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Pietro Metastasio
Zenobia

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SCENA TERZA

 

Vastissima campagna irrigata dal fiume Arasse, sparsa da un lato di capanne pastorali, e terminata dall’altro dalle falde d’amenissime montagne. A piè della più vicina di queste comparisce l’ingresso di rustica grotta, tutto d’edera e di spini ingombrato. Vedesi in lontano, al di del fiume, la real città di Artassata, con magnifico ponte che vi conduce, e su le rive opposte l’esercito parto attendato.

 

Zenobia ed Egle da una capanna.

 

ZEN.

Non tentar di seguirmi:

Soffrir nol deggio, Egle amorosa. Io vado

Fuggitiva, raminga; e chi sa dove

Può guidarmi il destin? Se de’ miei rischi

Te conducessi a parte, al tuo bel core

Troppo ingrata sarei. Facesti assai:

Basta così. Due volte

Vivo per te. La tua pietà mi trasse

Fuor del rapido Arasse; il sen trafitto

Per tua cura sanò; dolce ricetto

Mi fu la tua capanna; e tu mi fosti

Consolatrice, amica,

Consigliera e compagna. Io nel lasciarti

Perdo assai più di te. Non lo vorrei;

Ma non basta il voler. Presso al cadente

Padre te arresta il tuo dovere, e in traccia

Me del perduto sposo affretta il mio.

Facciamo entrambe il dover nostro. Addio

EGLE

Ma sola e senza guida

Per queste selve... Il tuo coraggio ammiro.

ZEN.

Non è nuovo per me. Fanciulla appresi

Le sventure a soffrir. Tre lustri or sono

Che l’Armenia ribelle un’altra volta

A fuggir ne costrinse; e allor perdei

La minor mia germana. Oh lei felice,

Che morì nel tumulto o fu rapita!

Io per sempre penar rimasi in vita.

EGLE

E vuoi con tanto rischio andare in traccia

D’un barbaro consorte?

ZEN.

Ah! più rispetto

Per un eroe ripieno

D’ogni real virtù.

EGLE

Virtù reale

È il geloso furor?

ZEN.

Chi può vantarsi

Senza difetti? Esaminando i sui,

Ciascuno impari a perdonar gli altrui.

EGLE

Ma una sposa svenar...

ZEN.

Reo non si chiama

Chi pecca involontario. In quello stato,

Radamisto non era

Più Radamisto. Io giurerei che allora

Strinse l’armi omicide,

M’assalì, mi trafisse e non mi vide.

EGLE

Oh generosa! E ben, di lui novella

Io cercherò: tu puoi restar.

ZEN.

No, cara

Egle, non deggio: a troppo rischio espongo

La gloria mia, la mia virtù.

EGLE

Che dici?

ZEN.

Io lo so, non m’intendi. Or odi e dimmi

Se temo a torto. Il giovanetto duce

Delle attendate schiere,

Che da lungi rimiri, è Tiridate,

Germano al parto re. Prence fin ora

Più amabile, più degno

Non formarono i numi

D’anima, di sembianti e di costumi.

Mi amò, l’amai: senza rossor confesso

Un affetto già vinto. Alle mie nozze

Aspirò, le richiese; il padre mio

Lieto ne fu. Ma, perché seco a gara

Le chiedea Radamisto, al mio fedele

Impose il genitor ch’armi e guerrieri

Pria dal real germano

Ad implorar volasse; e, reso forte

Contro il rivale, all’imeneo bramato

Tornasse poi. Partì; restai. Qual fosse

Il nostro addio, di rammentarmi io tremo:

Prevedeva il mio cor ch’era l’estremo.

Mentr’io senza riposo

Affrettava covoti il suo ritorno,

Sento dal padre un giorno

Dirmi che a Radamisto

Sposa mi vuol; che a variar consiglio

Lo sforza alta cagion; che, s’io ricuso,

La pace, il trono espongo,

La gloria, i giorni suoi. Suddita e figlia,

Dimmi, che far dovea? Piansi, m’afflissi,

Bramai morir; ma l’ubbidii. Né solo

La mia destra ubbidì: gli affetti ancora

A seguirla costrinsi. Armai d’onore

La mia virtù; sacrificai costante

Di consorte al dover quello d’amante.

EGLE

Né mai più Tiridate

Rivedesti fin ora?

ZEN.

Ah, nol permetta il Ciel! Questo è il timore

Che affretta il partir mio. Non ch’io diffidi,

Egle, di me: con la ragion quest’alma

Tutti, io lo sento, i moti suoi misura.

La vittoria è sicura,

Ma il contrasto è crudel: né men del vero

L’apparenza d’un fallo

Evitar noi dobbiam. La gloria nostra

È geloso cristallo, è debil canna,

Ch’ogni aura inchina, ogni respiro appanna.

EGLE

Misero prence! E alla novella amara

Che detto avrà?

ZEN.

L’ignora ancor: mi strinse

Segreto laccio a Radamisto. Ei torna

Agl’imenei promessi.

EGLE

Oh numi! e trova

Sollevata l’Armenia,

Vedovo il trono, ucciso il re, scomposti

Tutti i disegni sui;

E Zenobia...

ZEN.

E Zenobia in braccio altrui.

EGLE

Che barbaro destin!

ZEN.

Or di’: poss’io

Espormi a rimirar l’acerbo affanno

D’un prencefedel? che tanto amai?

Che tanto meritò? che forse al solo

Udir che d’altri io sono... Addio.

EGLE

Mi lasci?

ZEN.

Sì, cara; io fuggo: è periglioso il loco,

Le memorie, i pensieri.

EGLE

A chi fa oltraggio

L’innocente pietà...

ZEN.

Temer conviene

L’insidie ancor d’una pietà fallace.

Addio: prendi un amplesso e resta in pace.

 

Resta in pace, e gli astri amici

Bella ninfa, a’ giorni tuoi

Mai non splendano infelici,

Come splendono per me.

Grata ai numi esser tu puoi,

Che nascesti in umil cuna.

Oh, di stato e di fortuna

Potess’io cangiar con te! (parte)

 

 

 




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