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Pietro Metastasio
Il trionfo di Clelia

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SCENA OTTAVA

 

Logge reali, dalle quali si scopre tutto l’esercito toscano attendato su la pendente costa dell’occupato Gianicolo.

 

Porsenna, Mannio, indi Orazio

 

MAN.

Signor, pronto al tuo cenno

È il romano orator.

POR.

Venga; e frattanto

Altri qui non s’appressi. (parte Mannio)

Ah, se vincer potessi

Dell’ostinata Roma

La feroce virtù, senza che il sangue

Ne scemasse la gloria,

Quanto bella saria la mia vittoria!

ORA.

Ha deciso Porsenna?

Siam seco in pace, o si ritorna all’armi?

POR.

Da te dipenderà.

ORA.

Libera è Roma,

Se dal mio voto il suo destin dipende.

POR.

Siedi. (Che bell’ardir!) (siede)

ORA.

(siede)

(Che dirmi intende?)

POR.

Orazio, i nostri voti

Non si oppongon fra lor. Tu la tua Roma

Ami; io l’ammiro: è il tuo maggior desio

La sua felicità; la bramo anch’io.

Fabbrichiamola insieme. A sì bell’opra

Son dannosi compagni

La ferocia, il dispetto e l’odio antico.

Qui l’amico fra noi parli all’amico.

ORA.

Bramare altra i Romani

Felicità non sanno,

Che la lor libertà.

POR.

Che cieco inganno!

Questa, che sì t’ingombra,

Idea di libertà, credilo, amico,

Non è che una sognata ombra di bene.

Son varie le catene,

Ma servo è ognun che nasce. Uopo ha ciascuno

Dell’assistenza altrui. Ci unisce a forza

La comun debolezza, ed a vicenda

L’un serve all’altro. Io stesso, Orazio, io stesso,

Re, monarca qual sono,

Sento le mie catene anche sul trono.

Vorran da questa legge, a cui soggiace

Tutta l’umanità, forse i Romani

Sol pretendersi esenti?

ORA.

Agli affetti privati

Non mai d’un solo, alla ragion di tutti

Esser vogliam soggetti.

POR.

Son liberi d’affetti

Forse quei tutti? E di ragione è privo

Forse quel solo? Esci d’error; fra noi

Perfezion non v’è. L’essere uniti

È necessario; e il necessario nodo,

Ond’è ognuno ad ognun congiunto e stretto,

Quanto semplice è più, meno è imperfetto.

ORA.

Ma che mai da codesti

Dotti principii tuoi,

Che mai speri dedur? Forse che serva

Roma sarà felice? Esci tu stesso,

Esci d’error. Fra le vicende umane

L’esperienza è sempre

Condottrice men cieca

Che l’etrusca, la greca

O l’egizia dottrina. A noi per prova

È noto, e non a te, se de’ Tarquinii

Sia soffribile il giogo. È infranto, e mai,

Mai più nol soffrirem. D’un tal solenne

E pubblico voler vindici sono

Tutti gli dèi da noi giurati. A morte

destinato è ognuno

Che sogni servitù. Qual sangue ha tinto

Già la scure paterna

Ignorar tu non puoi. Roma non vanta

Un Bruto sol: tutti siam pronti in Roma

A rinnovar per somigliante eccesso

Su la testa più cara il colpo istesso.

POR.

Ma se voi non convince

Altra ragion che l’armi,

Ad onta del mio cor dovrò felici

Rendervi a forza.

ORA.

A forza! Ah, tu non sai,

Porsenna, ancor quanto l’impresa è dura!

Tutto fra quelle mura (s’alza)

È libero, è guerrier. quanto ha vita

Fino al respiro estremo

Quel ben difenderà che tu contrasti.

Non v’è poter che basti

Popoli a soggiogar concordi, invitti,

D’ardir, di ferro e di ragione armati.

E, se scritto è ne’ fati

Che abbia Roma a cader, cadrà; ma i soli

Trofei saranno, onde superbo ornarti

Di fronda trionfal potrai le chiome,

Le ceneri di Roma, i sassi e il nome. (in atto di partire)

POR.

Dove?

ORA.

A Roma.

POR.

Ah! t’arresta. (s’alza)

ORA.

A che? Spiegasti

Assai l’animo avverso.

POR.

Ingiusto sei.

Ne’ miei nemici ancora

Il valor m’innamora.

ORA.

E ad opprimerlo intanto...

POR.

Orazio invitto,

Basta per or. Nel violento eccesso

D’un ardor generoso,

Che ti bolle nell’alma, or ti confondi.

Calmalo, pensa meglio, e poi rispondi.

 

Sai che piegar si vede

Il docile arboscello,

Che vince allor che cede

De’ turbini al furor.

Ma quercia, che ostinata

Sfida ogni vento a guerra,

Trofeo si vede a terra

Dell’austro vincitor. (parte)

 

 

 




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