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Pietro Metastasio
Lettere

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40 - AD ANNA FRANCESCA PIGNATELLI DI BELMONTE - NAPOLI

 

Vienna 30 agosto 1749.

 

M'avveggo dal veneratissimo foglio di Vostra Eccellenza del 14 luglio ch'ella reputa svantaggio quella tardità di raziocinio che per lo più si osserva fra i viventi nelle artiche regioni. Ma io, sia detto con sua pace, la credo uno dei più preziosi doni che possa far a noi poveri mortali la Provvidenza, e non so che darei per conseguirla in grado eccellente. A che serve mai cotesta perspicace celerità di combinazioni? Forse a prevedere il futuro? Oh che vanità! In tant'anni di dolorosa esperienza mi sono avveduto, con mio rossore, che (ragionando sulle vicende del mondo) da giustissimi argomenti ho dedotte per lo più falsissime conseguenze: sono tante e tante le contingenze possibili, che la mente umana non è moralmente capace di prevederle tutte: ed una sola che se ne trascuri nel porre i fondamenti d'un raziocinio, tutto l'edificio ruina. Ella sa che se in un punto solo una linea s'allontana dalla sua parallela, sempre poi tanto più se ne scosta quanto più si produce. Quindi è ch'io mi sento infinitamente più tentato a ridermi de' presagi ragionati de' nostri Aristoteli di gabinetto che de' sogni dell'abate Gioacchimo o delle visioni di Nostradamo. Un apologhetto d'un poeta greco, puerile in apparenza ma di grand'uso in sostanza, mette sensibilmente avanti gli occhi e la fallacia e i danni del nostro raziocinio: ed essendo brevissimo, può ottener luogo nell'ozio di questa lettera. Dice egli che le anime nostre, quando son condannate a venire ad informare un corpo, escono dal loro tranquillo soggiorno per una porta che ha un vaso a ciascun de' lati: nell'un de' quali si contiene il dolce e nell'altro l'amaro, che rendono soave o penosa la vita. La novella pellegrina è costretta per legge del Fato d'arrestarsi in su l'uscita, e di gustare da ciascun de' due vasi ancora incogniti a lei ciò che in essi si contiene, molto o poco come le piace. Or come tutte portan seco la dannosa inclinazione di preveder ragionando: ecco ciò che lor ne deriva. Quella che per avventura s'abbatte a gustar prima il dolce, argomenta che sia della stessa natura ciò che si chiude nell'altro vaso: e volendo raddoppiarsi il piacere prende una maggior porzion dell'amaro, e si trova delusa. Quella all'incontro che prima nell'amaro s'avviene, falsamente al pari dell'altra ragionando, per isminuirsi il disgusto, prende picciolissima porzione del dolce, e se medesima inganna. E quindi è (soggiunge il poeta) che nel corso dell'umana vita il dolce è sempre tanto minor dell'amaro.

Ma si conceda alla superbia umana cotesta sognata facoltà di preveder ragionando: se non se le consente anche l'altra di poter svolgere il corso degli eventi, non le servirà che di pena. Sono assiomi che non han bisogno di pruova, che in questa valle di lagrime i malanni eccedono infinitamente il numero dei piaceri: e che i malanni imaginati sono più terribili che realmente sofferti. Un poeta a me tanto quanto cognito, in un suo scartafaccio non ancora pubblicato, spiega così la verità di questo sentimento:

 

  Sempre è maggior del vero

l'idea d'una sventura,

al credulo pensiero

dipinta dal timor.

  Chi stolto il mal figura,

affretta il proprio affanno:

ed assicura un danno,

quando è dubbioso ancor.

 

