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Pietro Metastasio
Catone in Utica

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SCENA TREDICESIMA

 

Arbace e detti.

 

ARB.

Signor, so che a momenti

Pugnar si deve: imponi

Che far degg’io. Senz’aspettar l’aurora,

Ogn’ingiusto sospetto a render vano,

Vengo sposo di Marzia; ecco la mano.

(Mi vendico così).

CAT.

Nol dissi, o figlia?

MAR.

Temo, Arbace, ed ammiro

L’incostante tuo cor.

ARB.

D’ogni riguardo

Disciolto io sono, e la ragion tu sai.

MAR.

(Ah, mi scopre).

ARB.

A Catone

Deggio un pegno di fede in tal periglio.

CAT.

Che tardi? (a Marzia)

EMI.

(Che farà?)

MAR.

(Numi, consiglio).

EMI.

Marzia, ti rasserena.

MAR.

Emilia, taci.

ARB.

(a Marzia)

Or mia sarai.

MAR.

(Che pena!)

CAT.

Più non s’aspetti. A lei

Porgi, Arbace, la destra.

ARB.

Eccola: in dono

Il cor, la vita, il soglio

Così presento a te.

MAR.

Va! non ti voglio.

ARB.

Come!

EMI.

(Che ardir!)

CAT.

(a Marzia)

Perché?

MAR.

Finger non giova;

Tutto dirò. Mai non mi piacque Arbace;

Mai nol soffersi, egli può dirlo. Ei chiese

Il differir le nozze

Per cenno mio. Sperai che al fin, più saggio,

L’autorità d’un padre

Impegnar non volesse a far soggetti

I miei liberi affetti:

Ma, già che sazio ancora

Non è di tormentarmi: e vuol ridurmi

A un estremo periglio,

A un estremo rimedio anch’io m’appiglio.

CAT.

Son fuor di me. Donde tant’odio e donde

Tanta audacia in costei? (ad Emilia e ad Arbace)

EMI.

Forse altro foco

L’accenderà.

ARB.

Così non fosse!

CAT.

E quale

De’ contumaci amori

Sarà l’oggetto?

ARB.

Oh Dio!

EMI.

Chi sa?

CAT.

Parlate.

ARB.

Il rispetto...

EMI.

Il decoro...

MAR.

Tacete; io lo dirò. Cesare adoro.

CAT.

Cesare!

MAR.

Sì. Perdona,

Amato genitor; di lui m’accesi

Pria che fosse nemico: io non potei

Sciogliermi più. Qual è quel cor capace

D’amare e disamar quando gli piace?

CAT.

Che giungo ad ascoltar!

MAR.

Placati, e pensa

Che le colpe d’amor...

CAT.

Togliti, indegna!

Togliti agli occhi miei.

MAR.

Padre...

CAT.

Che padre!

D’una perfida figlia,

Che ogni rispetto oblia, che in abbandono

Mette il proprio dover, padre non sono.

MAR.

Ma che feci? Agli altari

Forse i numi involai? Forse distrussi

Con sacrilega fiamma il tempio a Giove?

Amo al fine un eroe, di cui superba

Sopra i secoli tutti

Va la presente etade; il cui valore

Gli astri, la terra, il mar, gli uomini, i numi

Favoriscono a gara: onde, se l’amo,

O che rea non son io,

O il fallo universale approva il mio.

CAT.

Scellerata, il tuo sangue... (in atto di ferir Marzia)

ARB.

Ah no, t’arresta.

EMI.

Che fai? (a Catone)

ARB.

Mia sposa è questa.

CAT.

Ah, prence! Ah, ingrata!

Amare un mio nemico!

Vantarlo in faccia mia! Stelle spietate,

A quale affanno i giorni miei serbate!

 

Dovea svenarti allora (a Marzia)

Che apristi al le ciglia.

Dite: vedeste ancora (ad Emilia e ad Arbace)

Un padre ed una figlia,

Perfida al par di lei,

Misero al par di me?

L’ira soffrir saprei

D’ogni destin tiranno:

A questo solo affanno

Costante il cor non è. (parte)

 

 

 




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