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Pietro Metastasio Lettere IntraText CT - Lettura del testo |
53 - A FRANCESCO ALGAROTTI - BERLINO
Mi è stata carissima, come tutto ciò che mi viene da voi, l'ultima vostra lettera del 26 dello scorso giugno, così per la vostra perseveranza nella rinnovata corrispondenza come per il favorevole e conforme giudizio da voi e dal signor Voltaire pronunciato sul mio travestimento del Sorcio d'Orazio. Né me ne ha punto diminuito il piacere il tenero e cristiano compatimento del mio traduttor francese su la parte che mi tocca del morbo epidemico della nostra nazione contaminata dalla scabbia de' concetti. Grazie al Cielo ch'egli ignora i sintomi della mia infermità. S'egli sapesse ch'io non m'avveggo di averla, dispererebbe affatto di mia salute. Il falso rende reprensibili i concetti, e io non mi son mai proposto che il vero: può darsi ch'io me ne sia alcuna volta inavvedutamente dilungato, ma non può essermi utile una correzione in genere, che non mi addita le lucciole prese per lanterne. Purché la verità sia il quadro, non v'è poeta né greco, né latino, né d'altra qualsivoglia nazione, che non si rechi a debito, non che a pregio, d'adornarlo d'una bella cornice. È vero che siccome altre volte i Goti contaminarono la nostra architettura, così dopo la metà del secolo XVII la nazione che dominava in Italia introdusse nella nostra l'arditezza della sua poesia, arditezza che non era ripugnante alla natura del suo clima, feconda in tempi più remoti de' Seneca, de' Lucani e de' Marziali, e accresciuta poi a dismisura dal genio fantastico della letteratura araba colà dagli Africani trasportata e stabilita. È verissimo che s'incominciò allora fra noi a perder la misura e la proporzione delle figure, e applicati unicamente a far cornici ci dimenticammo di far quadri: ma questa pianta straniera non allignò in guisa nel buon terren d'Italia che non vi fosse, anche nel tempo ch'essa fioriva, chi procurasse estirparla. Ed è poi palpabile che da un mezzo secolo in qua non v'è barcaiuolo in Venezia, non fricti ciceris emptor in Roma, né uomo così idiota nell'ultima Calabria o nel centro della Sicilia, che non detesti, che non condanni, che non derida questa peste che si chiama fra noi secentismo. Onde quando io fossi ancor tinto di questa pece, quod Deus omen avertat, non so come il mio traduttore fondi la sua compassione sopra un'infermità che la nostra Italia non soffre. Ha pur troppo la sventurata di che farsi compiangere senza inventarne i motivi. Io non ho letto ancora cotesta traduzione francese delle opere mie per una certa riprensibile mancanza di curiosità, che si va in me di giorno in giorno accrescendo, ma in gran parte ancora per delicatezza di coscienza. Io mi conosco incontentabile in materia di traduzioni, e non ho voluto espormi a divenire ingrato a chi mi ha reputato degno di così faticosa applicazione. Quando la mia curiosità si aumenti, e i miei scrupoli diminuiscano, saprete quanto mi abbia dilettato questa lettura.
Voi vorreste de' versi fatti da me improvvisamente negli anni della mia fanciullezza; ma come appagarvi? Non vi niego che un natural talento più dell'ordinario adattato all'armonia e alle misure si sia palesato in me più per tempo di quello che soglia comunemente accadere, cioè fra 'l decimo e undecimo anno dell'età mia: che questo strano fenomeno abbagliò a segno il mio gran maestro Gravina, che mi riputò e mi scelse come terreno degno della coltura d'un suo pari: che fino all'anno decimosesto, all'uso di Gorgia Leontino, m'esposi a parlare in versi su qualunque soggetto così d'improvviso, sa Dio come, e che Rolli, Vanini e il cavalier Perfetti, uomini allora già maturi, furono i miei contraddittori più illustri. Che vi fu più volte chi intraprese di scrivere i nostri versi mentre da noi improvvisamente si pronunziavano, ma con poca felicità, poiché (oltre l'esser perduta quell'arte, per la quale a' tempi di Marco Tullio era comune alla mano la velocità della voce) conveniva molto destramente ingannarci, altrimenti il solo sospetto d'un tale agguato avrebbe affatto inaridita la nostra vena, e particolarmente la mia. So che a dispetto di tante difficoltà, si sono pure in que' tempi e ritenuti a memoria e forse scritti da qualche curioso alcuni de' nostri versi ma sa Dio dove ora saran sepolti, se pure son tuttavia in rerum natura, di che dubito molto. De' miei io non ho alcuna reminiscenza, a riserva di quattro terzine che mi scolpì nella memoria Alessandro Guidi a forza di ripeterle per onorarmi. In una numerosa adunanza letteraria che si tenne in casa di lui, propose egli stesso a Rolli, a Vanini e a me per materia delle nostre poetiche improvvise gare i tre diversi stati di Roma, pastorale, militare ed ecclesiastico. Rolli scelse il militare, toccò l'ecclesiastico a Vanini, e restò a me il pastorale. Da bel principio Vanini si lagnava che per colpa d'amore non era più atto a far versi; e mi asseriscono ch'io gli dissi:
Da ragion, se consiglio non rifiuti,
ben di nuovo udirai nella tua mente
risonar que' pensier ch'ora son muti.