E se Vostra Eccellenza mi dice che le sventure prevedute, facendo prudente uso della libertà dell'arbitrio, possono evitarsi; io le risponderò che cotesto nostro despotismo è circoscritto dalla nostra macchinetta, e non si stende fuori di noi. Libero quanto si voglia, io non impedirò per questo la ruina d'un regno che desidero fortunato: la caduta d'un amico che vorrei felice: l'infedeltà d'una pastorella che mi piacerebbe costante. Sicché dopo tutti i più belli argomenti, raziocini, combinazioni ed arzigogoli: dopo esserci ben bene lambiccato il cervello fra le memorie del passato: e dopo aver sempre perduto il presente per correr dietro al futuro: ci ritroviamo alla fine (a dispetto di cotesto ridicolo privilegio di sapersi tormentare) fra gl'inconvenienti medesimi fra' quali si trova chi a buon conto è stato sempre tranquillo; ed abbiamo (come si suol dire) il male, il malanno, e l'uscio addosso. Che ci rimane allora? se non che ricorrere a quella invidiabile indolenza che per lo più promette e non dona l'arroganza stoica? e che senza i sillogismi di Seneca e d'Epitteto somministra gratuitamente a questi popoli fortunati il placido loro temperamento? Piano, signor abate, voi correte senza freno: il vostro argomento prova troppo, e senza avvedervene precipitate in un terribile assurdo: poiché secondo cotesta vostra maniera di ragionare la condizione d'un'ostraca o d'una testuggine sarebbe da preferirsi infinitamente alla nostra. Corbezzole! Vostra Eccellenza mi stringe crudelmente i panni addosso. S'io perdessi per un momento le staffe ella mi ridurrebbe a dir non volendo qualche eresia. Adagio. In primo luogo io protesto d'aver presente che le testuggini e le ostrache non son capaci del santo battesimo: e che questa sola miseria rende indegni della minima considerazione gli altri loro innumerabili vantaggi. In secondo luogo, mi difendo opponendo all'argomento di Vostra Eccellenza l'uscir questo affatto dalla nostra quistione: poiché non si disputa fra noi se sia migliore la sorte degli animali bruti o quella de' ragionevoli: ma bensì se fra questi ultimi siano più o meno infelici quelli che pensan troppo o quelli che pensan poco. Onde non mi vada Vostra Eccellenza cambiando le carte in mano. E le sosterrò finalmente che cotesto suo assurdo non è paruto tale a tutti in tutti i secoli, e che fra quelli che hanno avuta la disgrazia di nascere prima che Ottaviano Augusto chiudesse il tempio di Giano non si sarebbe durata gran fatica a rinvenire chi arditamente anteponesse la tranquilla stupidità d'un'ostraca o d'una testuggine alla tormentosa vivacità di Pitagora o di Platone. Io non asserisco fanfaluche, ma vengo coi miei testi alla mano. Un celebre letterato fiorentino, per nome Giambattista Gelli, che ha molto illustrata la sua patria duecento anni fa, pubblicò in istampa alcune memorie anecdote della Corte di Circe: le quali servono infinitamente al caso nostro. Questo illustre investigatore della più remota antichità racconta che trovandosi Ulisse dopo la ruina di Troia già da qualche tempo nella reggia di Circe suo prigioniero ed amante, a dispetto di tutti gli allettamenti di quel delizioso soggiorno non pensava perpetuamente ad altro che a rinvenire una via di riveder la sassosa sua Itaca, miserabile isoletta del mar Ionio, ma che aveva il pregio d'esser sua patria. Che, gran tessitore di stratagemmi, ne avea inutilmente imaginati moltissimi per mettersi in libertà: e che persuaso finalmente che tutti gli accorgimenti suoi non sarebber mai giunti a deludere la troppo cauta vigilanza della sua gelosa custode, tentò di vincerla a forza aperta. Che aspettando il momento opportuno, non so in quali circostanze e fra quali accessi di tenerezza, seppe così ben coglierlo un giorno che l'innamorata maga, incapace di resistergli, gli promise con uno di quei solenni giuramenti, così terribili agli dei d'Omero, la libertà d'una limitata assenza. Che il destro Ulisse, approfittandosi delle negligenti difese della disarmata nemica, spinse più oltre la sua vittoria, e dimandò di poter condur seco in Grecia un paio almeno de' molti suoi compagni, che già da lei trasformati in diversi animali erravano per quelle campagne. Che non solo un paio gliene furon concessi, ma tutti quelli che volontariamente seguitar lo volessero e riprendere l'umana forma. Che, già sicuro l'astuto Greco che nulla gli verrebbe negato, s'avvanzò a chiedere che fosse resa a' suoi compagni la perduta facoltà della favella per potere spiegarsi con esso loro; e l'ottenne. Oh quanto è stato poi per nostra disgrazia fecondo quello scandaloso esempio di far parlare gli animali! Ma non usciam di carriera. Ulisse (prosiegue l'autore), superbo del suo trionfo e più che certo di non lasciar né pur uno de' suoi prigioni alla maga, si svolse il più presto che seppe dalle braccia di lei, impaziente di perfezionar la grand'opra. Il primo in cui nell'uscir dall'incantato palagio casualmente s'avvenne fu uno di quei leggiadri animaletti, tanto dal popolo eletto ingiustamente aborriti, che deliziava sdraiato nel fango d'una pozzanghera non addormentatodesto. Gridò da lontano nel vederlo Ulisse e dimandò s'egli fosse de' suoi compagni. Alzò quegli, non già alle prime voci, lentamente il muso, e come chi vuol presto liberarsi da un importuno, in secchissimo stile spartano articolò fra i non ben distinti grugniti la patria ed il nome suo. Oh dolce amico (esclamò l'altro riconoscendolo), rendi grazie agli dei: son terminate le tue miserie; oggi riprenderai l'umana sembianza, oggi farem vela insieme alla volta di Grecia. Come? Perché? rispose lo spaventato animale: a cui palesò brevemente Ulisse la grazia da Circe ottenuta per se medesimo e per qualunque de' suoi compagni seguitar lo volesse. Rasserenossi all'udir che dipendea dal suo arbitrio il restare o il partire il trasformato Greco: ed augurò cortesemente un buon viaggio al suo duce. Questi non ben persuaso ch'ei parlasse da senno il dimandò se scherzava: scherzerei, riprese l'altro, s'io dicessi di voler venir teco. E mi credi, Ulisse, così dolce di sale ch'io mi risolva ad abbandonar volontariamente le sicure e reali delizie di questa tranquilla vita ed il pacifico consorzio degl'innocenti miei pari per immergermi di nuovo fra gl'infiniti malanni della condizione umana e per viver sempre tremando fra voi altri malvagi? Cerca d'ingannar qualcun altro: io non son così gocciolone. E fatto un chiocciolin su l'altro lato presentò gentilmente le spalle al distruttor di Troia: e senza onorarlo più di risposta lasciò ch'ei gracchiasse a sua voglia. Si figuri la sorpresa e la collera d'Ulisse. Scaricò contro il Greco un torrente d'eloquentissime ingiurie: non risparmiò né pur una delle licenziose espressioni d'Aristofane: e non cessò da convici se non che per proporre (ma senza frutto) il viaggio ad un orso, che curioso era comparso alle grida. Non abbattuto dall'infelicità della seconda pruova tentò non con sorte migliore la terza con un cavallo, la quarta con un cervo: in somma (per abbreviar la leggenda), dopo aver corso inutilmente e ricorso tutto il contorno, dopo aver perorato con più studio e con più vigore di quel che fece quando scroccò l'armi d'Achille; rauco, ansante, scalmanato e rifinito tornò finalmente a Circe senza aver persuaso di tanti suoi compagni che un solo: e questi fu un elefante.

