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LIBRO OTTAVO
Poscia che di Laurento in su la ròcca fe' Turno inalberar di guerra il segno, e che guerra sonâr le roche trombe, spinti i carri e i destrieri, e l'armi scosse di Marte al tempio, incontinente i cuori si turbâr tutti, e tutto il Lazio insieme con súbito tumulto si ristrinse. Fremessi, congiurossi, rassettossi ognun ne l'arme. I tre gran condottieri Messàpo, Ufente, e l'empio de' celesti dispregiator Mezenzio, usciro in prima. Accolsero i sussidi; armâr gli agresti; spogliâr d'agricoltor le ville e i campi. In Arpi a Dïomede si destina Vènulo imbasciatore, e gli s'impone che soccorso gli chiegga, e che gli esponga quanto ciò de l'Italia e del suo stato torni a grand'uopo: con che gente Enea, con quale armata v'ha già posto il piede, e fermo il seggio, e rintegrato il culto a' suoi vinti Penati; come aspira a questo regno, e come anco per fato, e per retaggio del dardanio seme, lo si promette. Che perciò da molti è già seguito, e ch'ogni giorno avanza e di forze e di nome. Indi soggiunga: «Quel che 'l duce de' Teucri in ciò disegni e che miri e che tenti (se fortuna gli va seconda) a te via piú ch'a Turno esser può manifesto, e ch'a Latino». Questi andamenti e queste trame allora correan per Lazio, e lo scaltrito eroe le sapea tutte, onde in un mare entrato di gran pensieri, or la sua mente a questo, or a quel rivolgendo in varie parti, d'ogni cosa avea téma e speme e cura. Cosí di chiaro umor pieno un gran vaso, dal sol percosso, un tremulo splendore vibra ondeggiando, e rinfrangendo a volo manda i suoi raggi, e le pareti e i palchi e l'aura d'ogni intorno empie di luce. Era la notte, e già per ogni parte del mondo ogni animal d'aria e di terra altamente giacea nel sonno immerso, allor che 'l padre Enea, cosí com'era dal pensier de la guerra in ripa al Tebro già stanco e travagliato, addormentossi. Ed ecco Tiberino, il dio del loco veder gli parve, un che già vecchio al volto sembrava. Avea di pioppe ombra d'intorno di sottil velo e trasparente in dosso ceruleo ammanto, e i crini e 'l fronte avvolto d'ombrosa canna. E de l'ameno fiume placido uscendo a consolar lo prese in cotal guisa: «Enea, stirpe divina, che Troia da' nemici ne riporti e la ravvivi e la conservi eterna; o da me, da' Laurenti e da' Latini già tanto tempo a tanta speme atteso, questa è la casa tua, questo è secura- mente, non t'arrestare, il fatal seggio che t'è promesso. Le minacce e 'l grido non temer de la guerra. Ogn'odio, ogn'ira cessa già de' celesti. E perché 'l sonno credenza non ti scemi, ecco a la riva sei già del fiume, u' sotto a l'elce accolta sta la candida troia con quei trenta candidi figli a le sue poppe intorno. Questo fia dunque il segno e 'l tempo e 'l loco da fermar la tua sede. E questo è 'l fine de' tuoi travagli: onde il tuo figlio Ascanio dopo trent'anni il memorabil regno fonderà d'Alba, che cosí nomata fia dal candore e dal felice incontro di questa fera. E tutto adempirassi ch'io ti predíco, e t'è predetto avanti. Or brevemente quel ch'oprar convienti, per uscir glorïoso e vincitore di questa guerra, ascolta. È di qui lunge non molto Evandro, un re che de l'Arcadia è qua venuto; e sopra a questi monti ha degli Arcadi suoi locato il seggio. Il loco, da Pallante suo bisavo, è stato Pallantèo da lui nomato: ed essi, perché son nel Lazio esterni, son nemici a' Latini, ed han con loro perpetua guerra. A te fa di mestiero con lor confederarti, e per compagni a questa impresa avergli. Io, fra le ripe mie stesse, incontro a l'acqua a la magione d'Evandro agevolmente condurrotti. Dèstati, de la dea pregiato figlio; e come pria vedrai cader le stelle, porgi solennemente a la gran Giuno preghiere e vóti; e supplicando vinci de l'inimica dea l'ira e l'orgoglio; ed a me, poi che vincitor sarai, paga il dovuto onore. Io sono il Tebro cerco da te, che, qual tu vedi, ondoso rado queste mie rive, e fendo i campi de la fertile Ausonia, al cielo amico sovr'ogni fiume. Quel che qui m'è dato, è 'l mio seggio maggiore: e fia che poscia sovr'ogni altra cittade il capo estolla». Cosí disse, e tuffossi. Enea dal sonno si scosse; il giorno aprissi, ed ei col sole sorgendo insieme, al suo nascente raggio si volse umíle, e con le cave palme de l'onda si spruzzò del fiume, e disse: «Ninfe lauremti, ninfe, ond'hanno i fiumi l'umore e 'l corso; e tu con l'onde tue, padre Tebro sacrato, al vostro Enea date ricetto, e da' perigli omai lo liberate. Ed io da qual sia fonte che sgorghi, in qual sii riva, in qual sii foce (poiché tanta di me pietà ti stringe) sempre t'onorerò, sempre di doni ti sarò largo. O de l'esperid'onde superbo regnatore, amico e mite ne sia il tuo nume, e i tuoi detti non vani». Cosí dicendo, de' suoi legni elegge i due migliori, e gli correda e gli arma di tutto punto. Ed ecco d'improvviso (mirabil mostro!) de la selva uscita una candida scrofa, col suo parto di candor pari, sopra l'erba verde ne la riva accosciata gli si mostra. Tosto il pietoso eroe col gregge tutto a l'altar la condusse, e poiché sacra l'ebbe al gran nume tuo, massima Giuno, a te l'uccise. Il Tebro quella notte quanto fu lunga, di turbato e gonfio ch'egli era, si rendé tranquillo e queto, sí che, senza rumore e quasi in dietro tornando, come stagno o come piana palude adeguò l'onde, e tolse a' remi ogni