,
per
le speranze del tuo figlio Iulo,
priegoti
a sovvenirmi; o che di terra
mi
cuopra (come puoi) cercando il corpo
per
la spiaggia di Velia, o in altra guisa,
s'altra
ne ti sovviene, o ti si mostra
da
la tua diva madre; ché non senza
nume
divino un tal passaggio imprendi.
Porgimi
la tua destra, e teco trammi
oltre
a quell'acque, perché morto almeno
pace
truovi e riposo». Avea ciò detto,
quando
cosí la vergine rispose:
«Ah, Palinuro, e qual dira follia
a
ciò t'invoglia? Non sepolto adunque
l'acque
di Stige e la severa foce
traiettar
de l'Eumènidi presumi?
Tu
di qui tôrti a l'altra riva intendi
senza
commiato? Indarno, indarno speri
che
per nostro pregar fato si cangi.
Ma
con questo t'acqueta, e ti conforta
de
l'infortunio tuo: ché quelle terre
vicine
al luogo, ove il tuo corpo giace,
da
pestilenza e da prodigi astrette,
lo
raccôrranno, e con solenne rito
gli
faran sacrifici, esequie e tomba;
e
da te per innanzi avrà quel loco
di
Palinuro eternamente il nome».
Lieto
d'un tanto onore, e consolato
da
tale annunzio, il travagliato spirto
restò
contento ed appagato in parte.
Indi il cammin seguendo, a la riviera
s'approssimaro;
e il passeggier da lunge,
poiché
senza far motto entro a la selva
passar
gli vide e 'ndirizzarsi al vado:
«Olà,
ferma costí, - disse gridando -
qual
che tu sei, ch'al nostro fiume armato
ten
vai sí baldanzoso; e di costinci
di'
chi sei, quel che cerchi, e perché vieni:
ché
notte solamente e sonno ed ombre
han
qui ricetto, e non le genti vive,
cui
di varcare al mio legno non lece.
E
s'Ercole e Tesèo e Piritòo
già
v'accettai, scorno e dolore n'ebbi;
ché
l'un d'essi il tartarëo custode
incatenovvi,
e, di sotto anco al seggio
del
proprio re, tremante a l'aura il trasse;
e
gli altri alfin dal maritale albergo
rapir
di Dite la regina osaro».
«Nulla di queste insidie - gli rispose
la
profetessa - a macchinar si viene.
Stanne
sicuro; e quest'arme a difesa
si
portan solamente, e non ad onta.
Spaventi
il can trifauce a suo diletto
le
pallid'ombre; eternamente latri
ne
l'antro suo; col suo marito e zio
si
stia casta Prosèrpina mai sempre,
ché
di nulla cen cale. Enea troiano
è
questi, di pietà famoso e d'armi,
che
per disio del padre infino al fondo
de
l'Èrebo discende; e se l'esempio
di
tanta carità non ti commove,
questo
almen riconosci». E, fuor del seno
d'oro
il tronco traendo, altro non disse.
Ei, rimirando il venerabil dono
de
la verga fatal, già di gran tempo
non
veduto da lui, l'orgoglio e l'ira
tosto
depose, e la sua negra cimba
a
lor rivolse, e ne la ripa stette.
Indi
i banchi sgombrando e 'l legno tutto,
l'anime,
che già dentro erano assise,
con
súbito scompiglio uscir ne fece,
e
'l grand'Enea v'accolse. Allor ben d'altro
parve
che d'ombre carco; e sí com'era
mal
contesto e scommesso, cigolando
chinossi
al peso, e piú d'una fissura
a
la palude aperse. Alfin pur salvi
ne
l'altra ripa, tra le canne e i giunchi,
sul
palustre suo limo ambi gli espose.
Giunti che furo, il gran Cèrbero udiro
abbaiar
con tre gole, e 'l buio regno
intonar
tutto; indi in un antro immenso
sel
vider pria giacer disteso avanti,
poi
sorger, digrignar, ràbido farsi,
con
tre colli arruffarsi, e mille serpi
squassarsi
intorno. Allor la saggia maga,
tratta
di mèle e d'incantate biade
una
tal soporifera mistura,
la
gittò dentro a le bramose canne.
Egli
ingordo, famelico e rabbioso
tre
bocche aprendo, per tre gole al ventre
trangugiando
mandolla, e con sei lumi
chiusi
dal sonno, anzi col corpo tutto
giacque
ne l'antro abbandonato e vinto.
Cèrbero addormentato, occupa Enea
d'Èrebo
il passo, e ratto s'allontana
dal
fiume, cui chi varca unqua non riede.
Sentono al primo entrar voci e vagiti
di
pargoletti infanti, che dal latte
e
da le culle acerbamente svèlti,
vider
ne' primi dí l'ultima sera.
Varcano
appresso i condannati e morti
senza
lor colpa, e non senza compenso
di
giudizio e di sorti. Han quelle genti
cosí
disposti e divisati i lochi.
Sta Minos ne l'entrata, e l'urna avanti
tien
de' lor nomi, e le lor vite esamina,
e
le lor colpe; e quale è questa o quella,
tal
le dà sito, e le rauna e parte.
