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Pietro Metastasio
Catone in Utica

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SCENA DECIMA

 

Marzia e  Cesare

 

CES.

Pur ti riveggo, o Marzia. Agli occhi miei

Appena il credo, e temo

Che, per costume a figurarti avvezzo,

Mi lusinghi il pensiero. Oh, quante volte,

Fra l’armi e le vicende, in cui m’avvolse

L’incostante fortuna, a te pensai!

E tu spargesti mai

Un sospiro per me? Rammenti ancora

La nostra fiamma? Al par di tua bellezza

Crebbe il tuo amore o pur scemò? Qual parte

Hanno gli affetti miei

Negli affetti di Marzia?

MAR.

E tu chi sei?

CES.

Chi sono! E qual richiesta! È scherzo? È sogno?

Così tu di pensiero,

O così di sembianza io mi cangiai?

Non mi ravvisi?

MAR.

Io non ti vidi mai.

CES.

Cesare non vedesti?

Cesare non ravvisi?

Quello che tanto amasti,

Quello a cui tu giurasti,

Per volger d’anni o per destin rubello,

Di non essergli infida?

MAR.

E tu sei quello?

No, tu quello non sei; ne usurpi il nome.

Un Cesare adorai, nol niego; ed era

Della patria il sostegno,

L’onor del Campidoglio,

Il terror de’ nemici,

La delizia di Roma,

Del mondo intier dolce speranza e mia:

Questo Cesare amai, questo mi piacque,

Pria che l’avesse il Ciel da me diviso:

Questo Cesare torni, e lo ravviso.

CES.

Sempre l’istesso io sono; e, se al tuo sguardo

Più non sembro l’istesso, o pria l’amore,

O t’inganna or lo sdegno. All’armi, all’ire

Mi spinse a mio dispetto,

Più che la scelta mia, l’invidia altrui.

Combattei per difesa. A te dovevo

Conservar questa vita; e, se pugnando

Scorsi poi vincitor di regno in regno,

Sperai farmi così di te più degno.

MAR.

Molto ti deggio in ver. Se ingiusta offesi

Il tuo cor generoso, a me perdona.

Io, semplice, fin ora

Sempre credei che si facesse guerra

Solamente a’ nemici, e non spiegai

Come pegni amorosi i tuoi furori;

Ma in avvenir l’affetto

D’un grand’eroe, che viva innamorato,

Conoscerò così. Barbaro, ingrato!

CES.

Che far di più dovrei? Supplice io stesso

Vengo a chiedervi pace,

Quando potrei... Tu sai

MAR.

So che con l’armi

Però la chiedi.

CES.

E disarmato all’ira

De’ nemici ho da espormi?

MAR.

Eh di’ che il solo

Impaccio al tuo disegno è il padre mio:

Di’ che lo brami estinto e che non soffri,

Nel mondo che vincesti,

Che sol Catone a soggiogar ti resti.

CES.

Or m’ascolta e perdona

Un sincero parlar. Quanto me stesso

Io t’amo, è ver; ma la beltà del volto

Non fu che mi legò: Catone adoro

Nel sen di Marzia; il tuo bel core ammiro

Come parte del suo: qua più mi trasse

L’amicizia per lui che il nostro amore:

E se (lascia ch’io possa

Dirti ancor più) se m’imponesse un nume

Di perdere un di voi, morir d’affanno

Nella scelta potrei;

Ma Catone e non Marzia io salverei.

MAR.

Ecco il Cesare mio. Comincio adesso

A ravvisarlo in te. Così mi piaci,

Così m’innamorasti. Ama Catone:

Io non ne son gelosa. Un tal rivale

Se divide il tuo core,

Più degno sei ch’io ti conservi amore.

CES.

Quest’è troppa vittoria. Ah, mal da tanta

Generosa virtude io mi difendo.

Ti rassicura: io penso

Al tuo riposo; e, pria che cada il giorno,

Dall’opre mie vedrai

Che son Cesare ancora e che t’amai.

 

Chi un dolce amor condanna,

Vegga la mia nemica;

L’ascolti e poi mi dica

Se è debolezza amor.

Quando da sì bel fonte

Derivano gli affetti,

Vi son gli eroi soggetti,

Amano i numi ancor. (parte)

 

 

 




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