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Pietro Metastasio
Lettere

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CXXIII

 

A SAVERIO MATTEI - NAPOLI

 

Vienna 5 aprile 1776.

 

Bastano poche faccende, riveritissimo mio signor don Saverio, per occupar tutta l'attività d'uno stanco, logoro ed annoso individuo come son io. Ne ho avuta una dose ben superiore alle mie forze nelle scorse settimane: onde prego V. S. illustrissima non già a perdonare, ma bensì a compatire la non volontaria tardanza della mia risposta all'ultimo non men dotto che obbligante suo foglio. Io non le ho sin da bel principio dissimulata la mia fisica inabilità ad un laborioso commercio; onde a dispetto del mio difetto ella è ora in obbligo di tenermi per suo.

 

Prudens emisti vitiosum, dicta tibi est lex.

 

La nostra giovane indefessa compositrice è ben sorpresa dell'eccessiva fortuna della sua musica appresso V. S. illustrissima. Era molto meno elevato il segno da lei prescritto alla propria ambizione, ed è persuasa d'esser debitrice a così cortese fautore della maggior parte di quelle vigorose espressioni dalle quali si trova esaltata. Per sentire l'effetto del suo lavoro ella ha fatta una privatissima prova del noto Salmo nelle sue camere. Non vi erano che gl'istrumenti puramente necessari, le quattro voci inevitabili, e queste un poco men che mediocri, né si erano raddoppiate le parti de' cantanti per i ripieni, onde mancava a questa specie di pittura tutto l'incanto del chiaroscuro; nulladimeno son costretto a confessare che la varia, dilettevole e non comune armonia del componimento superò di molto e la mia e l'espettazione de' pochi iniziati che furono ammessi al mistero. Ebbi cura di far provveder ciascuno de' presenti d'una copia della poesia, ed esultai ne' comuni applausi che ne riscosse l'cccellente traduttore. Spero che V. S. illustrissima non avrà costì trascurata questa necessaria diligenza.

Entro a parte del meritato onore che ridonda all'erudito suo libro dalla necessità di replicarne così sollecitamente una nuova edizione in ottavo; ma non vorrei che la prima in quarto rimanesse però scema del suo compimento. I tre volumi de' quali la sua gentilezza mi fu cortese, appuntati sol quanto basta per servire intanto al comodo de' lettori, attendono con impazienza i loro compagni per essere tutti insieme uniformemente adornati della veste signorile che ad essi è dovuta. Mi hanno così dolcemente fin'ora e così utilmente occupato, ch'io non saprei defraudarli di questo picciolo segno della mia gratitudine.