contesa. Accelerando adunque il cammin preso, i ben unti e spalmati lor legni se ne vanno incontro al fiume com'a seconda; sí che l'onde stesse stavan meravigliose, e i boschi intorno, non soliti a veder l'armi e gli scudi e i dipinti navili, che da lunge facean novella e peregrina mostra. Se ne van notte e giorno remigando di tutta forza, e i seni e le rivolte varcan di mano in mano, or a l'aperto, or tra le macchie occulti, e via volando segan l'onde e le selve. Era il sol giunto a mezzo il giorno, quando incominciaro da lunge a discovrir la ròcca e 'l cerchio e i rari allor del poverello Evandro umili alberghi, ch'ora al cielo adegua la romana potenza. Immantinente volser le prore a terra, ed appressârsi là 've per avventura il re quel giorno solennemente in un sacrato bosco avanti a la città stava onorando il grande Alcide. Avea Pallante seco suo figlio, e del suo povero senato e de' suoi primi giovini un drappello che d'incensi, di vittime e di fumo di caldo sangue empiean l'are e gli altari. Tosto che di lontan vider le gaggie, e per entro de' boschi occulte e chete gir navi esterne, insospettiti in prima si levâr da le mense. Ma Pallante arditamente: «Non movete, - disse, - seguite il sacrificio». E tosto a l'armi dato di piglio, incontro a lor si spinse. Giunto, gridò da l'argine: «O compagni, qual fin v'adduce, o qual v'intrica errore per cosí torta e disusata via? Ov'andate? chi siete? onde venite? che ne recate voi? la pace, o l'armi? Enea di su la poppa un ramo alzando di pacifera oliva: «Amici - disse - vi siamo, e siam Troiani, e coi Latini vostri nimici inimicizia avemo. Questi superbamente il nostro esiglio perseguitando ne fan guerra ed onta. Ricorremo ad Evandro. A lui porgete da nostra parte, che de' Teucri alcuni son qui venuti condottieri eletti per sussidi impetrarne e lega d'arme». Stupí primieramente a sí gran nome Pallante, indi vèr lui rivolto umíle: «Signor, qual che tu sii, scendi e tu stesso parla, - disse, - al mio padre, e nosco alloggia». E lo prese per mano ed abbracciollo. Lasciato il fiume e ne la selva entrati, Enea dinanzi al re comparve e disse: «Signor, che di bontà sovr'ogni Greco, e di fortuna sovr'a me ten vai tanto che supplichevole, e co' rami di benda avvolti a tua magion ne vengo; io, perché sia Troiano e tu di Troia per nazïon nimico e per legnaggio agli Atridi congiunto, or non pavento venirti avanti, ché 'l mio puro affetto, gli oracoli divini, il sangue antico de' maggior nostri, il tuo famoso grido, e 'l fato e 'l mio voler m'han teco unito. Dardano, de' Troiani il primo autore, nacque d'Elettra, come i Greci han detto; e d'Elettra fu padre il grande Atlante, che con gli omeri suoi folce le stelle. Vostro progenitor Mercurio fue, che nel gelido monte di Cillene de la candida Maia al mondo nacque; e Maia ancor, se questa fama è vera, venne d'Atlante, e da lo stesso Atlante che fa con le sue spalle al ciel sostegno. Cosí d'un fonte lo tuo sangue e 'l mio traggon principio. E quinci è che securo senza opra di messaggi e senza scritti, pria ch'io ti tenti, e pria che tu m'affidi, posto ho me stesso e la mia vita a rischio, e supplichevolmente a la tua casa ne son venuto. I Rutuli ch'infesti sono anche a te, se de l'Italia fuori cacceran noi, già de l'Italia tutta l'imperio si promettono, e di quanto bagna l'un mare e l'altro. Or la tua fede mi porgi, e la mia prendi; ch'ancor noi siamo usi a guerra, e cor ne' petti avemo». Il re, mentre ch'Enea parlando stette, il volto e gli occhi e la persona tutta gli andò squadrando; e brevemente al fine cosí rispose: «Valoroso eroe, come lieto io t'accolgo, e come certo raffigurar mi sembra il volto e i gesti e la favella di quel grande Anchise tuo genitore! Io mi ricordo quando Priamo per riveder la sua sorella Esïone e 'l suo regno, in un passaggio che perciò fe' da Troia a Salamina, toccò d'Arcadia i gelidi confini. De le prime lanugini fiorito era il mio mento a pena allor ch'io vidi quei gran duci di Troia, e de' Troiani lo stesso re. Con molto mio diletto gli mirai, gli ammirai, notai di tutti gli abiti e le fattezze, e sopra tutti leggiadro, riguardevole ed altero sembrommi Anchise. Un desiderio ardente mi prese allor d'offrirmi, e d'esser conto a quel signore. Il visitai, gli porsi la destra, ospite il fei, nel mio Fenèo meco l'addussi. Ond'ei poscia partendo, un arco, una faretra e molti strali di Licia presentommi, e d'oro appresso una ricca intessuta sopravesta con due freni indorati ch'ancor oggi son di Pallante mio: sí che già ferma è tra noi quella fede e quella lega ch'or ne chiedete. E non fia il sol dimane dal balcon d'orïente uscito a pena, che le mie genti e i miei sussidi arete. Intanto a questa festa, che solenne facciamo ogni anno, e tralasciar non lece (già che venuti siete amici nostri), nosco restate, e come di compagni queste mense onorate». Avea ciò detto, allor che nuovi cibi e nuove tazze ripor vi fece, e lor tutti nel prato a seder pose; e sopra tutti Enea, di villoso leon disteso un tergo, seco al suo desco ed al suo seggio accolse. Per man de' sacerdoti e de' ministri del sacrificio, d'arrostite carni de' tori, di vin puro, di focacce, gran piatti, gran canestri e gran tazzoni n'andaro a torno; e co' suoi Teucri tutti Enea fu de le viscere pasciuto del saginato, a dio devoto, bue. Tolte le mense, e 'l