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Pietro Metastasio
Lettere

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29 - A FRANCESCO ALGAROTTI - DRESDA

 

Joslowitz 27 ottobre 1746.

 

Come per lo più avviene di tutto ciò che piace e si desidera, la carissima vostra lettera del 20 d'agosto con l'epistola sul commercio e la nuova stampa del Congresso di Citera mi sono giunte tardissimo.

Non prima d'avanti ieri mi furono trasmesse da Vienna dal nostro signor conte di Canale, ed io mi son vendicato della lunga aspettazione rileggendo già ben tre volte questo vostro nuovo componimeno, e sempre con nuova specie di piacere. L'idea che voi avete saputo render poetica è degna d'un savio e buon cittadino. Vi trovo de' versi incomparabili, come

 

Parte maggior del veneto destino...

Piagata il sen dalle civili guerre...

 

ed i tre seguenti:

 

La tarda prole del palladio ulivo...

L'obbliquo riso...

 

e molti altri ch'io non voglio trascrivere. Vi si conosce per tutto l'uomo che pensa, e non il parolaio, carattere d'una gran parte de' nostri cinquecentisti. Si vede quanto voi conoscete che gli aggiunti sono il colorito della poesia, onde i vostri non son mai oziosi. E soprattutto ho ammirato la facilità con la quale vi è riuscito di superare quella vostra natural propensione alla folla de' pensieri, scoglio di tutti gl'ingegni fecondi, per cui avviene delle idee quello che delle piante, che germogliando in copia non proporzionata al terreno si usurpano a vicenda e lo spazio ed il nutrimento, onde la maggior parte riman soffocata e quasi nessuna matura. Io mi rallegro con esso voi di questo invidiabil dominio che avete su voi medesimo per cui sarà sempre per voi l'istesso il conoscere il buono che il conseguirlo. Ma, perché non crediate ch'io voglia unicamente lisciarvi (mestiere indegno dell'amicizia, e di cui ho tanto orrore che procuro evitarne fino il sospetto), vi dirò sinceramente ancora tutto quello in che io ho inciampato: non intendo che la mia delicatezza sia però misura del vostro giudizio. Il verso Te vidi un tempo ecc. co' quindici seguenti pare che interrompano l'unione del proemio con la materia, nella quale entrate dal verso Piagata il sen ecc. Veggo benissimo che non è così, poiché in detti versi voi provate la proposizione, che al vostro eroe stia sempre nel cuore il patrio bene. Ma io avrei voluto che voi aveste un poco più aiutato il lettore a conoscer subito la legatura; essendo io persuaso che nessuno di quanti ci leggono vuole affaticarsi per lodarci, ma che tutti all'incontro precipitano i giudizi che ci condannano. Desidererei che alcuna volta aveste un poco più di condescendenza per la ritrosia dell'orecchio italiano, avvezzo come quelli de' Greci e de' Latini a distinguere la lingua della poesia da quella della prosa: legame che non hanno i Francesi. Voi talvolta, benché non frequentemente, pur che una parola esprima la vostra idea e goda la cittadinanza fiorentina non avete repugnanza a valervene, ancorché sia essa straniera a' poeti, come imbriacare, rinculare, banderuole, molla o altre simili. Sono parole ottime e sonore; ma, non impiegate fin ora affatto, o pochissimo, ne' lavori poetici, fanno una tal qual dissonanza dal tenore di tutto il rimanente, e presentano i pensieri non rivestiti di tutta quella decenza che, come appunto nelle vesti, dipende in gran parte dal costume. È bellissima, per esempio, la voce molla nel senso metaforico in cui voi l'usate; ma non crediate che muova con la medesima sollecitudine ad un italiano l'idea medesima che muove la parola ressort ad un francese, appresso di cui il senso traslato di detta voce è divenuto proprio per la forza dell'uso. Se ne conoscerà fra noi il prezzo, ma dopo qualche riflessione, e questo sensibilmente diminuito dal rincrescimento della novità e dalla malvagità dei lettori, che tutti son uomini e per lo più ci puniscono della tardità del loro intelletto. La vivacità del vostro talento, intollerante d'ogni specie di servitù, vorrebbe scuotere questo giogo, ed io mi unirei volentieri in lega con voi, se credessi la provincia men dura: ma così in questa come nella maggior parte delle costumanze civili io credo impresa meno difficile l'accomodar me alla moltitudine che quella di disingannarla, ed evitando in tal guisa una quantità di risse importune procuro d'acquistare tempo per opere migliori di quello che sogliono essere i pedanteschi contrasti de' letterati, ripieni per lo più di ciancie inutili e di mal costume. A tutta questa lunga cicalata voi per altro risponderete con due parole dicendo: che lo stile della vostra epistola come che talvolta a seconda della materia e sorga e s'ingrandisca su l'esempio di Orazio, è nulla di meno sempre stile d'epistola, esente da' rigori della tibia, della tromba e della lira, e non obbligata a comparir sempre vestita da festa. Non avrei che replicare a questa risposta, se voi non aveste eletto e sostenuto in tutta l'epistola vostra un tuono nobile e poetico che non s'accosta mai al familiare; onde contraete co' lettori una specie d'impegno di non cambiarlo senza evidente ragione. Oltre a ciò, quella metafora al fiume un giogo ecc. non finisce di contentarmi, particolarmente nel sito in cui la trovo: essa è sempre un poco ardita (con buona pace della venerabile autorità de' Latini), ma in bocca de' barcaiuol parmi che s'allontani troppo dall'imitazione del parlare de' medesimi; e l'imitazione è il primo debito dell'arte nostra. Veggo che abuso indiscretamente della vostra pazienza: ma poiché ho intrapreso d'ubbidirvi, soffrite ancora quest'altra breve seccaggine. Nel terzo verso dell'ultima pagina voi dite

