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Pietro Metastasio
Lettere

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41 - AD ADOLFO HASSE - DRESDA

 

Joslowitz 20 ottobre 1749.

 

Dal ch'io son partito da Vienna il mio amatissimo monsieur Hasse mi sta sul cuore, ma non ho potuto finora esser suo, perché in questo affaccendatissimo ozio in cui mi trovo io sono appena mio quando dormo. Le passeggiate, le cacce, la musica, il giuoco, le cicalate c'impiegano di maniera che non resta un momento agli usi privati, senza defraudarlo alla società. Ciò non ostante io non so più contrastar col rimorso d'avervi negletto oltre il dovere, ed eccomi ad ubbidirvi.

Ma che cosa vi dirò mai che voi non abbiate pensata! Dopo tante illustri pruove di sapere, di giudizio, di grazia, d'espressioni, di fecondità e destrezza, con le quali avete voi solo finora interrotto l'intiero possesso del primato armonico alla nostra nazione, dopo aver voi, con le vostre note seduttrici, inspirata a tanti e tanti componimenti poetici quell'anima e quella vita, delle quali gli autori loro non avean saputo fornirgli, quali lumi, quali avvenimenti, quali direzioni pretendete mai ch'io vi somministri? se ho da dirvi cosa in questo genere, che voi non sappiate, la mia lettera è finita; se poi m'invitate a trattenermi ragionando con voi, sa Dio quando potrò ridurmi a terminarla.

Or poiché l'Attilio dee pur essere la materia di questa lettera, incomincierò a spiegare i caratteri, che forse non avrò così vivamente espressi nel quadro come in mente gli ho concepiti.

In Regolo dunque ho preteso di dar l'idea d'un eroe romano d'una virtù consumata non meno per le massime che per la pratica, e già sicura alla pruova di qualunque capriccio della fortuna; rigido e scrupoloso osservatore così del giusto e dell'onesto come delle leggi e de' costumi, consacrati nel suo paese e dal corso degli anni e dall'autorità de' maggiori; sensibile a tutte le permesse passioni dell'umanità, ma superiore a ciascuna; buon guerriero, buon cittadino e buon padre, ma avvezzo a non considerarsi mai distinto dalla sua patria, e per conseguenza a non contar mai fra i beni o fra i mali della vita se non gli eventi o giovevoli o nocivi a quel tutto di cui si trova egli esser parte; avido di gloria, ma come dell'unico guiderdone al quale debbano aspirare i privati col sacrifizio della propria alla pubblica utilità. Con queste qualità interne io attribuisco al mio protagonista un esteriore maestoso, ma senza fasto, riflessivo, ma sereno, autorevole, ma umano, uguale, considerato e composto: né mi piacerebbe che si concitasse mai nella voce o nei moti, se non che in due o tre siti dell'opera, ne' quali la sensibile diversità del costante tenore di tutto il suo rimanente contegno farebbe risaltar con la distinta vivacità dell'espressione gli affetti suoi dominanti, che sono la Patria e la Gloria. Non vi spaventate, caro monsieur Hasse, sarò più breve nella esposizione degli altri caratteri.

Nel personaggio del console Manlio io ho preteso di rappresentare uno di que' grandi uomini che, in mezzo a tutte le virtù civili o militari si lasciano dominare dalla passione dell'emulazione oltre il grado lodevole. Vorrei che comparisse questa rivalità e questa poco favorevole disposizione dell'animo suo verso Regolo così nella prima scena ch'egli fa con Attilia come nel principio dell'altra nella quale il senato ascolta Regolo e l'ambasciator cartaginese. Così il suo cambiamento in rispetto e in tenerezza per Regolo renderà il suo carattere più ammirabile e più grato: esalterà la virtù di Regolo nel dimostrarla feconda d'effetti così stupendi, e farà strada alla seconda scena dell'atto secondo, che è quella per cui io mi sento la maggior parzialità. Il distintivo del carattere di Manlio è la natural propensione all'emulazione, che anche dopo il suo ravvedimento rettifica, ma non depone.

Publio è quel leoncino che promette tutte le forze del padre, ma non ne ha ancora le zanne e gli artigli. Onde in mezzo agl'impeti, ai bollori e all'inesperienza della gioventù si prevegga qual sarà nella sua maturità.

Licinio è un giovane grato, valoroso, risoluto, ma appassionato oltre il dovere; onde si riduce tardissimo a convincersi d'essere in obbligo di sacrificare il genio della sua donna e la vita medesima del suo benefattore alla gloria e alla utilità della patria.

Amilcare è un Africano non avvezzo alle massime d'onestà e di giustizia delle quali facevano allora professione i Romani, e molto meno alle pratiche di quelle; onde da bel principio riman confuso non potendo comprendere una maniera così diversa da quella del suo paese. Comincia a poco a poco a conoscerla, ma per mancanza di misura va molto lontano dal segno; pure nella sua breve dimora in Roma, se non giunge ad acquistar la virtù romana, perviene almeno a saper invidiar chi la possiede.