desiderio estinto de le vivande, a ragionar rivolti, Evandro incominciò: «Troiano amico, questo convito e questo sacrificio cosí solenne, e questo a tanto nume sacrato altare, instituiti e posti non sono a caso; ché del vero culto e de gli antichi dèi notizia avemo. Per memoria, per merito e per vóto d'un gran periglio sua mercé scampato, son questi onori a questo dio dovuti. Mira colà quella scoscesa rupe, e que' rotti macigni, e di quel colle quell'alpestra ruina, e quel deserto. Ivi era già remota e dentro al monte cavata una spelonca, ov'unqua il sole non penetrava. Abitatore un ladro n'era, Caco chiamato, un mostro orrendo mezzo fera e mezz'uomo, e d'uman sangue avido sí, che 'l suol n'avea mai sempre tiepido. Ne grommavan le pareti, ne pendevano i teschi intorno affissi, di pallor, di squallor luridi e marci. Volcano era suo padre; e de' suoi fochi per la bocca spirando atri vapori, gia d'un colosso, e d'una torre in guisa. Contra sí diro mostro, dopo molti dannaggi e molte morti, il tempo al fine ne diede e questo dio soccorso e scampo. Egli di Spagna vincitor ne venne in queste parti, de le spoglie altero di Gerïone, in cui tre volte estinse in tre corpi una vita, e ne condusse tal qui d'Ibèro un copïoso armento, ch'avea pien questo fiume e questa valle. Caco ladron feroce e furïoso, d'ogni misfatto e d'ogni sceleranza ardito e frodolente esecutore, quattro tori involonne e quattro vacche, ch'eran fior de l'armento. E perché l'orme indicio non ne dessero, a rovescio per la coda gli trasse; e ne la grotta gli condusse e celogli. Eran l'impronte de' lor piè volte al campo, e verso l'antro segno non si vedea ch'a la spelonca il cercator drizzasse. Avea già molti giorni d'Anfitrïon tenuto il figlio qui le sue mandre, e ben pasciuto e grasso era il suo armento, sí che nel partire tutte queste foreste e questi colli di querimonia e di muggiti empiero. Mugghiò da l'altro canto, e 'l vasto speco da lunge rintonar fece una vacca de le rinchiuse: onde schernita e vana restò di Caco la custodia e 'l furto; ch'udilla Alcide, e d'ira e di furore in un súbito acceso, a la sua mazza, ch'era di quercia nodorosa e grave, diè di piglio, e correndo al monte ascese. Quel dí da' nostri primamente Caco temer fu visto. Si smarrí negli occhi, si mise in fuga, e fu la fuga un volo: tal gli aggiunse un timor le penne a' piedi. Tosto che ne la grotta si rinchiuse, allentò le catene, e di quel monte una gran falda a la sua bocca oppose; ch'a la bocca de l'antro un sasso immane avea con ferri e con paterni ordigni di cataratta accomodato in guisa con puntelli per entro e stanghe e sbarre. Ecco Tirinzio arriva, e come è spinto da la sua furia, va per tutto in volta fremendo, ora ai vestigi, ora ai muggiti, ora a l'entrata de la grotta intento. E portato da l'impeto, tre volte scórse de l'Aventino ogni pendice: tre volte al sasso de la soglia intorno si mise indarno; e tre volte affannato ritornò ne la valle a riposarsi. Era de la spelonca al dorso in cima di selce d'ogn'intorno dirupata un cucuzzolo altissimo ed alpestro ch'ai nidi d'avvoltoi e di tali altri augelli di rapina e di carogna era opportuno albergo. A questo intorno alfin si mise; e siccom'era al fiume da sinistra inchinato, egli a rincontro lo spinse da la destra, lo divelse, col calce de la mazza a leva il pose, e gli diè volta. A quel fracasso il cielo rintonò tutto, si crollâr le ripe, e 'l fiume impaurito si ritrasse. Allor di Caco fu lo speco aperto: scoprissi la sua reggia, e le sue dentro ombrose e formidabili caverne. Come chi de la terra il globo aprisse a viva forza, e de l'inferno il centro discovrisse in un tempo, e che di sopra de l'abisso vedesse quelle oscure del cielo abbominate orride bolge; vedesse Pluto a l'improvviso lume restar del sole attonito e confuso: cotal Caco da súbito splendore ne la sua tomba abbarbagliato e chiuso digrignar qual mastino Ercole vide; e non piú tosto il vide, che di sopra sassi, travi, tronconi, ogn'arme addosso fulgurando avventogli. Ei che né fuga avea né schermo al suo periglio altronde, da le sue fauci (meraviglia a dirlo!) vapori e nubi a vomitar si diede di fumo, di caligine e di vampa, tal che miste le tenebre col foco togliean la vista agli occhi e 'l lume a l'antro. Non però si contenne il forte Alcide, che d'un salto in quel baratro gittossi per lo spiraglio, e là 'v'era del fumo la nebbia e l'ondeggiar piú denso, e 'l foco piú roggio, a lui che 'l vaporava indarno, s'addusse, e lo ghermí; gli fece un nodo de le sue braccia, e sí la gola e 'l fianco gli strinse che scoppiar gli fece il petto, e schizzar gli occhi; e 'l foco e 'l fiato e l'alma in un tempo gli estinse. Indi la bocca aprí de l'antro, e la frodata preda, e del suo frodatore il sozzo corpo fuor per un piè ne trasse, a cui d'intorno corser le genti a meraviglia ingorde di veder gli occhi biechi, il volto atroce, l'ispido petto e l'ammorzato foco. Da indi in qua questo dí santo ogni anno da' nostri è lietamente celebrato: e ne sono i Potizi i primi autori, e i Pinari ministri. Allor quest'ara, che Massima si disse, e che mai sempre massima ne sarà, fu consecrata in questo bosco. Or via dunque, figliuoli, per celebrar tant'onorata festa, coi rami in fronte e con le tazze in mano il comun dio chiamate, e lietamente l'un con l'altro invitatevi, e beete». Ciò detto, il