Passan di mano in mano a quei che feri
incontro
a sé, la luce in odio avendo
e
l'alme a vile, anzi al prescritto giorno
si
son da loro indegnamente ancisi.
Ma
quanto ora vorrebbono i meschini
esser
di sopra, e povertà, vivendo,
soffrire
e de la vita ogni disagio!
Ma
'l fato il niega, e nove volte intorno
Stige
odïosa li ristringe e fascia.
Quinci non lunge si distende un'ampia
campagna
che del Pianto è nominata;
per
cui fra chiusi colli e fra solinghe
selve
di mirti, occulte se ne vanno
l'alme,
c'ha feramente arse e consunte
fiamma
d'amor, ch'ancor ne' morti è viva.
Qui vider Fedra e Procri ed Erifíle,
infida
moglie e sfortunata madre,
di
cui fu parricida il proprio figlio;
vider
Laodamía, Pasífe, Evadne,
e
Cènëo con esse, che di donna
in
uomo, e d'uomo alfin cangiossi in donna.
Era con queste la fenissa Dido,
che,
di piaga recente il petto aperta,
per
la gran selva spazïando andava.
Tosto
che le fu presso, Enea la scòrse
per
entro a l'ombre, qual chi vede o crede
veder
tal volta infra le nubi e 'l chiaro
la
nova luna, allor che i primi giorni
del
giovinetto mese appena spunta;
e
di dolcezza intenerito il core,
dolcemente
mirolla e pianse e disse:
«Dunque, Dido infelice, e' fu pur vera
quell'empia
che di te novella udii,
che
col ferro finisti i giorni tuoi?
Ah,
ch'io cagion ne fui! Ma per le stelle,
per
gli superni dèi, per quanta fede
ha
qua giú, se pur v'ha, donna, ti giuro
che
mal mio grado dal tuo lito sciolsi.
Fato,
fato celeste, imperio espresso
fu
del gran Giove, e quella stessa forza,
che
da l'eteria luce a questi orrori
de
la profonda notte or mi conduce,
che
da te mi divelse; e mai creduto
ciò
di me non avrei, che 'l partir mio
cagion
ti fosse ond'a morir ne gissi.
Ma
ferma il passo, e le mie luci appaga
de
la tua vista. Ah, perché fuggi? e cui?
Quest'è
l'ultima volta, ohimè! che 'l fato
mi
dà ch'io ti favelli, e teco sia».
Cosí dicendo e lagrimando intanto
placar
tentava o raddolcir quell'alma,
ch'una
sol volta disdegnosa e torva
lo
rimirò; poscia o con gli occhi in terra,
o
con gli omeri vòlta, a i detti suoi
stette
qual alpe a l'aura, o scoglio a l'onde.
Alfin,
mentre dicea, come nimica
gli
si tolse davanti, e ne la selva
al
suo caro Sichèo, cui fiamma uguale
e
par cura accendea, si ricondusse.
Né
però men dolente, e men pietoso
restonne
il teucro duce; anzi quant'oltre
poté
con gli occhi, e lungo spazio poi
col
pianto e coi sospiri accompagnolla.
Poscia
tornando al suo fatal vïaggio
giunse
là 've accampata era in disparte
gente
di ferro e di valore armata.
Qui
'l gran Tideo, qui 'l gran figlio di Marte
Partenopèo,
qui del famoso Adrasto
la
pallid'ombra incontro gli si fece.
Quinci
de' suoi piú nobili Troiani
un
gran drappello avanti gli comparve.
Pianse
a veder quei glorïosi eroi,
tanto
di sopra disïati e pianti,
come
Glauco, Tersíloco, Medonte,
i
tre figli d'Antenore, il sacrato
a
Cerere ministro Polibete,
e
'l chiaro Idèo con l'armi anco e col carro.
Fatto
gli avean costor chi da man destra,
chi
da sinistra una corona intorno.
Né
d'averlo veduto eran contenti,
ché
ciascun desïava essergli appresso,
ragionar,
passeggiar, far seco indugio,
e
spïar come e d'onde e perché venne.
Ma degli Argivi e le falangi e i duci,
quand'egli
apparve, e che tra lor ne l'ombre
i
lampi folgorâr de l'armi sue,
da
gran timor furo assaliti; e parte
volser
le terga, come già fuggendo
verso
le navi, e parte alzâr le voci
che
per téma sembrâr languide e fioche.
Deífobo, di Prïamo il gran figlio,
vide
ancor qui, che crudelmente anciso
in
disonesta e miserabil guisa
avea
le man, gli orecchi, il naso e 'l volto
lacerato,
incischiato e monco tutto.
Per
temenza il meschino e per vergogna
d'esser
veduto, con le tronche braccia
un
sí brutto spettacolo celando,
indarno
si facea schermo e riparo;
ch'al
fin lo riconobbe, e con l'usata
domestichezza
incontro gli si fece,
cosí
dicendo: «Poderoso eroe,
gran
germoglio di Teucro, e chi sí crudo
fu
mai, chi tanto osò, cui si permise
che
facesse di te strazio sí fiero?
