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Pietro Metastasio
Artaserse

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SCENA DODICESIMA

 

Mandane, Artaserse, Semira ed Artabano

 

MAN.

(Ah, che al partir d’Arbace

Io comincio a provar che sia la morte).

ARTAB.

A prezzo del mio sangue, ecco, o Mandane,

Soddisfatto il tuo sdegno.

MAN.

Ah, scellerato!

Fuggi dagli occhi miei; fuggi la luce

Delle stelle e del sol; celati, indegno,

Nelle più cupe e cieche

Viscere della terra;

Se pur la terra istessa a un empio padre,

Così d’umanità privo e d’affetto,

Nelle viscere sue darà ricetto.

ARTAB.

Dunque la mia virtù...

MAN.

Taci. inumano!

Di qual virtù ti vanti?

Ha questa i suoi confini; e, quando eccede,

Cangiata in vizio ogni virtù si vede.

ARTAB.

Ma non sei quell’istessa

Che fin or m’irritò?

MAN.

Son quella, e sono

Degna di lode. E, se dovesse Arbace

Giudicarsi di nuovo, io la sua morte

Di nuovo chiederei. Dovea Mandane

Un padre vendicar: salvare un figlio

Artabano doveva. A te l’affetto,

L’odio a me conveniva. Io l’interesse

D’una tenera amante

Non dovevo ascoltar; ma tu dovevi

Di giudice il rigor porre in oblio.

Questo era il tuo dover; quello era il mio.

 

Va tra le selve ircane,

Barbaro genitore;

Fiera di te peggiore,

Mostro peggior non v’è.

Quanto di reo produce

L’Africa al sol vicina,

L’inospita marina,

Tutto s’aduna in te. (parte)

 

 

 




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