divisato erculeo pioppo tessero altri in ghirlande, altri in festoni, altri i mai ne piantaro. E di già pieno di sacrato liquore il gran catino, tutti a mensa gioiosi s'adagiaro, e spargendo e beendo, ai santi numi porser preghiere e vóti. Espero intanto era a l'occidental lito vicino già per tuffarsi, quando i sacerdoti un'altra volta, e 'l buon Potizio avanti con pelli indosso e con facelle in mano, com'è costume, a convivar tornaro, e le seconde mense e l'are sante di grati doni e di gran piatti empiero. I Salii intorno ai luminosi altari givano in tresca, e di populea fronde cingean le tempie. I vecchi da l'un coro le prodezze cantavano e le lodi del grande Alcide; i giovini da l'altro n'atteggiavano i fatti: come prima fanciul da la matrigna insidïato i due serpenti strangolasse in culla; come al suolo adeguasse Ecalia e Troia, città famose; come superasse mill'altre insuperabili fatiche sotto al duro tiranno, e contr'ai fati de l'empia dea. «Tu sei, - dicean cantando, - invitto iddio, che de le nubi i figli Nilèo e Folo uccidi; tu che 'l mostro domi di Creta: tu che vinci il fiero nemèo leone; te gl'inferni laghi, te l'inferno custode ebbe in orrore ne l'orrendo suo stesso e diro speco, là, 've tra 'l sangue e le corrose membra ha de la morta gente il suo covile. Cosa non è sí spaventosa al mondo, che te spaventi, non lo stesso armato incontr'al ciel Tifèo; né quel di Lerna con tanti e tanti capi orribil angue senza avviso ti vide o senza ardire. A te vera di Giove inclita prole, umilmente inchiniamo, a te del cielo nuovo aggiunto ornamento. E tu benigno mira i cor nostri e i sacrifici tuoi». Cosí pregando e celebrando in versi cantavan le sue pruove. E sopra tutto dicean di Caco e de la sua spelonca e de' suoi fochi: e i boschi e i colli intorno rispondean rintonando. Eran finiti i sacrifici, quando il vecchio Evandro mosse vèr la cittade; e seco a pari da l'un de' lati Enea, da l'altro il figlio avea, cui s'appoggiava; e ragionando di varie cose, agevolava il calle. Enea, meravigliando, in ogni parte volgea le luci, desïoso e lieto di veder quel paese e di saperne i siti, i luoghi e le memorie antiche. Di che spïando, il primo fondatore de la romana ròcca in cotal guisa a dir gli cominciò: «Questi contorni eran pria selve; e gli abitanti loro eran qui nati, ed eran fauni e ninfe, e genti che di roveri e di tronchi nate, né di costumi, né di culto, né di tori accoppiar, né di por viti, né d'altr'arti, o d'acquisto, o di risparmio avean notizia o cura: e 'l vitto loro era di cacciagion, d'erbe e di pomi, e la lor vita, aspra, innocente e pura. Saturno il primo fu che in queste parti venne, dal ciel cacciato, e vi s'ascose. E quelle rozze genti, che disperse eran per questi monti, insieme accolse e diè lor leggi: onde il paese poi da le latèbre sue Lazio nomossi. Dicon che sotto il suo placido impero con giustizia, con pace e con amore si visse un secol d'oro, in fin che poscia l'età, degenerando, a poco a poco si fe' d'altro colore e d'altra lega. Quinci di guerreggiar venne il furore, l'ingordigia d'avere, e le mischianze de l'altre genti. L'assalîr gli Ausoni; l'inondaro i Sicani; onde piú volte questa, che pria Saturnia era nomata, ha con la signoria cangiato il nome, e co' signori. E quinci è che da Tebro, che ne fu re terribile ed immane, Tebro fu detto questo fiume ancóra, ch'Àlbula si dicea ne' tempi antichi. Ed ancor me de la mia patria in bando, dopo molti perigli e molti affanni del mar sofferti, ha qui l'onnipotente fortuna e l'invincibil mio destino portato alfine; e qui posar mi fêro gli oracoli tremendi e spaventosi di Carmenta mia madre, e Febo stesso che mia madre inspirava». E fin qui detto, si spinse avanti; e quell'ara mostrogli, e quella porta che fu poi di Roma, Carmental detta, onore e ricordanza de la ninfa indovina, ch'anzi a tutti del Pallantèo predisse e de' Romani la futura grandezza. Indi seguendo, un gran bosco gli mostra, ove l'Asilo Romolo contraffece; e 'l Lupercale, che, quale era in Arcadia a Pan Liceo, sotto una fredda rupe era dicato. Poscia de l'Argileto gli dimostra la sacra selva; e d'Argo ospite il caso gli conta, e se ne purga e se ne scusa. A la Tarpeia rupe, al Campidoglio poscia l'addusse; al Campidoglio or d'oro, che di spini in quel tempo era coverto: un ermo colle dai vicini agresti per la religïon del loco stesso insino allor temuto e riverito: ch'a veder sol quel sasso e quella selva si paventava. E qui soggiunse Evandro: «In questo bosco, e là 've questo monte è piú frondoso, un dio, non si sa quale, ma certo abita un dio. Queste mie genti d'Arcadia han ferma fede aver veduto qui Giove stesso balenar sovente, e far di nembi accolta. Oltre a ciò vedi qui su, quelle ruine e quei vestigi di quei due cerchi antichi. Una di queste città fondò Saturno, e l'altra Giano, che Saturnia e Gianicolo fûr dette». In cotal guisa ragionando Evandro, se ne gian verso il suo picciolo ostello. E ne l'andar, là 'v'or di Roma è il Foro, ov'è quella piú florida contrada de le Carine, ad ogni passo intorno udian greggi belar, mugghiare armenti. Giunti che furo: «In questo umile albergo alloggiò - disse - il vincitore Alcide. Questa fu la sua reggia. E tu v'alloggia, e tu 'l gradisci, e le delizie e gli agi spregiando, imita in ciò Tirinzio e dio, e del tugurio mio meco t'appaga». Cosí