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Pietro Metastasio Attilio Regolo IntraText CT - Lettura del testo |
ATTO TERZO
REG. Ma che si fa? Non seppe
forse ancor del Senato
Amilcare il voler? Dov'è? Si trovi;
partir convien. Qui che sperar per lui,
per me non v'è più che bramar. Diventa
colpa ad entrambi or la dimora. Ah vieni,
vieni, amico, al mio seno. Era in periglio
senza te la mia gloria; i ceppi miei
per te conservo; a te si deve il frutto
della mia schiavitù.
MAN. Sì; ma tu parti;
sì; ma noi ti perdiam.
REG. Mi perdereste,
s'io non partissi.
MAN. Ah perché mai sì tardi
incomincio ad amarti! Altri fin ora,
Regolo, non avesti
pegni dell'amor mio, se non funesti.
REG. Pretenderne maggiori
da un vero amico io non potei; ma pure
se il generoso Manlio altri vuol darne,
altri ne chiederò.
MAN. Parla.
REG. Compìto
ogni dover di cittadino, al fine
mi sovvien che son padre. Io lascio in Roma
due figli, il sai; Publio ed Attilia: e questi
son del mio cor, dopo la patria, il primo,
il più tenero affetto. In lor traluce
indole non volgar; ma sono ancora
piante immature, e di cultor prudente
abbisognano entrambi. Il Ciel non volle
che l'opera io compissi. Ah tu ne prendi
per me pietosa cura;
tu di lor con usura
la perdita compensi. Al tuo bel core
debbano e a' tuoi consigli
la gloria il padre, e l'assistenza i figli.
MAN. Sì, tel prometto: i preziosi germi
custodirò geloso. Avranno un padre,
se non degno così, tenero almeno
il par di te. Della virtù romana
io lor le tracce additerò. Né molto
sudor mi costerà. Basta a quell'alme,
di bel desio già per natura accese,
l'istoria udir delle paterne imprese.
REG. Or sì più non mi resta...