La
notte che seguí l'orribil caso
de
la nostra ruina, io di te seppi
ch'assaliti
i nemici e di lor fatta
strage
che memorabile fia sempre,
tra
le caterve de' lor corpi estinti,
stanco
via piú che vinto, alfin cadesti;
ed
allor io di Reto in su la riva
a
l'ombra tua con le mie mani un vòto
sepolcro
eressi, e te gridai tre volte:
e
'l nome e l'armi tue riserba ancora
il
loco stesso. Io te, dolce signore,
né
veder, né coprir di patria terra
avanti
il mio partir mai non potei».
Deífobo rispose: «Ogni pietoso,
ogni
onorato officio, Enea mio caro,
ha
l'amor tuo vèr me compito a pieno.
Ma
l'empio fato mio, l'empia e malvagia
argiva
donna a tal m'ha qui condotto;
e
tal di sé lasciò memoria al mondo.
Ben
ti ricorda (e ricordar ten dêi)
di
quell'ultima notte che sí lieta
mostrossi
in pria, poi ne si volse in pianto,
quando
il fatal cavallo il salto fece
sopra
le nostre mura, e 'l ventre pieno
d'armate
schiere ne votò fin dentro
a
l'alta ròcca. Allor ella di Bacco
fingendo
il coro, e con le frigie donne
scorrendo
in tresca, una gran face in mano
si
prese, e diè con essa il cenno a' Greci.
Io dentro alla mia camera (infelice!)
mi
ritrovai sol quella notte; e stanco
di
tante che n'avea con tanti affanni
vegghiate
avanti, un tal prendea riposo
che
a morte piú che a sonno era simíle.
Fece
la buona moglie ogn'arme intanto
sgombrar
di casa, e la mia fida spada
mi
sottrasse dal capo. Indi la porta
aperse,
e Menelao dentro v'accolse,
cosí
sperando un prezïoso dono
fare
al marito, e de' suoi falli antichi
riportar
vènia. Che piú dico? Basta
ch'entrâr
là 'v'io dormia; e con essi era
per
consultore Ulisse. O dii, se giusto
è
'l priego mio, ricompensate voi
di
quest'opere i Greci. E tu, che vivo
sei
qui, dimmi a rincontro, il caso o 'l fato
o
l'errore o 'l precetto degli dèi,
o
qual altra fortuna t'ha condotto,
ove
il sol mai non entra e buio è sempre».
Cosí tra lor parlando e rispondendo,
avea
già 'l sol del suo cerchio dïurno
varcato
il mezzo, e l'avria forse intero;
se
non che la Sibilla rampognando
cosí
li fe' del breve tempo accorti:
«Enea, già notte fassi, e noi piangendo
consumiam
l'ore. Ecco siam giunti al loco
dove
la strada in due sentier si parte.
Questo
a man dritta a la città ne porta
del
gran Plutone e quindi ai campi Elisi;
quest'altro
a la sinistra a l'empio abisso
ne
guida, ov'hanno i rei supplizio eterno».
Il figlio a ciò di Prïamo soggiunse:
«Non
ti crucciare, o del gran Delio amica,
ch'or
da voi mi tolgo, e mi ritiro
ne
le tenebre mie. Tu, nostro onore,
vatten
felice, già che scòrto sei
da
miglior fato; e meglio te n'avvenga».
Tanto
sol disse, e sparve. Enea si volse
prima
a sinistra, e sotto un'alta rupe
vide
un'ampia città che tre gironi
avea
di mura, ed un di fiume intorno;
ed
era il fiume il negro Flegetonte,
ch'al
Tartaro con suono e con rapina
l'onde
seco traea, le fiamme e i sassi.
Vede
nel primo incontro una gran porta
c'ha
la soglia, i pilastri e le colonne
d'un
tal diamante, che le forze umane,
né
degli stessi dèi, romper nol ponno.
Quindi
si spicca una gran torre in alto
tutta
di ferro. A guardia de l'entrata
la
notte e 'l giorno vigilando assisa
sta
la fiera Tesífone succinta,
col
braccio ignudo, insanguinata e torva.
Quinci
di lai, di pianti e di percosse
e
di stridor di ferri e di catene
cotale
un suono udissi, che spavento
Enea
sentinne; e rattenuto il passo:
«Dimmi,
vergine, - disse, - e che delitti
son
qui puniti? e che pianti son questi?»
Ed ella: «Inclito sire, a nessun lece,
che
buono e giusto sia, di portar oltre
da
quella soglia scelerata il piede.
Ma
me di ciò che dentro vi s'accoglie
Ècate
instrusse allor ch'ai sacri boschi
mi
prepose d'Averno; e d'ogni pena
e
d'ogni colpa e d'ogni loco a pieno,
quando
seco vi fui, notizia diemmi.