dicendo, il grand'ospite accolse ne l'angusta magione, e collocollo là dove era di frondi e d'irta pelle di libic'orsa attappezzato un seggio. Venne la notte, e le fosc'ali stese avea di già sovra la terra, quando Venere come madre, e non in vano del suo figlio gelosa, il gran tumulto veggendo e le minacce de' Laurenti, con Volcan suo marito si ristrinse con gran dolcezza; in tal guisa gli disse: «Caro consorte, infinché i regi Argivi furo a' danni di Troia, e che per fato cader dovea, nullo da te soccorso volsi, o da l'arte tua; né ti richiesi d'armi allor, né di macchine, né d'altro per iscampo de' miseri Troiani. Le man, l'ingegno tuo, le tue fatiche oprar non volli indarno, ancor che molto con Prïamo e co' figli obbligo avessi, e molto mi premesse il duro affanno d'Enea mio figlio. Or per imperio espresso e de' fati e di Giove egli nel Lazio e tra' Rutuli è fermo. A te, mio sposo, ricorro, a te, mio venerando nume; e, madre, per un figlio arme ti chieggio; quel che da te di Nèrëo la figlia, e di Titon la moglie hanno impetrato. Mira in quant'uopo io le ti chieggio, e quanti e che popoli sono, a mia ruina e de' miei, congregati; e qual fan d'armi a porte chiuse orribile apparecchio». E 'l buon marito, che d'eterno amore avea il cor punto, le si volse, e disse: «A che sí lungo esordio? Ov'è, consorte, vèr me la tua fidanza? Io fin d'allora, se t'era grado, avrei d'arme provvisti i Teucri tuoi; né 'l padre onnipotente, né i fati ci vietavano che Troia non si tenesse, e Prïamo non fosse restato ancor per diece altr'anni in vita. Ed or s'a guerra t'apparecchi, e questo è tuo consiglio, quel che l'arte puote o di ferro o di liquido metallo, quanto i mantici han fiato, e forza il foco, io ti prometto. E tu con questi preghi cessa di rivocar la possa in forse del tuo volere, e 'l mio desir ch'è sempre di far le voglie tue paghe e contente». Finito il primo sonno, e de la notte già corso il mezzo, come femminella che col fuso, con l'ago e con la spola la sua vita sostenta e de' suoi figli; che la notte aggiungendo al suo lavoro, e dal suo focolar pria che dal sole procacciandosi 'l lume, a la conocchia, a l'aspo, a l'arcolaio esercitando sta le povere ancelle, onde mantenga il casto letto e i pargoletti suoi; tale in tal tempo, e con tal cura a l'opra surse il gran fabbro, e la fucina aperse. Giace tra la Sicania da l'un canto, e Lipari da l'altro un'Isoletta ch'alpestra ed alta esce de l'onde, e fuma. Ha sotto una spelonca, e grotte intorno, che di feri Ciclopi antri e fucine son, da' lor fochi affumicati e rosi. Il picchiar de l'incudi e de' martelli ch'entro si sente, lo stridor de' ferri, il fremere e 'l bollir de le sue fiamme e de le sue fornaci, d'Etna in guisa intonar s'ode ed anelar si vede. Questa è la casa, ove qua giú s'adopra Volcano, onde da lui Volcania è detta; e qui per l'armi fabbricar discese del grand'Enea. Stavan ne l'antro allora Stèrope e Bronte e Piracmóne ignudi a rinfrescar l'aspre saette a Giove. Ed una allor n'avean parte polita, parte abbozzata, con tre raggi attorti di grandinoso nembo, tre di nube pregna di pioggia, tre d'acceso foco, e tre di vento impetuoso e fiero. I tuoni v'aggiungevano e i baleni, e di fiamme e di furia e di spavento un cotal misto. Altrove erano intorno di Marte al carro, e le veloci ruote accozzavano insieme, ond'egli armato le genti e le città scuote e commuove. Lo scudo, la corazza e l'elmo e l'asta avean da l'altra parte incominciati de l'armigera Palla, e di commesso la fregiavano a gara. Erano i fregi nel petto de la dea gruppi di serpi che d'oro avean le scaglie, e cento intrichi facean guizzando di Medusa intorno al fiero teschio, che cosí com'era disanimato e tronco, le sue luci volgea d'intorno minacciose e torve. Tosto che giunse: «Via, - disse a' Ciclopi - sgombratevi davanti ogni lavoro, e qui meco guarnir d'arme attendete un gran campione. E s'unqua fu mestiero d'arte, di sperïenza e di prestezza, è questa volta. Or v'accingete a l'opra senz'altro indugio». E fu ciò detto a pena, che, divise le veci e i magisteri, a fondere, a bollire, a martellare chi qua chi là si diede. Il bronzo e l'oro corrono a rivi; s'ammassiccia il ferro, si raffina l'acciaio; e tempre e leghe in piú guise si fan d'ogni metallo. Di sette falde in sette doppi unite, ricotte al foco e ribattute e salde, si forma un saldo e smisurato scudo, da poter solo incontro a l'armi tutte star de' Latini. Il fremito del vento che spira da' gran mantici, e le strida che ne' laghi attuffati, e ne l'incudi battuti, fanno i ferri, in un sol tuono ne l'antro uniti, di tenore in guisa corrispondono a' colpi de' Ciclopi, ch'al moto de le braccia or alte or basse con le tenaglie e co' martelli a tempo fan concerto, armonia, numero e metro. Mentre in Eolia era a quest'opra intento di Lenno il padre, ecco, sorgendo il sole, surse al cantar de' mattutini augelli il vecchio Evandro; e fuori uscio vestito di giubba con le guigge a' piedi avvolte, com'è tirrena usanza. Avea dal destro omero a la Tegèa nel manco lato una sua greca scimitarra appesa. Avea da la sinistra di pantera una picchiata pelle, che d'un tergo gli si volgea su l'altro; e da la ròcca scendendo, gli venian due cani avanti, come custodi i suoi passi osservando. In questa guisa il generoso eroe, come quei che tenea memoria e cura di compir quanto