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Pietro Metastasio
Catone in Utica

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SCENA QUATTORDICESIMA

 

Marzia ed Emilia

 

EMI.

Se manca Arbace alla promessa fede,

È Cesare l’indegno

Che l’ha sedotto.

MAR.

I tuoi sospetti affrena:

È Cesare incapace

Di cotanta viltà, benché nemico.

EMI.

Tu nol conosci; è un empio: ogni delitto,

Pur che giovi a regnar, virtù gli sembra.

MAR.

E pur sì fidi e numerosi amici

Adorano il suo nome.

EMI.

È de’ malvagi

Il numero maggior. Gli unisce insieme

Delle colpe il commercio; indi a vicenda

Si soffrono tra loro: e i buoni anch’essi

Si fan rei coll’esempio, o sono oppressi.

MAR.

Queste massime, Emilia,

Lasciam per ora, e favelliam fra noi.

Dimmi: non prese l’armi

Lo sposo tuo per gelosia d’impero?

E a te, palesa il vero,

Questa idea di regnar forse dispiacque?

Se era Cesare il vinto,

L’ingiusto era Pompeo. La sorte accusa.

È grande il colpo, il veggio anch’io; ma al fine

Non è reo d’altro errore

Che d’esser più felice il vincitore.

EMI.

E ragioni così? Che più diresti

Cesare amando? Ah! ch’io ne temo, e parmi

Che il tuo parlar lo dica.

MAR.

E puoi creder che l’ami una nemica?

 

EMI.

Un certo non so che

Veggo negli occhi tuoi:

Tu vuoi che amor non sia;

Sdegno però non è.

Se fosse amor, l’affetto

Estingui o cela in petto;

L’amar così saria

Troppo delitto in te. (parte)

 

 

 




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