Questo
è di Radamanto il tristo regno,
là
dov'egli ode, esamina, condanna
e
discuopre i peccati che di sopra
son
da le genti o vanamente ascosi
in
vita, o non purgati anzi a la morte:
né
pria di Radamanto esce il precetto,
che
Tesífone è presta ad eseguirlo.
Ella
con l'una man la sferza impugna,
ne
l'altra ha serpi; ed ambe intorno arrosta,
e
grida e fère, e de le sue sorelle
le
mostruose ed empie schiere tutte
al
ministerio de' tormenti invita.
Apronsi
l'esecrate orrende porte
stridendo
intanto. Tu, che quinci vedi
che
faccia è quella che di fuor le guarda,
pensa
qual a veder sia dentro un'Idra
ancor
piú fiera aprir cinquanta ingorde
rabbiose
bocche. Il Tartaro vien dopo;
una
vorago che due volte tanto
ha
di profondo, quanto in su guardando
è
da la terra al cielo: e qui ne l'imo
suo
baratro dal fulmine trafitti
son
gli antichi Titani al ciel rubelli.
Qui
vidi ambi d'Alòo gli orrendi figli,
che
scinder con le mani il cielo osaro,
e
tôr lo scettro del suo regno a Giove.
Vidivi
l'orgoglioso Salmonèo
di
sua temerità pagare il fio;
ché
temerario veramente ed empio
fu
di voler, quale il Tonante in cielo,
tonar
qua giuso e folgorare a pruova.
Questi
su quattro suoi giunti destrieri,
la
man di face armato alteramente
per
la Grecia scorrendo, e fin per mezzo
d'Èlide,
ov'è di Giove il maggior tempio,
di
Giove stesso il nume, e de gli dèi
s'attribuiva
i sacrosanti onori.
Folle,
che con le fiaccole e co' bronzi,
e
con lo scalpitar de' suoi ronzoni
i
tuoni, i nembi e i folgori imitava,
ch'imitar
non si ponno: e ben fu degno
ch'ei
provasse per man del padre eterno
d'altro
fulmine il colpo e d'altro vampo
che
di tede e di fumo, e degno ancora
che
nel baratro andasse. Eravi Tizio,
quei
de la terra smisurato alunno,
che
tien disteso di campagna quanto
un
giogo in nove giorni ara di buoi.
Questi
ha sopra un famelico avoltore,
che
con l'adunco rostro al cor d'intorno
gli
picchia e rode; e perché sempre il pasca,
non
mai lo scema sí che 'l pasto eterno
ed
eterna non sia la pena sua;
ché
fatto a chi lo scempia esca e ricetto,
del
suo proprio martir s'avanza e cresce;
e
perché sempre langua, unqua non more.
De'
Làpiti a che parlo? d'Issïóne
di
Piritòo, e di quegli altri tutti
cui
sopra al capo un'atra selce pende,
che
grave e ruinosa ad ora ad ora
sembra
che caggia? Avvi la mensa d'oro
con
prezïosi cibi in regia guisa
apparecchiati
e proibiti insieme:
ché
la Fame, infernal furia maggiore,
gli
siede accanto; e com' piú 'l gusto incende
di
lui, piú dal gustarne indietro il tragge,
e
sorge, e la sua face estolle e grida.
Quei che son vissi ai lor fratelli amari;
quei
c'han battuti i padri; quei che frode
hanno
ordito a' clienti; i ricchi avari,
e
scarsi a' suoi, di cui la turba è grande:
gli
occisi in adulterio; i vïolenti,
gl'infidi,
i traditori in questo abisso
han
tutti i lor ridotti e le lor pene.
E
che pena e che forma e che fortuna
di
ciascun sia, non è d'uopo ch'io dica:
ma
chi sassi rivolgono, e chi vòlti
son
da le ruote, ed altri in altra guisa
son
tormentati. In un petron confitto
vi
siede e sederavvi eternamente
Tèseo
infelice; e Flegia infelicissimo
va
tra l'ombre gridando ad alta voce:
"Imparate
da me voi che mirate
la
pena mia: non vïolate il giusto,
riverite
gli dèi". Tra questi tali
è
chi vendé la patria; chi la pose
al
giogo de' tiranni; chi per prezzo
fece
leggi e disfece; e cento lingue
e
cento bocche, e voci anco di ferro,
non
basterian per divisare i nomi
e
le forme de' vizi e de le pene
ch'entro
vi sono». Poi che la Sibilla
ebbe
ciò detto: «Via - soggiunse, - attendi
a
l'impreso viaggio, e studia il passo:
ché
già le mura da' Ciclopi estrutte
mi
veggio avanti, e sotto a quel grand'arco
la
sacra porta che 'l tuo dono aspetta».
Cosí mossi ambedue, lo spazio tutto,
ch'era
nel mezzo, per sentiero opaco
tosto
varcando, anzi a la porta furo.
Incontinente
Enea l'intrata occúpa;
di
viva acqua si spruzza: e 'l sacro ramo
a
la regina de l'inferno affigge.
