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Pietro Metastasio
Demofoonte

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SCENA SECONDA

 

Dircea e poi Timante

 

DIR.

Se il mio principe almeno

Quindi lungi non fosse... Oh Ciel, che miro!

Ei viene a me!

TIM.

Dolce consorte...

DIR.

Ah! taci:

Potrebbe udirti alcun. Rammenta, o caro,

Che qui non resta in vita

Suddita sposa a regio figlio unita.

TIM.

Non temer, mia speranza. Alcun non ode.

Io ti difendo.

DIR.

E quale amico nume

Ti rende a me?

TIM.

Del genitore un cenno

Mi richiama dal campo,

Né la cagion ne so. Ma tu, mia vita,

M’ami ancor? ti ritrovo

Qual ti lasciai? Pensasti a me?

DIR.

Ma come

Chieder lo puoi? Puoi dubitarne?

TIM.

Oh Dio!

Non dubito, ben mio: lo so che m’ami,

Ma da quel dolce labbro

Troppo (soffrilo in pace)

Sentirlo replicar, troppo mi piace.

Ed il picciolo Olinto, il caro pegno

De’ nostri casti amori,

Che fa? cresce in bellezza?

A qual di noi somiglia?

DIR.

Egli incomincia

Già col tenero piede

Orme incerte a segnar. Tutta ha nel volto

Quella dolce fierezza,

Che tanto in te mi piacque. Allor che ride,

Par l’immagine tua. Lui rimirando,

Te rimirar mi sembra. Oh, quante volte,

Credula troppo al dolce error del ciglio,

Mi strinsi al petto il genitor nel figlio!

TIM.

Ah! dov’è? Sposa amata,

Guidami a lui; fa ch’io lo vegga.

DIR.

Affrena,

Signor, per ora il violento affetto.

In custodita parte

Egli vive celato; e andarne a lui

Non è sempre sicuro. Oh quanta pena

Costa il nostro segreto!

TIM.

Ormai son stanco

Di finger più, di tremar sempre: io voglio

Cercare oggi una via

D’uscir di tante angustie.

DIR.

Oggi sovrasta

Altra angustia maggiore. Il giorno è questo

Dell’annuo sagrifizio. Il nome mio

Sarà esposto alla sorte. Il re lo vuole;

Si oppone il padre; e della lor contesa

Temo più che del resto.

TIM.

È noto forse

Al padre tuo che sei mia sposa?

DIR.

Il Cielo

Nol voglia mai. Più non vivrei.

TIM.

M’ascolta.

Proporrò che di nuovo

Si consulti l’oracolo. Acquistiamo

Tempo a pensar.

DIR.

Questo è già fatto.

TIM.

E come

Rispose?

DIR.

Oscuro e breve.

‘Con voi del Ciel si placherà lo sdegno,

Quando noto a se stesso

Fia l’innocente usurpator d’un regno.’

TIM.

Che tenebre son queste!

DIR.

E se dall’urna

Esce il mio nome, io che farò? La morte

Mio spavento non è: Dircea saprebbe

Per la patria morir. Ma Febo chiede

D’una vergine il sangue. Io, moglie e madre,

Come accostarmi all’ara? O parli o taccia,

Colpevole mi rendo:

Il Ciel, se taccio, il re, se parlo, offendo.

TIM.

Sposa, ne’ gran perigli

Gran coraggio bisogna. Al re conviene

Scoprir l’arcano.

DIR.

E la funesta legge

Che a morir mi condanna?

TIM.

Un re la scrisse:

Può rivocarla un re. Benché severo,

Demofoonte è padre, ed io son figlio.

Qual forza han questi nomi,

Io lo so, tu lo sai. Non torno al fine

Senza merito a lui. La Scizia oppressa,

Il soggiogato Fasi

Son mie conquiste; e qualche cosa il padre

Può fare anche per me. Se ciò non basta,

Saprò dinanzi a lui

Piangere, supplicar, piegarmi al suolo,

Abbracciargli le piante,

Domandargli pietà.

DIR.

Dubito... Oh Dio!

TIM.

Non dubitar, Dircea: lascia la cura

A me del tuo destin. Va! Per tua pace

Ti stia nell’alma impresso

Che a te penso, cor mio, più che a me stesso.

 

DIR.

In te spero, o sposo amato;

Fido a te la sorte mia:

E per te, qualunque sia,

Sempre cara a me sarà.

Pur che a me nel morir mio

Il piacer non sia negato

Di vantar che tua son io,

Il morir mi piacerà. (parte)

 

 

 




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