 

Ma non però, signore, il piede arresta.

 

Ora non mi sovviene esempio d'un imperativo usato come voi l'usate, e non ho qui libri per cercarlo. So che si dice ottimamente t'arresta, fa, , vieni, va; ma con la particola negativa non ho memoria d'aver trovato tale imperativo se non che con la terminazione dell'infinito, Non t'arrestare, non fare, non dire, non venire, non andare. Può essere che siano mie traveggole; ma questa volta ho risoluto di dirvi quanto penso; onde fatene voi quel caso che meritano. Ed eccovi quanto, rivestendo con grandissima ripugnanza il personaggio di censore che mi sta sì male, ho saputo ritrovar di dubbioso nella vostra bella epistola. Sono tutte bazzecole, e più tosto miei per avventura che vostri errori. Bisogna amarvi quanto io vi amo e stimarvi quanto voi meritate, per rompere il proposito di non credere all'istanze degli autori che dimandano il rigoroso giudizio degli amici, per esigere panegirici in contraccambio della loro apparente sommissione. Incominciando prima da me medesimo, io non credo infallibile se non il papa quando pronuncia ex cathedra; e so che avendo ancor voi questo giusto concetto degli uomini, vi compiacerete di quello che trovate tollerabile negli scritti miei, e mi perdonate le inavvertenze, quas vel incuria fudit vel humana parum cavit natura. Ma ormai potrebbero offendervi queste lunghe proteste, e con molta ragione.

La nostra degnissima signora contessa d'Althann mi commette mille saluti per voi. La disposizione in cui eravate di trattenervi un mese e più con esso noi ha resi più sensibili gl'impedimenti che ci hanno defraudato di tal piacere; desideriamo almeno che siano tanto a voi profittevoli, quanto sono stati a noi svantaggiosi. Amatemi intanto, perdonate la negligenza della lunga lettera che non ho tempo di rileggere, e credetemi.

 

 




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