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Pietro Metastasio
Catone in Utica

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ATTO PRIMO

 

 

 

SCENA PRIMA

 

Sala d’armi

 

Catone, Marzia, Arbace

 

MAR.

Perché sì mesto, o padre? Oppressa è Roma,

Se giunge a vacillar la tua costanza.

Parla: al cor d’una figlia

La sventura maggiore

Di tutte le sventure è il tuo dolore.

ARB.

Signor, che pensi? In quel silenzio appena

Riconosco Catone. Ov’è lo sdegno,

Figlio di tua virtù? dov’è il coraggio?

Dove l’anima intrepida e feroce?

Ah, se del tuo gran core

L’ardir primiero è in qualche parte estinto,

Non v’è più libertà, Cesare ha vinto.

CAT.

Figlia, amico, non sempre

La mestizia, il silenzio

È segno di viltade; e agli occhi altrui

Si confondon sovente

La prudenza e il timor. Se penso e taccio,

Taccio e penso a ragion. Tutto ha sconvolto

Di Cesare il furor. Per lui Farsaglia

È di sangue civil tepida ancora;

Per lui più non si adora

Roma, il Senato, al di cui cenno un giorno

Tremava il Parto, impallidia lo Scita;

Da barbara ferita

Per lui su gli occhi al traditor d’Egitto

Cadde Pompeo trafitto; e solo in queste

D’Utica anguste mura,

Mal sicuro riparo

Trova alla sua ruina

La fuggitiva libertà latina.

Cesare abbiamo a fronte,

Che d’assedio ne stringe: i nostri armati

Pochi sono e mal fidi. In me ripone

La speme, che le avanza,

Roma, che geme al suo tiranno in braccio;:

E chiedete ragion s’io penso e taccio?

MAR.

Ma non viene a momenti

Cesare a te?

ARB.

Di favellarti ei chiede:

Dunque pace vorrà.

CAT.

Sperate in vano

Che abbandoni una volta

Il desio di regnar. Troppo gli costa,

Per deporlo in un punto.

MAR.

Chi sa? figlio è di Roma

Cesare ancor.

CAT.

Ma un dispietato figlio,

Che serva la desia; ma un figlio ingrato,

Che, per domarla appieno,

Non sente orror nel lacerarle il seno.

ARB.

Tutta Roma non vinse

Cesare ancora. A superar gli resta

Il riparo più forte al suo furore.

CAT.

E che gli resta mai?

ARB.

Resta il tuo core.

Forse più timoroso

Verrà dinanzi al tuo severo ciglio

Che all’Asia tutta ed all’Europa armata:

E, se dal tuo consiglio

Regolati saranno, ultima speme

Non sono i miei Numidi. Hanno altre volte

Sotto duce minor saputo anch’essi

All’aquile latine in questo suolo

Mostrar la fronte e trattenere il volo.

CAT.

M’è noto; e il più nascondi

Tacendo il tuo valor, l’anima grande,

A cui, fuor che la sorte

D’esser figlia di Roma, altro non manca.

ARB.

Deh, tu, signor, correggi

Questa colpa non mia. La tua virtude

Nel sen di Marzia io da gran tempo adoro.

Nuovo legame aggiungi

Alla nostra amistà; soffri ch’io porga

Di sposo a lei la mano:

Non mi sdegni la figlia, e son romano.

MAR.

Come! Allor che paventa

La nostra libertà l’ultimo fato,

Che a’ nostri danni armato

Arde il mondo di bellici furori,

Parla Arbace di nozze e chiede amori?

CAT.

Deggion le nozze, o figlia,

Più al pubblico riposo

Che alla scelta servir del genio altrui.

Con tal cambio d’affetti

Si meschiano le cure. Ognun difende

Parte di sé nell’altro; onde, muniti

Di nodo sì tenace,

Crescon gl’imperi e stanno i regni in pace.

ARB.

Felice me, se approva

Al par di te con men turbate ciglia

Marzia gli affetti miei!

CAT.

Marzia è mia figlia.

MAR.

Perché tua figlia io sono e son romana,

Custodisco gelosa

Le ragioni, il decoro

Della patria e del sangue. E tu vorrai

Che la tua prole istessa, una che nacque

Cittadina di Roma e fu nudrita

All’aura trionfal del Campidoglio,

Scenda al nodo d’un re?

ARB.

(Che bell’orgoglio!)

CAT

Come cangia la sorte,

Si cangiano i costumi. In ogni tempo

Tanto fasto non giova: e a te non lice

Esaminar la volontà del padre.

Principe, non temer: fra poco avrai

Marzia tua sposa. In queste braccia intanto (Catone abbraccia Arbace)

Del mio paterno amore

Prendi il pegno primiero, e ti rammenta

Ch’oggi Roma è tua patria. Il tuo dovere,

Or che romano sei

È di salvarla o di cader con lei.

 

Con sì bel nome in fronte,

Combatterai più forte;

Rispetterà la sorte

Di Roma un figlio in te.

Libero vivi; e, quando

Tel nieghi il fato ancora,

Almen come si mora

Apprenderai da me. (parte)

 

 

 




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