Ch'io le dica il mio sentimento sul merito dell'antica e della moderna musica? Ah barbaro signor don Saverio! Questo è cacciarmi crudelmente in un laberinto da cui ella sa benissimo ch'io non potrei distrigarmi ancorché fossi fornito di tutti gl'istrumenti che bisognano a tanta operazione, o che mi trovassi ancora nel più florido vigore degli anni per provvedermene. Quale ragionevol comparazione potrà mai farsi fra oggetti che non si conoscono? Io sono convinto della reale, fastosa magnificenza della musica ebrea; io non mi credo permesso di dubitare dell'efficacia della greca; ma non saprei formarmi perciò una giusta idea de' loro diversi sistemi. So benissimo anch'io che la musica in tutta la natura è una sola cioè «un'armonia dilettevole prodotta dalle proporzioni de' suoni più gravi o più acuti, e de' tempi più veloci o più lenti»; ma chi mi darà il filo d'Arianna per non perdermi fra coteste proporzioni? Esse dipendono principalmente dalla giusta divisione della serie successiva de' tuoni, e cotesta divisione appunto è stata sempre, cred'io, ed è manifestamente imperfetta. Come supporre diversamente, quando io sento disputare i gran maestri se l'intervallo da un tuono all'altro debba constare di cinque, di sette o di nove crome? Quando osservo che l'uno chiama dissonanza la quarta e l'altro consonanza perfetta? Se veggo che, accordandosi un gravicembalo esattamente a tenore delle divisioni del nostro sistema, riesce sensibilmente scordato? e se per rimediare a questo inconveniente debbono gli accordatori incominciar dal formare ad orecchio, nel mezzo della tastatura, una quinta eccedente, ch'essi chiamano allegra, cioè scordata, affinché, regolando poi da quella tutta l'accordatura, si spartisca il difetto e divenga insensibile? Chi mi dirà se gli antichi sieno stati più felici di noi nell'esattezza di questa divisione non men soggetta ad errori che quella del calendario? O chi mi dirà di qual mezzo si siano essi valuti per dissimularne, come noi facciamo gl'inconvenienti? Dopo avere letto in Plutarco tutta la noiosa enumerazione degl'inventori d'ogni novità musicale; dopo aver imparato da lui e da' greci maestri, illustrati dall'erudito Meibomio, «l'ipate, il nete, il diapason, la diatesseron, la diapente, i tetracordi, i generi diatonico, cromatico ed enarmonico, i modi dorico, frigio e lidio», e tutto l'antico vocabolario musicale, sarò io più illuminato? saprò io formare allora una chiara definizione di tutte codeste voci da spaventare i fanciulli, ed in tali tenebre, come intanto far paragoni? Può ben essere, anzi è facilissimo, che ciò che pare a me notte profonda, sia giorno chiaro per altri più perspicaci, e meno di me stranieri in questa vastissima e disastrosa provincia; ma non creda che avran essi perciò le cognizioni necessarie a voler fare un fondato paragone fra le antiche e la moderna musica. La musica è oggetto d'un senso, ed i sensi o per le proprie fisiche alterazioni, o per quelle che in esse gli abiti diversi cagionano, van cambiando di gusto di stagione in stagione, non che di secolo in secolo. Un banchetto apprestato a tenore delle ricette d'Apicio farebbe oggi stomaco ai men delicati. Il tanto decantato Bacchi cura Falernus ager, al giudizio de' moderni palati produce ora un vino da galeotti: l'amaro e reo caffè, peggiore, secondo il Redi, dello stesso veleno, è divenuto la più deliziosa bevanda di quasi tutti i viventi; e chi sa se alla fin fine non la divenne anche a lui? Le ariette che incantavano un gli avi nostri, sono oggi stucchevoli e insopportabili nenie per noi. Or qual sarà dunque la perfezion della musica, essendo essa soggetta alle decisioni del gusto, così da se medesimo ogni momento diverso? E donde mai prenderò io una norma sicura per avvedermi quando rettamente giudica o quando il gusto delira? «Ma» dirà ella «codesto vostro scetticismo non risponde punto alla mia dimanda. So dubitare ancor io, né sono molto curioso di sapere come voi dubitiate. Il mio desiderio è d'intendere qual sia l'idea che avete voi concepita dell'antica e moderna musica; parendomi assolutamente impossibile che, a dispetto di tante dubbiezze, non ne abbiate pur formata qualcuna». È verissimo, mio caro signor don Saverio: alla nostra sempre operante, temeraria fantasia bastano frivolissimi fondamenti per fabbricarvi immediatamente sopra immagini a suo capriccio. Sol ch'io senta nominare il Cairo o Pechino, essa mi presenta subito innanzi quelle vaste città ch'io non ho mai vedute. Or se V. S. illustrissima è contenta ch'io le comunichi idee di simil fatta, eccomi pronto ad appagarla.

A me pare, riveritissimo amico, che la musica degli antichi fosse molto più semplice, ma molto più efficace della moderna; e che la moderna all'incontro sia di quella più artificiosa e più mirabile. Quando io sento che Platone vuol che nella sua repubblica sia la musica il primo universale studio d'ognuno, come necessario fondamento d'ogni scienza e d'ogni virtù; quando leggo che in Grecia non solo tutti i poeti, ma i filosofi tutti, i condottieri degli eserciti ed i regolatori stessi delle repubbliche eran musici eccellenti, concludo che la musica allora dovesse esigere molto minore studio della nostra, nella quale per divenir mediocre artista convien che altri impieghi la metà della vita, e che fosse per conseguenza più semplice. A provare che la nostra sia più artificiosa di quella parmi che (oltre le infinite altre ragioni) basti il solo contrappunto moderno, in virtù del quale sino a ben ventiquattro cantilene, tutte fra loro diverse, posson cantarsi contemporaneamente insieme, e producono una concorde, incognita agli antichi, soavissima armonia. Che agli antichi fosse incognito, le sarà ad evidenza dimostrata dal dottissimo (specialmente nella scienza armonica) padre maestro Martini. Ei le dirà le scientifiche ed istoriche ragioni per le quali non l'aveano essi e non potevano averla; e le spiegherà che quella concordia di voci diverse, rammentata in pochi passi d'autori antichi che servono di debole appoggio ai sostenitori della contraria opinione, dovea ridursi al cantare nel tempo stesso altri alla quarta, altri alla quinta altri all'ottava, ma l'istessa istessissima cantilena. Ed in fatti se una tal portentosa invenzione fosse stata cognita ai Greci, chi potrà persuadersi ch'essi ne avessero fatto così poco romore? Aggiunga che tutte le imperfette maniere antiche di scrivere la musica (delle quali è giunta a noi la notizia) rendevano impossibile la compostissima operazione del nostro contrappunto. Quel poter esprimere, come noi facciamo, in una sola linea composta di cinque righe tutte le alterazioni de' suoni e de' tempi; quel poter sottoporre l'una all'altra diverse cantilene, e scoprirne così in un'occhiata tutte le vicendevoli relazioni, era, a parer mio, indispensabilmente necessario perché potesse nascere il contrappunto. Or questa maniera di scriver la musica ella sa che non vanta antichità maggiore dell'undecimo secolo.