Ciò fatto, a i luoghi di letizia pieni,
a
l'amene verdure, a le gioiose
contrade
de' felici e de' beati
giunsero
al fine. È questa una campagna
con
un aër piú largo, e con la terra
che
di un lume di purpura è vestita,
ed
ha 'l suo sole e le sue stelle anch'ella.
Qui
se ne stan le fortunate genti,
parte
in su' prati e parte in su l'arena
scorrendo,
lotteggiando, e vari giuochi
di
piacevol contesa esercitando;
parte
in musiche, in feste, in balli, in suoni
se
ne van diportando, ed han con essi
il
tracio Orfeo, ch'in lungo abito e sacro
or
con le dita, ed or col plettro eburno,
sette
nervi diversi insieme uniti,
tragge
del muto legno umani accenti.
Qui
di Teucro l'antica e bella razza
facea
soggiorno; quei famosi eroi
che
in quei tempi migliori al mondo furo,
Ilo,
Assàraco, Dàrdano, quei primi
de
la gran Troia fondatori e regi.
Veggon
da lunge le vane arme e i carri
a
lor d'intorno, e l'aste in terra fisse,
e
gli sciolti destrier per la campagna
vagar
pascendo; ché 'l diletto antico
e
de l'armi e de' carri e de' cavalli
gli
segue anco sotterra. Indi altri altrove
scorgono,
che da destra e da sinistra
convivando
e cantando, sopra l'erba
si
stanno assisi, ed han di lauri intorno
un
odorato bosco, onde il Po sorge
sopra
la terra, e spazïoso inonda.
E questi eran color che combattendo
non
fûr di sangue a la lor patria avari;
e
quei che sacerdoti erano in vita
castamente
vissuti, e quei veraci
e
quei pii c'han di qua parlato o scritto
cose
degne di Febo, e gl'inventori
de
l'arti, ond'è gentile il mondo e bello;
e
quei che ben oprando han tra' mortali
fatto
di fama e di memoria acquisto;
cui
tutti, in segno di celeste onore,
candida
benda il fronte orna e colora.
A questi, ch'a la vergine Sibilla
fêr
cerchio intorno, ed a Musèo tra loro,
che
dagli omeri in su gli altri avanzava,
diss'ella:
«Alme felici e tu, buon vate,
ditene
in qual contrada, e 'n qual magione
qui
tra voi si ripara il grande Anchise,
ché
lui cerchiamo, e sol per lui varcati
d'Èrebo
i fiumi e le caverne avemo».
A cui Musèo cosí breve rispose:
«Nullo
è di noi che in alcun luogo alloggi
come
in suo proprio; e tutti o per le sacre
opache
selve, o per l'amene rive
de'
chiari fiumi, o per gli erbosi prati
tra
rivi e fonti i nostri alberghi avemo.
Ma
se di ciò vi cale, itene meco
sovr'a
quel giogo; e quindi agevolmente
il
sentier ne vedrete». In ciò si mosse
come
lor guida, e sopra al colle asceso,
mostrò
lor d'alto i luminosi campi,
additò
'l calle, ed invïolli al piano.
Era per avventura in una valle
Anchise,
che da poggi era ricinta,
e
di verde coverta. Ivi in disparte
de'
suoi nepoti avea l'anime accolte
ch'a
la vita di sopra eran chiamate,
e
facendo di lor rassegna e mostra
gli
annoverava, esaminava i fati,
le
fortune, il valor di mano in mano,
gli
ordini e i tempi loro. Enea comparve
sul
campo intanto; a cui tosto che 'l vide,
lieto
Anchise avventossi e con le braccia
in
atto d'accoglienza: «O figlio, - disse
dolcemente
piangendo - io pur ti veggio.
Pur
sei venuto, ha pur la tua pietade
superati
i disagi e la durezza
di
sí strano vïaggio. Ecco m'è dato
di
veder, figlio, il tuo bramato aspetto,
e
sentirti e parlarti. Io di ciò punto
non
era in forse, e sol pensava al quando,
contando
i giorni. Oh, dopo quanti affanni,
dopo
quanti perigli, e quanti storpi
e
di mare e di terra io ti riveggio!
E
quanto ebbi timor che di Cartago
venisse
al corso tuo sinistro intoppo!»
Ed egli a lui: «La sconsolata imago,
che
m'è, padre, di te sovente apparsa,
per
te, per te veder qua giú m'ha tratto:
e
di sopra fin qui salvo a la riva
del
mar Tirreno il mio navile è sorto.
Or
dammi, padre mio, dammi ch'io giunga
la
mia con la tua destra, e grazia fammi
che
di vederti e di parlarti io goda».
Mentre cosí dicea, di largo pianto
rigava
il volto, e distendea le palme;
e
tre volte abbracciandolo, altrettante
(come
vento stringesse o fumo o sogno)
se
ne tornò con le man vòte al petto.
Intanto Enea per entro a la gran valle
vide
scevra da l'altre una foresta,
i
cui rami sonar da lunge udiva.