avea la sera avanti ragionato e promesso, a le secrete stanze del padre Enea si ricondusse. Enea da l'altra parte assai per tempo s'era levato: e solo in compagnia l'un seco avea Pallante, e l'altro Acate. Poscia che rincontrati e 'nsieme accolti si salutaro, alfin, tra loro assisi, a ragionar si diêro. E prima Evandro cosí parlò: «Signor, cui vivo, in vita dir si può che sia Troia, e che del tutto non sia caduta e vinta; in questa guerra quel che poss'io per tuo sussidio è poco a tanto affare. Il mio paese è chiuso quinci dal tosco fiume, e quindi ha l'armi che gli suonan de' Rutuli d'intorno fin sulle porte. Avviso e pensier mio è per confederati e per compagni darti una gente numerosa e grande con molti regni. In tal qui tempo a punto sei capitato, e tal felice incontro ti porge amica e non pensata sorte. È non lunge di qui, su questi monti d'Etruria, una famosa e nobil terra ch'è sopra un sasso anticamente estrutta; Agillina si dice, ove lor seggio posero (è già gran tempo) i bellicosi e chiari Lidi: e floridi e felici vi fûr gran tempo ancora. Or sotto il giogo son di Mezenzio capitati al fine. A che di lui contar le sceleranze? A che la ferità? Dio le riservi per suo castigo e de' seguaci suoi. Questo crudele insino a' corpi morti mescolava co' vivi (odi tormento) che giunte mani a mani, e bocca a bocca in cosí miserando abbracciamento gli facea di putredine e di lezzo, vivi, di lunga morte alfin morire. I cittadini afflitti, disperati, e fatti per paura alfin securi, tesero insidie a lui, fecero strage de' suoi, posero assedio, avventâr foco a le sue case. Ei de le mani uscito degli uccisori, ebbe rifugio a Turno ch'or l'accoglie e 'l difende. Onde commossa e per giusta cagione in furia volta l'Etruria tutta in contra al suo tiranno grida che muoia, e già con l'armi in mano a morte lo persegue. A questa gente di molte mila condottiero e capo aggiungerotti. E già d'armate navi son pieni i liti: ognun freme, ognun chiede che si spieghin l'insegne. Un vecchio solo aruspice e 'ndovino è, che sospesi gli tiene infino a qui: "Gente meonia, - dicendo, - fior di gente antica e nobile, benché giusto dolor contra a Mezenzio, e degn'ira v'incenda, incontro a Lazio non movete voi già; ch'a nessun Italo domar d'Italia una tal gente è lecito, s'esterno duce a tant'uopo non prendesi". Cosí parato, e per timor confuso del vaticinio stassi il campo etrusco. E già Tarconte stesso a questa impresa m'invita, e già mandato a presentarmi ha la sedia e lo scettro e l'altre insegne del tosco regno, perch'io re ne sia, ed a l'oste ne vada. Ma la tarda e fredda mia vecchiezza, e le mie forze debili, smunte e diseguali al peso fan ch'io rifiuti. Esorterei Pallante mio figlio a questo impero, se non fosse che nato di Sabella, Italo anch'egli è per materna razza. Or questo incarco dagli anni, da la gente, dal destino, dal tuo stesso valore a te si deve. E tu il prendi, signor, ch'abile e forte sei piú d'ogni Troian, d'ogni Latino a sostenerlo. Ed io Pallante mio, la mia speranza e 'l mio sommo conforto, manderò teco; che 'l mestier de l'arme, che le fatiche del gravoso Marte ne la tua scuola a tollerare impari: e te da' suoi prim'anni, e i gesti tuoi meravigliando ad imitar s'avvezze. Dugento cavalieri, il nervo e 'l fiore de' miei d'Arcadia, spedirò con lui, e dugento altri il mio Pallante stesso in suo nome daratti». Avea ciò detto Evandro a pena, che d'Anchise il figlio e 'l fido Acate stêr co' volti a terra chinati. E da pensier gravi e molesti fôran oppressi, se dal ciel sereno la madre Citerea segno non dava, sí come diè. Ché tal per l'aria un lume vibrossi d'improvviso e con tal suono, che parve di repente il mondo tutto come scoppiando e ruinando ardesse; ed in un tempo di tirrene tube squillar ne l'aura alto concento udissi. Alzaron gli occhi: e la seconda volta, e la terza iterar sentiro il tuono; e vider là 've il cielo era piú scarco e piú tranquillo, una dorata nube e d'armi un nembo che tra lor percosse, scintillando, facean fremiti e lampi. Stupiron gli altri. Ma il troiano eroe che 'l cenno riconobbe e la promessa de la diva sua madre: «Ospite, - disse, - di saver non ti caglia quel ch'importi questo prodigio; basta ch'ammonito son io dal cielo, e questo è 'l segno e 'l tempo, che la mia genitrice mi predisse: che quandunque di guerra incontro avessi, allora ella dal ciel presta sarebbe con l'armi di Volcano a darmi aíta. Oh quanta di voi strage mi prometto, infelici Laurenti! e qual castigo Turno, da me n'avrai! quant'armi, quanti corpi volgere al mar, Tebro, ti veggio! Via, patto e guerra mi si rompa omai». Cosí detto, dal soglio alto levossi: e con Evandro e co' suoi Teucri in prima d'Ercole visitando i santi altari, il sopito carbon del giorno avanti lieto desta e raccende; i Lari inchina; i pargoletti suoi Penati adora, e di piú scelte agnelle il sangue offrisce. Indi torna a le navi, e de' compagni fatte due parti, la piú forte elegge per seco addurre a preparar la guerra: l'altra a seconda per lo fiume invia, che pianamente e senz'alcun contrasto si rivolga ad Ascanio, e dia novelle de le cose e del padre. A quei che seco in Etruria adducea, tosto provvisti furo i cavalli. A lui venne in disparte da tutti gli altri un palafreno eletto, di pelle di leon tutto coverto, ch'i velli avea di seta e l'ugna d'oro. Per la