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Pietro Metastasio
Olimpiade

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Scena dodicesima - Licida, Argene

 

LIC. A me «barbaro»! Oh numi!

«Perfido» a me! Voglio seguirla; e voglio

sapere almen che strano enigma è questo.

ARG. Fermati, traditor.

LIC. Sogno o son desto!

ARG. Non sogni no: son io

l'abbandonata Argene. Anima ingrata,

riconosci quel volto,

che fu gran tempo il tuo piacer; se pure

in sortefunesta

delle antiche sembianze orma vi resta.

LIC. (Donde viene; in qual punto

mi sorprende costei! Se più mi fermo,

Aristea non raggiungo). Io non intendo

bella ninfa, i tuoi detti. Un'altra volta

potrai meglio spiegarti.

ARG. Indegno, ascolta.

LIC. (Misero me!)

ARG. Tu non m'intendi? Intendo

ben io la tua perfidia. I nuovi amori,

le frodi tue tutte riseppi; e tutto

saprà da me Clistene

per tua vergogna.

LIC. Ah no! Sentimi, Argene.

Non sdegnarti: perdona,

se tardi ti ravviso. Io mi rammento

gli antichi affetti; e, se tacer saprai,

forse... chi sa.

ARG. Si può soffrir di questa

ingiuria più crudel! «Chi sa», mi dici?

In vero io son la rea. Picciole prove

di tua bontà non sono

le vie che m'offri a meritar perdono.

LIC. Ascolta. Io volli dir...

ARG. Lasciami, ingrato:

non ti voglio ascoltar.

LIC. (Son disperato).

ARG. No, la speranza

più non m'alletta:

voglio vendetta,

non chiedo amor.
 Pur che non goda

quel cor spergiuro,

nulla mi curo

del mio dolor.

 




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