A
piè di questa era di Lete il rio
ch'ai
dilettosi e fortunati campi
correa
davanti; e piene avea le ripe
di
genti innumerabili, ch'intorno
a
caterve alïando ivano in guisa
che
fan le pecchie a' chiari giorni estivi,
quando
di fiore in fior, di giglio in giglio
si
van posando, e per l'apriche piagge
dolcemente
ronzando. Enea, che nulla
di
ciò sapea, di súbito stupore
fu
sopraggiunto, e la cagion spiando:
«O
- disse - padre, che riviera è quella?
e
che gente, e che mischia, e che bisbiglio?» -
«L'anime - gli rispose - a cui dovuti
sono
altri corpi, a questo fiume accolte
beon
dimenticanze e lunghi oblii
de
l'altra vita; e questi io desïava
che
tu vedessi, e che da me n'udissi
i
nomi e i gesti, onde contezza appieno
del
nostro sangue, e piena gioia avessi
dell'acquisto
d'Italia». «O padre, adunque -
soggiunse
Enea - creder si dee che l'alme,
che
son qui scarche e libere e felici,
cerchin
di nuovo a la terrena salma,
di
nuovo a la prigion tornar de' corpi?
E
qual, misere loro! empio desire
del
lume di lassú tanto le invoglia?»
«Figlio, - rispose Anchise, - acciò sospeso
piú
non vacilli in questo dubbio, ascolta».
E
'n tal guisa per ordine gli narra:
«Primieramente il ciel, la terra e 'l mare,
l'aër,
la luna, il sol, quanto è nascosto,
quanto
appare e quant'è, muove, nudrisce
e
regge un, che v'è dentro, o spirto o mente
o
anima che sia de l'universo;
che
sparsa per lo tutto e per le parti
di
sí gran mole, di sé l'empie, e seco
si
volge, si rimescola e s'unisce.
Quinci
l'uman legnaggio, i bruti, i pesci,
e
ciò che vola, e ciò che serpe, han vita,
e
dal foco e dal ciel vigore e seme
traggon,
se non se quanto il pondo e 'l gelo
de'
gravi corpi, e le caduche membra
le
fan terrene e tarde. E quinci ancora
avvien
che téma e speme e duolo e gioia
vivendo
le conturba, e che rinchiuse
nel
tenebroso carcere, e ne l'ombra
del
mortal velo, a le bellezze eterne
non
ergon gli occhi. Ed oltre a ciò, morendo,
perché
sian fuor de la terrena vesta,
non
del tutto si spoglian le meschine
de
le sue macchie; ché 'l corporeo lezzo
sí
l'ha per lungo suo contagio infette,
che
scevre anco dal corpo, in nuova guisa
le
tien contaminate, impure e sozze.
Perciò
di purga han d'uopo, e per purgarle
son
de l'antiche colpe in vari modi
punite
e travagliate: altre ne l'aura
sospese
al vento, altre ne l'acqua immerse,
ed
altre al foco raffinate ed arse:
ché
quale è di ciascuna il genio e 'l fallo,
tale
è 'l castigo. Indi a venir n'è dato
negli
ampi elisi campi; e poche siamo
cui
sí lieto soggiorno si destini.
Qui
stiamo infin che 'l tempo a ciò prescritto
d'ogni
immondizia ne forbisca e terga,
sí
ch'a nitida fiamma, a semplice aura,
a
puro eterio senso ne riduca.
Quest'alme
tutte, poiché di mill'anni
han
vòlto il giro, alfin son qui chiamate
di
Lete al fiume, e 'n quella riva fanno,
qual
tu vedi colà, turba e concorso.
Dio
le vi chiama, acciò ch'ivi deposto
ogni
ricordo, men de' corpi schive,
e
piú vaghe di vita, un'altra volta
tornin
di sopra a riveder le stelle».
Ciò detto, Anchise a quelle genti in mezzo
condusse
il figlio, e la Sibilla insieme;
e
prese un colle, ove le schiere tutte,
sí
come ne venian di mano in mano,
avea
d'incontro, e le scorgea nel volto.
«Or qui ti mostrerò, - soggiunse Anchise, -
quanta
sarà ne' secoli futuri
la
gloria nostra; quanti e quai nepoti
de
la dardania prole a nascer hanno;
e
quante del mio sangue anime illustri
sorgeranno
in Italia. Indi a te conte
le
tue fortune e i tuoi fati saranno.
Vedi
colà quel giovinetto ardito
che
su quell'asta pura il braccio appoggia?
Quegli
a la luce è destinato in prima,
primo
che di Lavinia in Lazio avrai
figlio
postumo a te già d'anni grave,
ch'alfin
da lei fuor de le selve addutto,
re
sarà d'Alba, e degli albani regi
autore
e padre: e Silvi dal suo nome
fian
tutti i nostri, che da lui discesi
ivi
poscia gran tempo imperio avranno.
Proca è quei dopo lui, gloria e splendore
de
la stirpe troiana: e quegli è Capi,
e
quegli è Numitore: e l'altro appresso
è
Silvio Enea, che 'l tuo nome rinnova;
e
se fia mai che 'l suo regno ricovri,
non
sarà men di te pietoso e forte.
