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Pietro Metastasio
Lettere

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A CARLO BROSCHI DETTO FARINELLO - BOLOGNA

 

Vienna 18 luglio 1765.

 

Sono sommamente tenuto al nostro caro signor Becchetti per l'esatta puntualità con la quale vi ha consegnati gli abbracci, i baci e le tenerezze delle quali io lo caricai per voi nella sua partenza da questa Corte. Ditegli, vi prego, a qual segno gliene sono grato: e offeritegli a nome mio il dovuto contraccambio della cortese sua compiacenza.

Voi sapete, caro gemello, ch'io son della specie delle anitre, che stanno sempre nell'acqua e non sono mai bagnate. Con quasi trentasei anni di soggiorno in una Corte, non ho potuto contrarre né l'aria misteriosa, né l'eroico ventoso esteriore che ordinariamente vi regna, né quella dotta dissimulazione che almeno confina con la falsità; onde soffrite che da sincero e franco amico io vi apra istoricamente tutto il mio cuore.

Fin dal tempo in cui era immerso nelle feste nuziali del nostro re de' Romani, cominciò qui a spargersi voce che voi in occasione del matrimonio del principe delle Asturie dovevate portarvi a Madrid. Crebbe a poco a poco la voce in modo tale che il popolo, la nobiltà e la Corte medesima l'ha creduta veridica. Io solo, ricevendo vostre lettere senza il minimo tocco di tal viaggio, non volli prestarle credenza, ed ai moltissimi che, come vostro conosciuto gemello, me ne interrogavano, costantemente io rispondeva il vero, cioè che voi non me ne avevate dato alcun cenno; e che perciò io non prestava fede e codesto vano romore. Terminate finalmente le nostre tempeste festive, quando io, stanco, sfiatato e rifinito, rendeva grazie al padre Apollo che fosse pur giunto per me una volta il tempo di respirare, ecco l'ambasciator di Spagna che m'intima all'orecchio il desiderio della sua Corte di avere una mia serenata per le nozze del principe delle Asturie. Figuratevi la mia situazione. Dissi che, benché io fossi già pronto per l'opera d'Inspruck, non era sicuro di qualche nuovo comando dell'augustissima padrona. Rispose l'ambasciatore ch'egli ne avrebbe parlato alla mia sovrana; ond'io, sicuro che un preciso comando mi avrebbe defraudato anche il merito della volontaria condescendenza, piegai la testa ai decreti del fato, con pochissima fiducia di poter nella mia stanchezza corrispondere degnamente all'onore che mi veniva inaspettatamente offerto. E qui vi confesso che, ripensando alle voci sparse del vostro viaggio, non credei fermamente ma violentemente sospettai che foste voi l'innocente cagione del mio crudele imbarazzo. Intanto, affinché tutto andasse a seconda, la mia scusa prodotta inutilmente all'ambasciatore cattolico diventò profezia. La mia augustissima padrona mi commise inaspettatamente un altro picciolo dramma da rappresentarsi dalle serenissime arciduchesse al ritorno della Corte da Inspruck. Che fare in tali angustie? Dopo avere esaminata la materia, trovai che non mi rimaneva alcun onesto partito da prendere se non se quello di raccomandarmi alle Muse, chiuder gli occhi, e mandar giù l'una e l'altra pozione. Adempii, come era mio debito, in primo luogo il comando, e poi soddisfeci al contratto impegno, consegnando all'ambasciator di Spagna la Festa meridionale quattro settimane prima della mia promessa.

Mentre io stava arzigogolando fra me s'io dovessi o no cantarvi le calende sul giuoco ch'io sospettava che voi mi aveste fatto, ecco una lettera di Madrid del nostro Hübner, che mi assicura che voi siete colà aspettato e ch'egli è impaziente di rivedere il suo riverito benefattore. Allora i miei sospetti diventarono verità evidenti, ed il mio gemello fu l'oggetto di alquanti cancherini che io gli scaricai addosso in vendetta dell'ingiurioso creduto mistero e delle angustie nelle quali io supposi indubitatamente d'essere stato ridotto dalla sua parzialità. Non finisce qui la dolorosa istoria. L'ambasciatore di Spagna, pochi giorni fa, nella vigilia della sua partenza per Inspruck venne a favorirmi in persona ed a leggermi un lungo e cortese rendimento di grazie del signor marchese Squillace, del quale sino a quel momento non mi avea mai parlato; ed avanti ieri ricevo la vostra del 5 del corrente, nella quale mi ragionate di questo affare come un uomo sbarcato appena in Europa di ritorno dal Mogol o dal Giappone. In un così strano contrasto di misteri, di notizie e di conghietture io non so determinare la mia credenza, e non sono né pure impaziente di farlo, bastando alla mia candida amicizia la soddisfazione di non avervi lasciato ignorare il minimo dei pensieri, delle parole e delle opere mie intorno a questa per altro poco rilevante faccenda.

Con l'infinita stima ch'io da lungo tempo internamente serbo e pubblicamente professo per cotesto, così caro alle Muse, signor conte Savioli, pretendo di onorar molto più me stesso che lui. Attestategli, vi prego, la mia viva riconoscenza per il gratuito contraccambio di parzialità che a lui piace di rendermene, e guardatevi bene di non confidargli tutta la mia insufficienza, per non iscemar troppo di pregio l'offerta, che per mezzo vostro gli faccio, e della sincera amicizia e della divota servitù mia.

S'io potessi allungare a mia voglia questa ormai non più lettera ma cicalata, giungerei forse a disseccar perfettamente tutt'i vostri umori peccanti; ma incominciano i miei viaggi a Schönbrunn dove dovrò correre ogni giorno, anche a dispetto della canicola, sino al ritorno della Corte per assister ivi alle pruove delle nostre auguste rappresentanti, che per mia buona sorte credono aver bisogno della mia direzione. Onde vedete ch'io non corro rischio d'esser contaminato dal padre di tutt'i vizi. Addio: non vi stancate di riamarmi, e credetemi sempre con la più invincibile ostinazione.

 

 




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