- ATTO TERZO
- Scena settima - Attilia, Barce
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ATT. Su, costanza, o mio cor.
Deboli affetti,
sgombrate da quest'alma;
inaridite
ormai su queste ciglia,
lagrime imbelli. Assai si pianse;
assai
si palpitò. La mia virtù natia
sorga al paterno sdegno;
ed Attilia non sia
il ramo sol di sì gran pianta
indegno.
BARCE Attilia, è dunque ver?
Dunque a dispetto
del popol, del Senato,
degli àuguri, di noi, del mondo
intero
Regolo vuol partir?
ATT. Sì.
BARCE Ma che insano
furor?
ATT. Più di rispetto,
Barce, agli eroi.
BARCE Come! del padre approvi
l'ostinato pensier?
ATT. Del padre adoro
la costante virtù.
BARCE Virtù che a' ceppi,
che all'ire altrui, che a
vergognosa morte
certamente dovrà...
ATT. Taci. Quei ceppi,
quell'ire, quel morir del padre
mio
saran trionfi.
BARCE E tu n'esulti?
ATT. (Oh Dio!)
BARCE Capir non so...
ATT. Non può capir chi nacque
in barbaro terren per sua
sventura
come al paterno vanto
goda una figlia.
BARCE E perché piangi intanto?
ATT. Vuol tornar la calma in seno
quando in lagrime si scioglie
quel dolor che la turbò:
come torna il ciel sereno,
quel vapor, che i rai ci toglie,
quando in pioggia si cangiò.
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