Mira
che gioventú, mira che forze
mostran,
solo a vederli. Appo costoro
quei
che son là di quercia inghirlandati,
di
Gabi, di Nomento e di Fidene
parte
propagheranti il picciol regno,
parte
su' monti il tempio ti porranno
d'Inúo,
e la terra che da lui dirassi,
e
Collazia e Pomezia e Bola e Cora;
ché
questi nomi allor quei luoghi avranno
ch'or
ne son senza. In compagnia de l'avo
Romolo
se ne vien, di Marte il figlio,
di
Roma il padre. Al mondo Ilia darallo
de
la stirpe d'Assàraco un rampollo.
Vedil
colà, c'ha in su la testa un elmo
con
due cimieri, e tal, che il padre stesso
già
par ch'in cielo e nel suo seggio il ponga.
Questi,
figlio, sarà quel grand'eroe,
onde
i suoi primi glorïosi auspici
avrà
l'inclita Roma, quella Roma,
che,
sette monti entro al suo cerchio accolti,
tanto
si stenderà, che fia con l'armi
uguale
al mondo, e con le menti al cielo;
Roma
di cosí prodi e chiari figli
madre
felice. Tal di Berecinto
la
maggior madre infra i leoni assisa,
e
di torri altamente incoronata,
va
per la Frigia, glorïosa e lieta
che
tanti ha figli in ciel, nepoti in seno,
tutti
che dii già sono o dii si fanno.
Or qui, figliuolo, ambe le luci affisa
a
mirar la tua gente e i tuoi Romani.
Cesare
è qui, qui la progenie è tutta
del
grande Iulo, a cui già s'apre il cielo.
Questi,
questi, è colui che tante volte
t'è
già promesso, il gran Cesare Augusto,
di
divo padre figlio, e divo anch'egli.
Per
lui risorgerà quel secol d'oro,
quel
del vecchio Saturno antico regno,
che
fe' il Lazio sí bello e 'l mondo tutto.
Quest'oltre
ai Garamanti ed oltre agl'Indi
impererà
fin dove il sole e l'anno
non
giunge, e piú non va se non s'arretra;
trapasserà
di là dal mauro Atlante
che
con gli omeri suoi folce le stelle.
Al
venir di costui, sol de la voce
che
ne dànno i profeti, i Caspi regni,
la
Meotica terra, e quanto inonda
il
sette volte geminato Nilo,
tremar
già veggio, e star pensoso e mesto.
Tanto
del mondo il glorïoso Alcide
non
corse mai, se ben de' Cereniti,
di
Lerna e d'Erimanto i mostri ancise:
né
tanto ne domò chi domò gl'Indi,
e
nel trionfo suo di viti e pampini
a
le tigri di Nisa il giogo impose.
E
sarà poi che 'l valor nostro manchi
di
gloria, e tu di speme e d'ardimento
di
far d'Ausonia il desïato acquisto?
Ma
chi fia questi che da lungi scorgo
sí
venerando, il crin cinto d'olivo,
con
quelle bende e con quei sacri arredi?
A
la chioma, a la barba irta e canuta
mi
sembra, ed è di Roma il santo rege,
che
dal picciolo Curi a grande impero
sarà
da lei chiamato, e sarà il primo
che
cerimonie introdurravvi e leggi.
A lui Tullo vien dopo, il forte e saggio,
ch'ai
dismessi trionfi rivocando
la
gente già per lunga pace imbelle,
la
tornerà, di neghittosa e mite,
un'altra
volta armigera e guerriera.
Anco
è quell'altro che lo segue appresso,
che
d'onor troppo e del favor del volgo
di
già si mostra ambizïoso e vago.
Or
vedi là, se di vederli agogni,
anco
i Tarquini regi, e quel superbo
vendicator
de la superbia loro,
Bruto,
consol primiero, e quei suoi fasci
e
quelle accette ond'ei, padre crudele,
de
la patria buon figlio, i figli suoi
per
l'altrui bella libertate ancide.
Infortunato
lui! che che dipoi
de
la posterità se ne favelle.
Vince
il publico amore, e 'l gran desio
d'umana
lode in lui l'affetto interno
de
la natura e del suo sangue stesso.
Mira poco in disparte i Deci, i Drusi,
il
severo Torquato e 'l buon Camillo;
l'uno
che tien già la secure in mano,
e
l'altro che da' Galli ne riporta
i
perduti vessilli. I due, che vedi
sí
risplender ne l'armi, e che rinchiusi
in
questa notte, sembrano a la vista
gir
di pari e d'accordo, oh se a la vita
vengon
di sopra, quanta guerra e quale,
con
che strage di genti e con che forze,
faran
tra loro! Il suocero da l'Alpi
e
da l'occaso, il genero da l'orto
verrà
l'un contra l'altro. Ah figli, ah figli,
non
cosí rio, non cosí fiero abuso
d'armar
voi contr'a voi, contr'a le viscere
de
la gran patria vostra! e tu che traggi
dal
ciel legnaggio, tu, mio sangue, astienti
da
tanta ferità; perdona il primo,
e
gitta l'armi in terra. Ecco chi vince
Corinto
e 'l popol greco, e 'n Campidoglio
trïonfando
ne saglie. Ecco chi d'Argo
e
di Micena ancor le torri abbatte,
e
chi Pirro debella e 'l seme estingue
del
bellicoso Achille; alta vendetta
che
ben degli avi ricompensa i danni,
e
'l tempio vïolato di Minerva.
