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Pietro Metastasio
Olimpiade

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Scena quarta - Coro, Argene

 

Vasta campagna alle falde d'un monte, sparsa di capanne pastorali. Ponte rustico sul fiume Alfeo, composto di tronchi d'alberi rozzamente commessi. Veduta della città d'Olimpia in lontano, interrotta da poche piante, che adornano la pianura, ma non l'ingombrano.

 

CORO Oh care selve, oh cara

felice libertà!

ARG. Qui se un piacer si gode,

parte non v'ha la frode

ma lo condisce a gara

amore e fedeltà.

CORO Oh care selve, oh cara

felice libertà!

ARG. Qui poco ognun possiede,

e ricco ognun si crede:

né, più bramando, impara

che cosa è povertà.

CORO Oh care selve, oh cara

felice libertà!

ARG. Senza custodi o mura

la pace è qui sicura,

che l'altrui voglia avara

onde allettar non ha.

CORO Oh care selve, oh cara

felice libertà!

ARG. Qui gl'innocenti amori

di ninfe... Ecco Aristea.

ARI. Siegui, o Licori.

ARG. Già il rozzo mio soggiorno

torni a render felice, o principessa?

ARI. Ah fuggir da me stessa

potessi ancor, come dagli altri! Amica

tu non sai qual funesto

giorno per me sia questo.

ARG. È questo un giorno

glorioso per te. Di tua bellezza

qual può l'età futura

prova aver più sicura? A conquistarti

nell'olimpico agone

tutto il fior della Grecia oggi s'espone.

ARI. Ma chi bramo non v'è. Deh si proponga

men funesta materia

al nostro ragionar. Siedi, Licori:

gl'interrotti lavori

riprendi, e parla. Incominciasti un giorno

a narrarmi i tuoi casi. Il tempo è questo

di proseguirli. Il mio dolor seduci;

raddolcisci, se puoi,

i miei tormenti in rammentando i tuoi.

ARG. Se avran tanta virtù, senza mercede

non va la mia costanza. A te già dissi

che Argene è il nome mio; che in Creta io nacqui

d'illustre sangue, e che gli affetti miei

fur più nobili ancor de' miei natali.

ARI. So fin qui.

ARG. De' miei mali

ecco il principio. Del cretense soglio

Licida il regio erede

fu la mia fiamma, ed io la sua. Celammo

prudenti un tempo il nostro amor; ma poi

l'amor s'accrebbe, e, come in tutti avviene,

la prudenza scemò. Comprese alcuno

il favellar de' nostri sguardi: ad altri

i sensi ne spiegò. Di voce in voce

tanto in breve si stese

il maligno romor, che 'l re l'intese:

se ne sdegnò, sgridonne il figlio; a lui

vietò di più vedermi, e col divieto

glien'accrebbe il desio; che aggiunge il vento

fiamme alle fiamme, e più superbo un fiume

fanno gli argini opposti. Ebro d'amore

freme Licida, e pensa

di rapirmi e fuggir. Tutto il disegno

spiega in un foglio: a me l'invia. Tradisce

la fede il messo, e al re lo reca. È chiuso

in custodito albergo

il mio povero amante. A me s'impone

che a straniero consorte

porga la destra. Io lo ricuso. Ognuno

contro me si dichiara. Il re minaccia:

mi condannan gli amici: il padre mio

vuol che al nodo acconsenta. Altro riparo

che la fuga o la morte

al mio caso non trovo. Il men funesto

credo il più saggio, e l'eseguisco. Ignota

in Elide pervenni. In queste selve

mi proposi abitar. Qui fra pastori

pastorella mi finsi, e or son Licori:

ma serbo al caro bene

fido in sen di Licori il cor d'Argene.

ARI. In ver mi fai pietà. Ma la tua fuga

non approvo però. Donzella e sola

cercar contrade ignote,

abbandonar...

ARG. Dunque dovea la mano

a Megacle donar?

ARI. Megacle? (Oh nome!)

Di qual Megacle parli?

ARG. Era lo sposo

questi, che il re mi destinò. Dovea

dunque obbliar...

ARI. Ne sai la patria?

ARG. Atene.

ARI. Come in Creta pervenne?

ARG. Amor vel trasse,

com'ei stesso dicea, ramingo, afflitto.

Nel giungervi fu colto

da stuol di masnadieri; e oppresso ormai

la vita vi perdea. Licida a sorte

vi si avvenne, e il salvò. Quindi fra loro

fidi amici fur sempre. Amico al figlio,

fu noto al padre; e dal reale impero

destinato mi fu, perché straniero.

ARI. Ma ti ricordi ancora

le sue sembianze?

ARG. Io l'ho presente. Avea

bionde le chiome, oscuro il ciglio, i labbri

vermigli sì, ma tumidetti, e forse

oltre il dover; gli sguardi

lenti e pietosi: un arrossir frequente,

un soave parlar... Ma... principessa,

tu cambi di color! Che avvenne?

ARI. Oh Dio!

Quel Megacle, che pingi, è l'idol mio.

ARG. Che dici!

ARI. Il vero. A lui,

lunga stagion già mio segreto amante,

perché nato in Atene,

negommi il padre mio, né volle mai

conoscerlo, vederlo,

ascoltarlo una volta. Ei disperato

da me partì; più nol rividi: e in questo

punto da te so de' suoi casi il resto.

ARG. In ver sembrano i nostri

favolosi accidenti.

ARI. Ah s'ei sapesse

ch'oggi per me qui si combatte!

ARG. In Creta

a lui voli un tuo servo; e tu procura

la pugna differir.

ARI. Come?

ARG. Clistene

è pur tuo padre: ei qui presiede eletto

arbitro delle cose; ei può, se vuole...

ARI. Ma non vorrà.

ARG. Che nuoce,

principessa, il tentarlo?

ARI. E ben, Clistene

vadasi a ritrovar.

ARG. Fermati: ei viene.

 




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