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Pietro Metastasio
Lettere

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111 - A LEOPOLDO TRAPASSI - ROMA

 

Vienna 9 febbraio 1767.

 

Nelle vostre due lettere che unitamente ricevo, date il 17 e il 24 dello scorso gennaio, la parte che più mi ha occupato è stata l'eloquente esposizione che fate, nella seconda, del notabile peggioramento della nostra povera Roma nel breve giro di soli trentasei anni. Questo mi ha indotto ad esaminar quello che nel medesimo tratto di tempo si è fatto in Vienna, né l'ho trovato meno considerabile. E passando, come d'ordinario avviene, di meditazione in meditazione, ho pensato che, se veramente esistesse questa successiva degradazione del mondo e tanto continuamente e da tanti decantata, a calcolo sicuro sarebbe esso già da molti secoli distrutto. Così dubitando dell'assioma, nel riandar sommariamente le antiche memorie l'ho ritrovato falsissimo. Ditemi: preferireste voi, al secolo in cui viviamo quelli per avventura che chiamansi favolosi ed eroici?

Credereste felicità il trovarvi esposto agli Antifati, ai Procusti, ai Gerioni, ai Cachi, ai Tiesti e agli Atrei? Sono forse (come meno incerte) le memorie istoriche gli oggetti della vostra invidia? Ricordatevi i Mostri e le Furie ch'hanno funestati nel corso de' loro regni i viventi in Asia, in Grecia, in Egitto. Desiderate per avventura i secoli ne' quali i nostri Romani hanno tanto onorata l'umanità? Andate, vi prego, enumerando le loro vicende, e vedete se vi piacerebbe di far numero nella bella collezione di Romolo, di vivere sotto Tarquinio, di comprar la libertà con l'evidente pericolo d'esser distrutti, di soffrir la tirannia de' decemviri, di trovarvi involto nelle turbolenze dei Gracchi o notato nelle proscrizioni de' triumviri, di tremar sempre alle brutalità de' Tiberii, de' Neroni, de' Caligoli, de' Caracalli e della maggior parte degli altri Cesari? D'esser sepolto sotto le rovine dello scosso e dissipato impero romano? O sommerso dai barbari torrenti che versò il Settentrione sulle infelici nostre contrade? O smarrito e confuso fra i rischi, gli errori, l'ignoranza e le tenebre de' secoli che quindi seguirono? Ma senza andar tanto indietro, ditemi solo se contate come più di voi fortunati quelli da cui nacquero i nostri padri in tempi ne' quali la gelosia, la vendetta, la violenza, il tradimento, armati di veleni, di sicari e di trabocchetti, erano le più luminose virtù degli uomini d'alto affare? Ah, caro fratello, siam noi, non è il mondo che invecchia: e noi rovesciamo sul mondo il nostro proprio difetto. Sempre si è fatto così:

 

Aetas maiorum peior avis tulit

nos nequiores; mox daturos

progeniem vitiosiorem,

 

diceva a' suoi tempi Orazio. «Declina il mondo e peggiorando invecchia», esclama nel Demetrio il mio Fenicio. E due mila e novecento anni almeno prima di noi sotto le mura di Troia il Nestore omerico teneva lo stesso linguaggio. Ma ohimè! senza avvedermene la mia lettera ha degenerato in una cicalata da Dottore di comedia. Non vi spaventate però: voi sapete che in ciò non sono solitus delinquere, onde non v'è da temere ch'io ricada facilmente in somiglianti irregolarità. Addio. Vi abbraccio con l'appendice.

 

 




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