Dove
lass'io te, gran Catone, e Cosso?
E
i Gracchi, e i due gran folgori di guerra
ambedue
Scipïoni, ambi Africani,
strage
l'un di Cartago, e l'altro esizio?
Dove
Fabrizio il povero, e potente,
con
la sua povertà? Dove Serrano,
ch'e
di bifolco, al grande imperio assunto?
Dove
restano i Fabi? Eccone un solo,
Massimo
veramente, che con arte
terrà
il nemico tranquillando a bada.
Abbinsi
gli altri de l'altre arti il vanto;
avvivino
i colori e i bronzi e i marmi;
muovano
con la lingua i tribunali,
mostrin
con l'astrolabio e col quadrante
meglio
del ciel le stelle e i moti loro:
ché
ciò meglio sapran forse di voi:
ma
voi, Romani miei, reggete il mondo
con
l'imperio e con l'armi, e l'arti vostre
sien
l'esser giusti in pace, invitti in guerra:
perdonare
a' soggetti, accôr gli umíli,
debellare
i superbi». In questa guisa
parlava
il santo vèglio, ed essi attenti
stavan
con maraviglia ad ascoltarlo,
quando
soggiunse: «Ecco di qua Marcello;
mira
come se n'entra adorno e carco
d'opime
spoglie, e quanto a gli altri avanza.
Quest'è
quel generoso, ch'a grand'uopo
vien
di Roma a domare i Peni, i Galli,
e
del gallico duce i fregi e l'armi
la
terza volta al gran Quirino appende».
Qui vide Enea ch'un giovinetto a pari
gli
si traea, ch'era d'arnesi e d'armi,
e
via piú di beltà, vago e lucente;
se
non che poco lieta avea la fronte
e
chino il viso. Onde rivolto al padre:
«E
chi - disse - è costui che l'accompagna?
Saria
de' figli, o de' nipoti alcuno
del
gran nostro legnaggio? E che bisbiglio
e
che mischia ha d'intorno? O quale e quanto
di
già mi sembra! Ma gli veggio al capo
d'atra
notte girar di sopra un nembo».
Anchise lagrimando gli rispose:
«Amaro
desiderio il cor ti tocca
a
voler, figlio, un gran danno, un gran lutto
udir
de' tuoi. Questi a la luce a pena
verrà,
che ne fia tolto. O dii superni,
troppo
parravvi la romana stirpe
possente
allor che in sul fiorir preciso
ne
fia sí vago e sí gentile arbusto.
O
che duolo, o che pianto, o che funèbre
pompa
ne vedrà Roma e 'l Marzio campo!
Qual,
Tiberino padre, a la tua riva
nuova
se n'ergerà funesta mole!
Germe
non sorgerà del seme d'Ilio
piú
di questo gradito, né che tanto
de'
latini avi suoi la speme estolla:
né
la terra di Romolo arà mai
figlio,
onde piú si pregi e piú si vanti.
O
pietà non piú vista; o fede antica!
O
virtú senza pari! E qual ne l'armi
sarà?
Chi sosterrà l'incontro suo
pedone
o cavalier ch'armato in giostra,
o
pur nel campo, il suo nemico assalga?
Miserabil
fanciullo! Cosí morte
te
non vincesse, come invitto fôra
il
tuo valore, e come tu, Marcello,
non
men de l'altro, eroica vertute,
e
piú splendore e piú fortuna avesti!
Datemi
a piene mani, ond'io di gigli
e
di purpurei fiori un nembo sparga,
ché,
se ben contro al già fisso destino
m'adopro
invano, almen con questi doni
l'ombra
d'un tanto mio nipote onori».
Dopo ciò detto, per gli aerei campi
vagando,
a parte a parte e l'ombre e i lochi
gli
mostrò, l'invaghí, tutto d'amore
de
la futura gloria il cor gli accese.
Indi
le guerre e le fortune sue
d'Italia,
di Laurento, e di Latino
la
figlia, il regno, i popoli e lo stato
tutto
gli rivelò. D'ogni suo affanno
(come
a fuggir, come a soffrir l'avesse)
gli
diè lume e compenso. Escono i Sogni
d'inferno
per due porte; una è di corno,
l'altra
è d'avorio: manda il corno i veri,
l'avorio
i falsi; e per l'eburna Anchise
diede
(quando lor diè commiato alfine)
a
la Sibilla ed al suo figlio uscita.
Enea verso le navi a' suoi compagni
fece
ritorno. Indi sciogliendo, dritto
lungo
la riva il suo corso riprese;
e
giunto ov'oggi è di Caieta il porto,
l'afferrò,
gittò l'àncore, e fermossi.
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