Poco dopo, entrando nella materia:
Vedi quel pastorel che nulla or pare?
Quel de' futuri Cesari e Scipioni
foce sarà, come de' fiumi il mare.
Pasci i fiori, or che lice, e l'erbe molli:
d'altro fecondi in altra età saranno
che sol d'erbe e di fiori, i sette colli.
E nello stesso conflitto, ma in diverso proposito:
Sa da se stessa la virtù regnare,
e non innalza, e non depon la scure
ad arbitrio dell'aura popolare.
Questi lampi, ne' quali hanno la maggior parte del merito il caso, la necessità, la misura e la rima, e ne' quali si riconosce forse troppo lo studio de' poeti latini non ridotto ancora a perfetto nutrimento, sa Dio fra quante puerilità uscivano inviluppati. Buon per me che il tempo non mi ha lasciati materiali onde tradir me medesimo; temo che la passione di compiacervi avrebbe superato quella di risparmiare il mio credito. Or, per terminare il racconto, questo mestiere mi divenne e grave e dannoso; grave perché, forzato dalle continue autorevoli richieste, mi conveniva correre quasi tutti i dì, e talora due volte nel giorno istesso, ora ad appagare il capriccio d'una dama, ora a soddisfar la curiosità d'un illustre idiota, ora a servir di riempitura al vuoto di qualche sublime adunanza, perdendo così miseramente la maggior parte del tempo necessario agli studi miei: dannoso, perché la mia debole fin d'allora e incerta salute se ne risentiva visibilmente. Era osservazione costante che, agitato in quella operazione dal violento concorso degli spiriti, mi si riscaldava il capo e mi s'infiammava il volto a segno maraviglioso, e che nel tempo medesimo e le mani e le altre estremità del corpo rimanevan di ghiaccio. Queste ragioni fecero risolvere Gravina a valersi di tutta la sua autorità magistrale per proibirmi rigorosamente di non far mai più versi all'improvviso; divieto che dal decimosesto anno dell'età mia ho sempre io poi esattamente rispettato, a cui credo di essere debitore del poco di ragionevolezza e di connessione d'idee che si ritrova negli scritti miei. Poiché, riflettendo in età più matura al meccanismo di quell'inutile e maraviglioso mestiere, io mi sono ad evidenza convinto che la mente condannata a così temeraria operazione dee per necessità contrarre un abito opposto per diametro alla ragione. Il poeta che scrive a suo bell'agio elegge il soggetto del suo lavoro, se ne propone il fine, regola la successiva catena delle idee che debbono a quello naturalmente condurlo, e si vale poi delle misure e delle rime come d'ubbidienti esecutrici del suo disegno. Colui all'incontro che si espone a poetar d'improvviso, fatto schiavo di quelle tiranne, convien che prima di rifletter ad altro impieghi gl'istanti che gli son permessi a schierarsi innanzi le rime che convengono con quella che gli lasciò il suo contraddittore, o nella quale egli sdrucciolò inavveduto, e che accetti poi frettolosamente il primo pensiero che se gli presenta, atto ad essere espresso da quelle benché per lo più straniere, e talvolta contrarie al suo soggetto. Onde cerca il primo a suo grand'agio le vesti per l'uomo, e s'affretta il secondo a cercar tumultuariamente l'uomo per le vesti. Egli è ben vero che se da questa inumana angustia di tempo vien tiranneggiato barbaramente l'estemporaneo poeta, n'è ancora in contraccambio validamente protetto contro il rigore de' giudici suoi, a' quali, abbagliati dai lampi presenti, non rimane spazio per esaminare la poca analogia che ha per lo più il prima col poi in cotesta specie di versi. Ma se da quel dell'orecchio fossero condannati questi a passare all'esame degli occhi, oh quante Angeliche si presenterebbero con la corazza d'Orlando e quanti Rinaldi con la cuffia d'Armida! Non crediate però ch'io disprezzi questa portentosa facoltà, che onora tanto la nostra spezie; sostengo solo che da chiunque si sagrifichi affatto ad un esercizio tanto contrario alla ragione non così facilmente:
posse linenda cedro, et levi servanda cupresso.
Benché lontana, mi solletica dolcemente la speranza d'abbracciarvi in queste parti. Io l'ho comunicata alla signora contessa d'Althann e al signor conte di Canale, che, più che pieni di riconoscenza alla vostra memoria, andranno raddolcendo meco l'aspettazione della vostra venuta con la lettura del libro che ci promettete.
Qui si è sparso che il signor di Voltaire, desideroso di fare un giro in Italia, ne abbia ottenuto il consenso reale, e che terrà questo cammino. Ditemi se posso ragionevolmente lusingarmene; abbracciatelo intanto per me e ricordategli la tenera mia costante e riverente stima. Ma perché non siate tentato di pubblicarmi per cicalone, verbam non amplius addam. Addio.