La passion dominante d'Attilia è la tenerezza per il suo padre, alla quale pospone Roma medesima, non che l'amante, convinta dall'autorità e dall'esempio. Adotta finalmente anch'essa i sentimenti paterni, ma alla pruova di quella fermezza, ch'ella vorrebbe pure imitare, si risente visibilmente della delicatezza del sesso.

In Barce io mi sono figurato una bella, vezzosa e vivace Africana. Il suo temperamento, qualità propria della nazione, è amoroso, la sua tenerezza è Amilcare, e da quello e da questa prendono unicamente moto tutti i suoi timori, tutte le sue speranze, i pensieri tutti e tutte le cure sue: è più tenace del suo amante medesimo della morale africana, non solo non aspira al par di quello ad imbeversi delle magnifiche idee di gloria che osserva in Roma, ma è molto grata agli dei che l'abbiano così ben preservata da quel contagio.

Queste sono in generale le fisonomie che io mi era proposto di ritrarre. Ma voi sapete che il pennello non va sempre fedelmente su le tracce della mente. Or tocca a voi, non meno eccellente artefice che perfetto amico, l'abbigliare con tal maestria i miei personaggi che, se non da' tratti del volto, dagli ornamenti almeno e dalle vesti siano distintamente riconosciuti.

Per venire poi come voi desiderate, a qualche particolare, vi parlerò de' recitativi che, secondo me, possono essere animati dagl'istrumenti; ma io non pretendo accennandoveli di limitare la vostra libertà. Dove il mio concorre col voto vostro, vaglia per determinarvi; ma dove siete da me discorde non cambiate parere per compiacenza.

Nel primo atto dunque trovo due siti ne' quali gl'istrumenti possono giovarmi. Il primo è tutta l'arringa d'Attilia a Manlio nella seconda scena dal verso:

 

A che vengo? Ah! sino a quando.

 

Dopo le parole a che vengo dovrebbero incominciare a farsi sentir gl'istrumenti, e or tacendo, or accompagnando, or rinforzando, dar calore ad una orazione già per se stessa concitata, e mi piacerebbe che non abbandonassero Attilia, se non dopo il verso:

 

La barbara or qual è? Cartago o Roma?

 

Credo per altro, particolarmente in questo caso, che convenga guardarsi dall'inconveniente di far aspettare il cantante più di quello che il basso solo esigerebbe. Tutto il calore dell'orazione s'intepidirebbe, e gl'istrumenti in vece di animare snerverebbero il recitativo, che diverrebbe un quadro spartito, nascosto e affogato nella cornice, onde sarebbe più vantaggioso in tal caso che non ne avesse.

L'altro sito è nella scena settima dell'atto medesimo, ed è appunto uno di quei pochissimi luoghi ne' quali vorrei che Regolo abbandonasse la sua moderazione e si riscaldasse più del costume. Sono soli dodici versi, cioè da quello che incomincia:

 

io venissi a tradirvi ecc.

 

sino a quello che dice:

 

come al nome di Roma Africa tremi.

 

Se vi piace di farlo, vi raccomando la già raccomandata economia di tempo, acciocché l'attore non sia obbligato ad aspettare, e si raffreddi così quel calore ch'io desidero che si aumenti.

E già che siamo alla scena settima dell'atto primo, secondando il piacer vostro, vi dirò che dopo il verso di Manlio:

 

T'accheta: ei vene


parmi necessaria una brevissima sinfonia, così per dar tempo al console e a' senatori di andare a sedersi, come perché Attilio possa venir senz'affrettarsi, o fermarsi a pensare. Il carattere di questa picciola sinfonia dee essere maestoso, lento, e se tornasse bene al motivo che sceglierete, qualche volta interrotto, quasi esprimente lo stato dell'animo di Regolo nel riflettere che ritorna schiavo in quel luogo dove altre volte ha seduto console. Mi piacerebbe che in una delle interruzioni, ch'io desidero nel motivo della sinfonia, entrasse Amilcare a parlare, e che tacendo gl'istrumenti, né facendo ancora cadenza, dicess'egli i due versi:

 

Regolo, a che t'arresti? è forse nuovo per te questo soggiorno?

 

e che non si concludesse la sinfonia, se non che dopo la risposta di Regolo:

 

Penso qual ne partii, qual vi ritorno

 

avvertendo, per altro, che dopo le parole qual vi ritorno non facciano altro gl'istrumenti che la poca cadenza.

Nell'atto secondo non v'è altro recitativo, a parer mio, che la scena a solo di Regolo, che incomincia:

 

Tu palpiti, o mio cor!

 

ed è la settima dell'atto, che richiede accompagnamento. Questa dovrebbe essere recitata a sedere sino alle parole:

 

... Ah! no. De' vili

questo è il linguaggio...

