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Pietro Metastasio
Lettere

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XXXIII

 

A GIUSEPPE BETTINELLI - VENEZIA

 

Vienna 10 giugno 1747.

 

Quali grazie non debbo io rendervi, gentilissimo mio signor Bettinelli, per la obbligante cura che avete voluto prendervi di farmi capitare l'erudite considerazioni fatte sul mio Demofoonte? S'io avessi ozio per rispondere, la maggior parte della mia risposta non consisterebbe che in sentimenti di gratitudine per chi le ha scritte; tanto sente egli più vantaggiosamente delle mie fatiche, di quello ch'io medesimo ne senta. Le ho lette correndo ne' pochi momenti che ho avuti di tempo fra il riceverle ed il rispondervi, ma le leggerò molte altre volte per approfittarmi non meno degl'insegnamenti che dell'artifizio dello scrittore. Oh quanto faciliterebbe il mio profitto la pubblicazione della tragedia ch'egli promette! Allora, considerando le perfezioni di quella, conoscerei quel moltissimo di reprensibile ch'egli trascura di notare nel mio Demofoonte, bastandogli d'avvertire i lettori che vi sia, anzi contentandosi di concedere con esemplare carità che io medesimo abbia lasciato correre a bello studio quelle infinite irregolarità, perché non si ponga in dubbio che vi sono. Le parti del libriccino, di cui mi fate dono, le quali discendono a' particolari, sono la riflessione su la disuguaglianza de' caratteri di Timante e Creusa ed il paragone ch'egli propone fra il signor Apostolo Zeno e me: in quanto alla prima fors'egli ha ragione, ma io credeva che non fosse variazione di carattere il dipingere un personaggio medesimo in diverse situazioni. Il mio Timante è un giovane valoroso, soggetto agl'impeti delle passioni, ma provveduto dalla natura di ottimo raziocinio e fornito dalla educazione delle massime le più lodevoli in un suo pari. Quando è assalito da alcuna passione è impetuoso, violento, inconsiderato; quando ha tempo di riflettere, o che alcun oggetto presente gli ricordi i suoi doveri, è giusto, moderato e ragionevole. E in tutto il corso del dramma si vede sempre in esso questo contrasto o vicenda delle operazion della mente e di quelle del cuore, degl'impeti e della ragione. Così fa Torquato Tasso del suo Rinaldo: quando la passione lo trasporta, dice di Goffredo:

 

venga egli, o mandi, io terrò fermo il piede:

giudici fian fra noi la sorte e l'armi;

fera tragedia ei vuol che s'appresenti

per lor diporto alle nemiche genti.

 

Quando poi a sangue freddo ha tempo di riflettere e di ragionare dice al medesimo Goffredo:

 

e s'io n'offesi te, ben disconforto

ne sentii poscia, e penitenza al core.

Or vengo a' tuoi richiami, ed ogni emenda

son pronto a far che grato a te mi renda.

 

L'istessa regola con diversa proporzione ho tenuta nel carattere di Creusa. Ella è una principessa eccessivamente dominata dal fasto del suo grado e della sua bellezza: offesa inaspettatamente da Timante, e nell'uno e nell'altro senza aver un momento da ragionare, prorompe inconsideratamente nella richiesta d'una vendetta che, sedato l'impeto primo, non solamente trascura, ma conosce non esserle dovuta; anzi a forza di raziocinio si riduce com'era giusto, a compatire l'istesso che perseguitava. E questa mi pareva non disuguaglianza di carattere, ma diversità di situazione, senza la quale ogni carattere sarebbe insipido ed inverisimile. Qual uomo è sempre ragionevole e considerato? Qual uomo è sempre trasportato e violento? Il primo sarebbe un nume, il secondo una fiera. Dal contrasto di questi due universali principii delle operazioni umane, passione e raziocinio, nasce la diversità de' caratteri degli uomini, secondo che in ciascheduno più o meno l'una o l'altro o entrambi prevalgono; e questo concorso di principii diversi nel soggetto medesimo accorda il valore d'Enea con le frequenti sue lagrime, i deliri di Didone col senno che si suppone nella fondatrice d'un impero, e giustifica Orlando:

 

che per amor venne in furore e matto

d'uom che sì saggio era stimato pria.

 

Ma volete ch'io vi dica un mio pensiero? Io credo che il dottissimo scrittore delle considerazioni suddette senta diversamente da quello che scrive. Io lo stimo piuttosto un umore allegro che, desideroso di divertirsi, si studia d'appiccare una zuffa poetica fra il signor Zeno e me, per farsi poi spettatore della commedia. Il paragone, ch'è la seconda parte ma la principale della sua lettera, pare visibilmente che non tenda ad altro; ma in questa parte non mi sento punto inclinato a compiacerlo. Io professo al degnissimo signor Zeno infinita stima e rispetto, e so ch'egli mi contraccambia con uguale amicizia; onde dite pure a chi ve ne richiedesse che io non dico meno del signor Apostolo di quello che l'autore medesimo delle considerazioni ne possa avere scritto, e che, superbo di essere stato degno di tal paragone, mi unisco di buona voglia con chi pronuncia a favor di lui.

Io non ho mai scritto satire in tutta la mia vita, e non ne scriverò mai. Odio questo genere di scrivere, e non son provveduto d'atrabile e di mal costume abbastanza per potervi sacrificare i miei sudori; onde dite pure che se ne mente chi volesse applicarmene alcuna. Oltre di che il mio stile ha il suo carattere, e gl'intelligenti potrebbono difficilmente ingannarvisi. Se vi piace di dire i miei sentimenti su le considerazioni che m'inviaste, potete farlo liberamente, ma sarebbe finita la nostra amicizia se questa lettera, o per via di copia o in altra maniera, si pubblicasse: io non so quello che ho scritto in tanta angustia di tempo, ed ho solidissime ragioni per non volerlo. Amatemi e credetemi.

 

P. S. L'Opera, che ho terminata per agosto, non si rappresenterà in tal tempo. Vi servirò come volete, quando sarà stampata. Desidererei d'aver indietro o l'originale ovvero una copia di questa lettera, che non ho tempo di mettere in miglior ordine.

 

 




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