piccola terra in un momento si sparge il grido ch'ai tirreni liti ne va lo stuol de' cavalieri in fretta. Le madri, paventose, ai templi intorno rinnovellano i vóti; e già per téma piú vicino il periglio, e piú l'aspetto sembra di Marte atroce. Evandro il figlio nel dipartir teneramente abbraccia; né divelto da lui, né sazio ancora di lagrimar, gli dice: «O se da Giove mi fosse, figlio, di tornar concesso ora in quegli anni e 'n quelle forze, ond'io sotto Preneste il primo incontro fei co' miei nemici, e vincitore i monti arsi de' scudi, allor ch'Èrilo stesso, lo stesso re con queste mani ancisi, a cui nascendo avea Feronia madre date tre vite e tre corpi, e tre volte (meraviglia a contarlo!) era mestiero combatterlo e domarlo; ed io tre volte lo combattei, lo vinsi, e lo spogliai d'armi e di vita; se tal, dico, io fossi, mai non sarei da te, figlio, diviso; mai non fôra Mezenzio oso d'opporsi a questa barba; né per tal vicino vedova resterebbe or la mia terra di tanti cittadini. O dii superni, o de' superni dii nume maggiore, pietà d'un re servo e devoto a voi, e d'un padre che padre è sol d'un figlio unicamente amato. E se da' fati, se da voi m'è Pallante preservato, e s'io vivo or per rivederlo mai, questa mia vita preservate ancora con quanti unqua soffrir potessi affanni. Ma se fortuna ad infortunio il tragge, ch'io dir non oso, or or, prego, rompete questa misera vita, or ch'è la téma, or ch'è la speme del futuro incerta, e che te, figlio mio, mio sol diletto e da me desïato in braccio io tengo, anzi ch'altra novella me ne venga, che 'l cor pria che gli orecchi mi percuota». Cosí 'l padre ne l'ultima partita disse al suo figlio; e da l'ambascia vinto, fu da' sergenti riportato a braccio. A la campagna i cavalieri intanto erano usciti. Enea col fido Acate, e co' suoi primi era nel primo stuolo; Pallante in mezzo risplendea ne l'armi commesse d'oro, risplendea ne l'ostro che l'arme avean per sopravesta intorno; ma via piú risplendea ne' suoi sembianti ch'eran di fiero e di leggiadro insieme. Tale è quando Lucifero, il piú caro lume di Citerea, da l'Oceàno, quasi da l'onde riforbito, estolle il sacro volto, e l'aura fosca inalba. Stan le timide madri in su le mura pallide attentamente rimirando quanto puon lunge il polveroso nembo de l'armate caterve, e i lustri e i lampi che facean l'armi tra i virgulti e i dumi lungo le vie. Va per la schiera il grido che si cavalchi; e lo squadron già mosso al calpitar de la ferrata torma fa 'l campo risonar tremante e trito. È di Cere vicino, appo il gelato suo fiume un sacro bosco antico e grande d'ombrosi abeti, che da cavi colli intorno è cinto, venerabil molto e di gran lunge. È fama che i Pelasgi, primi del Lazio occupatori esterni, a Silvan, dio de' campi e degli armenti, consecrâr questa selva, e con solenne rito gli dedicâr la festa e 'l giorno. Quinci poco lontano era Tarconte co' Tirreni accampato; e qui del campo giunti a la vista, là 've un alto colle lo scopria tutto. Enea, co' primi suoi fermossi, ove i cavalli e i corpi loro già stanchi ebbero alfin posa e ristoro. Era Venere in ciel candida e bella sovr'un etereo nembo apparsa intanto con l'armi di Volcano; e visto il figlio ch'oltre al gelido rio per erma valle sen gia da gli altri solitario e scevro, apertamente gli s'offerse, e disse: «Eccoti 'l don che da me, figlio, attendi, di man del mio consorte. Or francamente gli orgogliosi Laurenti e 'l fiero Turno sfida a battaglia, e gli combatti e vinci». E, ciò detto, l'abbraccia. Indi gli addita d'armi quasi un trofeo, ch'appo una quercia dianzi da lei diposte, incontro agli occhi facean barbaglio, e, contro al sol, piú soli. D'un tanto dono Enea, d'un tale onore lieto, e non sazio di vederlo, il mira, l'ammira e 'l tratta. Or l'elmo in man si prende e l'orribil cimier contempla e 'l foco che d'ogni parte avventa: or vibra il brando fatale; or ponsi la corazza avanti di fino acciaio e di gravoso pondo, che di sanguigna luce e di colori diversamente accesi era splendente: qual sembra di lontan cerulea nube, arder col sole e varïar col moto. Brandisce l'asta; gli stinier vagheggia nitidi e lievi, che fregiati e fusi son di fin oro e di forbito elettro. Meravigliando alfin sopra lo scudo si ferma, e l'incredibile artificio ond'era intesto, e l'argomento esplora. In questo di commesso e di rilievo avea fatto de' fochi il gran maestro (come de' vaticini e del futuro presago anch'egli) con mirabil arte le battaglie, i trionfi e i fatti egregi d'Italia, de' Romani e de la stirpe che poi scese da lui; dal figlio Ascanio incominciando, i discendenti tutti e le guerre che fêr di mano in mano. V'avea del Tebro in su la verde riva finta la marzïal nudrice lupa in un antro accosciata, e i due gemelli che da le poppe di sí fiera madre lascivetti pendean, senza paura seco scherzando. Ed ella umíle e blanda stava col collo in giro, or l'uno or l'altro con la lingua forbendo e con la coda. V'era poco lontan Roma novella con una pompa, e con un circo avanti pien di tumulto, ov'era un'insolente rapina di donzelle, un darsi a l'arme infra Romolo e Tazio, e Roma e Curi. E poscia infra gli stessi regi armati, di Giove anzi a l'altare un tener tazze invece d'armi in mano, un ferir d'ambe le parti un porco, e far connubi e pace. Né di qui lunge, erano a quattro a quattro giunti a due carri