 

e il resto in piedi. Ma perché è in libertà dell'architetto di far lunghe o corte le due scene delle loggie e della galleria, se per avventura la mutazione non fosse di corta in lunga sarà difficile che Regolo si trovi a sedere. Perciò affinché, se non può trovarvisi, possa lentamente andarvi, arrestandosi di quando in quando e mostrandosi immerso in grave meditazione: dicendo ancora, se vuole, qualche parola dal principio della scena, è necessario che gl'istrumenti lo prevengano, l'assistano e lo secondino, finché il personaggio rimane a sedere: tutto ciò ch'egli dice sono riflessioni, dubbi e sospensioni, onde danno luogo a modulazioni improvvise e vicine, a qualche discreto intervallo da occuparsi dagl'istrumenti; ma subito che si leva in piedi, tutto il rimanente dimanda risoluzione ed energia: onde ricorre la mia premura per l'economia di tempo, come di sopra ho desiderato.

E già che siamo in questa scena, io vi prego di correggere l'originale da me mandato, nella maniera seguente. V'è un senso che nel rileggerlo presentemente mi è paruto bisognoso di chiarezza:

 

... Ah! no. De' vili

questo è il linguaggio. Inutilmente nacque

chi sol vive a se stesso; e sol da questo

nobile affetto ad obliar s'impara

sé per altrui. Quanto ha di ben la terra

alla gloria si dee: ecc.

 

Benché nel corso dell'atto terzo non meno che negli altri due vi sian de' luoghi da me negletti, che potrebbero opportunamente essere accompagnati da' violini, a me pare che non renda conto il ridurre troppo famigliare questo ornamento, e mi piacerebbe che nel terzo atto particolarmente non si sentissero istrumentirecitativi sino all'ultima scena. Questa è prevenuta dallo strepitoso tumulto del popolo che grida:

 

Resti, Regolo resti.

 

Il fracasso di queste grida deve esser grande perché imiti il vero, e per far vedere qual rispettoso silenzio sia capace d'imporre ad un popolo intiero tumultuante la sola presenza di Regolo. Gl'istrumenti debbono tacer quando parlano gli altri personaggi, e possono, se si vuole, farsi sempre sentire quando parla il protagonista in quest'ultima scena, variando per altro di movimenti e di modulazione, a seconda non già delle mere parole, come fanno, credendo di fare ottimamente, gli altri scrittori di musica, ma a seconda bensì della situazione dell'animo di chi quelle parole pronuncia, come fanno i vostri pari. Perché, come voi non meno di me sapete, le parole medesime possono essere, secondo la diversità del sito, ora espressioni di gioia, or di dolore, or d'ira, or di pietà. Io spererei che uscendo dalle vostre mani non potesse, tanto recitativo accompagnato sempre dagl'istrumenti, giungere a stancare gli ascoltanti. In primo luogo perché voi conserverete quell'economia di tempo ch'io tanto ho di sopra raccomandata, e principalmente poi perché voi sapete a perfezione l'arte con la quale vadano alternati i piani, i forti, i rinforzi, le botte ora staccate or congiunte, le ostinazioni or sollecite or lente, gli arpeggi, i tremuli, le tenute, e sopra tutto quelle pellegrine modulazioni delle quali sapete voi solo le recondite miniere. Ma se, a dispetto di tanti sussidi dell'arte, foste voi di parere diverso, cedo alla vostra esperienza, e mi basterà che siano accompagnati i versi seguenti, cioè i primi dieci dal verso:

 

Regolo resti! ed io l'ascolto! ed io ecc.

 

sino al verso:

meritai l'odio vostro?

 

poi dal verso:

No, possibil non è: de' miei Romani ecc.

 

sino al verso:

esorto cittadin, padre comando

 

e finalmente dal verso:

Romani, addio: siano i congedi estremi ecc.

 

sino alla fine.

Voi crederete che la seccatura sia finita? signor no: v'è ancora una codetta da scorticare. Desidererei che l'ultimo coro fosse uno di quelli coi quali avete voi introdotto negli spettatori il desiderio, per l'innanzi incognito, di ascoltarli, e vorrei che regnando in esso quell'addio col quale i Romani danno a Regolo l'ultimo congedo, faceste conoscere che questo coro non è, come per l'ordinario, una superfluità, ma una parte necessarissima della catastrofe.

Ho finito, non già perché manchi materia o voglia di parlare con voi, ma perché sono veramente stanco e perché temo di stancarvi. Il signor Annibali desidera ch'io gli scriva alcuna cosa su la sua parte: vi prego di leggergli quello che può far per lui. Io non ho tempo di rileggere quello ch'ho scritto, pensate se posso averne per copiarne una parte. Dite mille permesse tenerezze a mio nome alI'impareggiabile signora Faustina e credetemi a qualunque pruova.

 

 




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