Or che dice ella d'un così bel tratto di storia? Non è invenzione poetica come forse Vostra Eccellenza suppone. Le pruove de' monumenti antichi sono incontrastabili. C'è un palimpsesto, o sia libro di memoria di Circe, trovato scavando alle falde del monte Circello, in cui in caratteri toscani vien riferito distesamente il fatto: oltre le medaglie ed i fragmenti d'iscrizioni di quei secoli, che il marchese Maffei darà ben presto alla luce. Onde la cosa è certissima.

Quello che v'è di più certo, caro abate (mi risponderà Vostra Eccellenza), è che voi siete un gran seccatore, e che fareste a cicalar con le piche. Oh questo è pur troppo vero, e non intraprendo difesa. Il peggio dell'affare si è che questa nuova inclinazione ch'io mi sento a cicalare è uno de' molti dolorosi sintomi che mi convincono che invecchio. Dovrei veramente corregger oggi l'errore lacerando questa lettera invece di mandarla alla posta: ma rifletto che, s'io sono colpevole, Vostra Eccellenza non è innocente: non han data picciola occasione all'enorme lunghezza di questa l'eccessive lodi delle quali ha caricate Vostra Eccellenza le precedenti mie lettere: onde un pochetto di noia è castigo ben meritato dalla poca carità con la quale va ella secondando la vanità d'un povero poeta.

La nostra degnissima signora contessa d'Althann pensa nella prossima settimana di partir per Moravia all'annua solita villeggiatura: io partirò seco, o la seguirò poco dopo. Si figuri Vostra Eccellenza le tenere commissioni che ricevo da lei tutte le volte ch'io dico di scrivere a Napoli.

Questa sera si rappresenterà in questo teatro per la prima volta l'Achille in Sciro. La musica di Jumella alle prove ha ecceduto di molto la grande espettazione che si avea di lui.

Ecco un'altra lettera di Vostra Eccellenza del 29 luglio; per oggi non ho tempo che d'accusarne la ricevuta. È tardi, e l'ho seccata abbastanza. Al veneratissimo signor principe suo consorte la priego di tener presente il mio costante rispetto: al signor marchese di Galatone il rossore col quale ho lette le obbliganti sue e parziali espressioni: ed a se medesima l'invariabile tenore di quell'antico riverentissimo ossequio, con cui sono stato e sarò sempre.

 




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