L'essere stata poi più efficace l'antica della moderna musica, pare a me che debba esser nato dalla direttamente opposta istituzione de' moderni e degli antichi cantori. Il teatro è il trono della musica. Ivi spiega essa tutta la pompa delle incantatrici sue facoltà, ed indi il gusto regnante si propaga nel popolo. I teatri degli antichi eran vastissime piazze: i nostri, limitatissime sale; onde per farsi udire in quelli dagl'innumerabili spettatori che li occupavano, bisognava quella vox tragoedorum che Tullio desiderava nel suo oratore e per conseguirla conveniva che le persone, destinate a far uso della lor voce in così ampii teatri, incominciassero dalla più tenera età a renderla grande, ferma, chiara e vigorosa, con esercizio ben dal presente diverso. I nostri cantori all'incontro, ai quali l'essere uditi costa ora sforzo tanto minore, hanno abbandonata quella laboriosa specie di scuola, ed in vece di affaticarsi a render ferme, robuste e sonore le voci loro, studiano a farle divenir leggiere e pieghevoli. Con questo nuovo metodo sono pervenuti a quella portentosa velocità di gorga che sorprende ed esige gli strepitosi applausi degli spettatori; ma una voce sminuzzata, e per conseguenza indebolita negli arpeggi, ne' trilli e nelle volate, può ben cagionare il piacere che nasce dalla maraviglia, e dee essere preceduto da un sillogismo, ma non mai quello che viene immediatamente prodotto dalla fisica vigorosa impressione d'una chiara, ferma e robusta voce, che scuote, con forza eguale al diletto, gli organi del nostro udito, e ne spinge gli effetti sino ai penetrali dell'anima. Ho ben io potuto, e potrà ognun che voglia argomentare da un picciolo saggio, quanto enorme sia codesta differenza. I cantori della cappella pontificia, benché da fanciulli instituiti anch'essi nella scuola moderna, quando sono ammessi in quel coro, conviene sotto rigorosissime pene che abbandonino affatto tutti gli applauditi ornamenti del canto comune, e che si accostumino (per quanto così tardi è possibile) a fermare ed a sostenere unicamente la voce. Ora lo stesso famoso Miserere del celebre Palestrina che mi ha rapito in estasi di piacere e mi ha internamente commosso cantato da questi in Roma, è giunto ad annoiarmi cantato da' musici secondo il corrente stile eccellentissimo eseguito in Vienna.

Ho sperato altre volte che il nostro canto ecclesiastico potesse darci qualche idea dell'antico, considerando che, quando nel fine del sesto o nel principio del settimo secolo regolò san Gregorio la musica della nostra liturgia, erano aperti ancora i pubblici teatri, e parendomi naturale che qualunque musica in quel tempo composta dovesse risentirsi dello stile che in essi allora regnava; ma oltreché lo stile di quei teatri dovea già, come tutto il rimanente, esser in que' tempi imbarbarito, quali esecutori potrebbero rendercelo ora presente, se tanto è impossibile a' nostri il sostenere una massima, quanto era in quelli l'affollar trentadue biscrome in una battuta? Oh Dio buono! che lunga e noiosa filastrocca mi ha ella indotto a scrivere? Posso ben dirle con la colomba del suo Anacreonte:

 

Lalistéran m'éthekas,

Anthrope, kai korònes.

 

In premio della mia cieca ubbidienza esigo dalla sua amicizia che la presente lettera non passi dalle sue in altre mani. Sarei inconsolabile se alcuno la rendesse pubblica per soverchio desiderio di onorarmi. Ella sa i miei difetti: li compatisca; mi riami a loro dispetto, e costantemente mi creda.

 

 




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