otto destrier feroci, che, qual Tullo imponea (stato non fossi tu sí mendace e traditore, Albano!) in due parti traean di Mezio il corpo; e sí com'era tratto, i brani e 'l sangue ne mostravan le siepi, i carri e 'l suolo. V'era, oltre a ciò, Porsenna, il tosco rege, ch'imperiosamente da l'esiglio rivocava i Tarquini, e 'n duro assedio ne tenea Roma, che del giogo schiva s'avventava nel ferro. Avea nel volto scolpito questo re sdegno e minacce, e meraviglia, che sol Cocle osasse tener il ponte; e Clelia, una donzella, varcar il Tebro e sciôr la patria e lei. In cima dello scudo il Campidoglio era formato e la Tarpeia rupe, e Manlio che del tempio e de la ròcca stava a difesa; e la romulea reggia che 'l comignolo avea di stoppia ancora. Tra' portici dorati iva d'argento l'ali sbattendo e schiamazzando un'oca, ch'apria de' Galli il periglioso agguato: e i Galli per le macchie e per le balze de l'erta ripa, da la buia notte difesi, quatti quatti erano in cima già de la ròcca ascesi. Avean le chiome, avean le barbe d'oro: aveano i sai di lucid'ostri divisati a liste, e d'òr monili ai bianchi colli avvolti. Di forti alpini dardi avea ciascuno da la destra una coppia, e ne' pavesi stavan coi corpi rannicchiati e chiusi. Quinci de' Salii e de' Luperci ignudi, e de' greggi de' Flàmini scolpito v'avea le tresche e i cantici e i tripudi, ed essi tutti o coi lor fiocchi in testa, o con gli ancili e con le tibie in mano: cui le sacre carrette ivano appresso coi santi simulacri e con gli arredi, che traean per le vie le madri in pompa. E piú lunge nel fondo era la bocca de la tartarea tomba, e del gran Dite la reggia aperta: ov'anco eran le pene e i castighi degli empi. E quivi appresso stavi tu, scellerato Catilina, sopra d'un ruinoso acuto scoglio agli spaventi de le Furie esposto. E scevri eran da questi i fortunati luoghi de' buoni, a cui 'l buon Cato è duce. Gonfiava in mezzo una marina d'oro con la spuma d'argento, e con delfini d'argentino color, che con le code givan guizzando, e con le schiene in arco gli aurati flutti a loco a loco aprendo. E i liti e 'l mare e 'l promontorio tutto si vedea di Leucàte a l'azia pugna star preparati; e d'una parte Augusto sovra d'un'alta poppa aver d'intorno Europa, Italia, Roma e i suoi Quiriti, e 'l senato e i Penati e i grandi iddii. Di tre stelle il suo volto era lucente. Due ne facea con gli occhi, ed una sempre del divo padre ne portava in fronte. Ne l'altro corno Agrippa era con lui del marittimo stuolo invitto duce, ch'altero, e 'l capo alteramente adorno de la rostrata sua naval corona, i vènti e i numi avea fausti e secondi. Da l'altra parte vincitore Antonio, di vèr l'aurora e di vèr l'onde rubre barbari aiuti, esterne nazïoni e diverse armi dal Cataio al Nilo tutto avea seco l'Orïente addotto: e la zingara moglie era con lui, milizia infame. Ambe le parti mosse se ne gian per urtarsi, e d'ambe il mare scisso da' remi e da' stridenti rostri lacero si vedea, spumoso e gonfio. Prendean de l'alto i legni in tanta altezza, che Cicladi con Cicladi divelte parean nel mar gir a 'ncontrarsi, o 'n terra monti con monti: da sí fatte moli avventavan le genti e foco e ferro, onde il mar tutto era sanguigno e roggio. Stava qual Isi la regina in mezzo col patrio sistro, e co' suoi cenni il moto dava alla pugna; e non vedea (meschina!) quai due colúbri le venian da tergo. L'abbaiatore Anúbi e i mostri tutti, ch'eran suoi dii, contra Nettuno e contra Venere e Palla armati eran con lei, e Marte in mezzo, che nel campo d'oro di ferro era scolpito, or questi or quelli a la zuffa infiammava: e l'empie Furie co' lor serpenti, la Discordia pazza col suo squarciato ammanto, con la sferza di sangue tinta la crudel Bellona sgominavan le genti; e l'azio Apollo saettava di sopra: agli cui strali l'Egitto e gl'Indi e gli Arabi e i Sabei davan le spalle. E già chiamare i vènti, scioglier le funi, inalberar le vele si vedea la regina a fuggir vòlta; già del pallor de la futura morte, ond'era dal gran fabbro il volto aspersa, in abbandono a l'onde, e de la Puglia ne giva al vento. Avea d'incontro il Nilo, un vasto corpo, che, smarrito e mesto, a' vinti aperto il seno e steso il manto, i latebrosi suoi ridotti offriva. Cesare v'era alfin che trïonfando tre volte in Roma entrava; e per trecento gran templi a' nostri dii vóti immortali si vedean consecrati. Eran le strade piene tutte di plauso, di letizia, e di feste e di giuochi. Ad ogni tempio concorso di matrone; ad ogni altare vittime, incensi e fiori. Egli di Febo anzi al delúbro in maestade assiso riconoscea de' popoli i tributi, e la candida soglia e le superbe sue porte ne fregiava. Iva la pompa de le genti da lui domate intanto varie di gonne, d'idïomi e d'armi. Qui di Nomadi e d'Afri era una schiera in abito discinta; ivi un drappello di Lèlegi, di Cari e di Geloni con archi e strali. Infin dai liti estremi i Mòrini condotti erano al giogo, e gl'indomiti Dai. Con meno orgoglio giva l'Eufrate: ambe le corna fiacche portava il Reno: disdegnoso il ponte nel dorso si scotea l'Armenio Arasse. A tal, da tanta madre avuto dono, e d'un tanto maestro, Enea mirando, benché il velame del futuro occulte gli tenesse le cose, ardire e speme prese e gioia a vederle; e de' nepoti la gloria e i fati agli omeri s'impose.
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