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Pietro Metastasio
Catone in Utica

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SCENA QUARTA

 

Marzia, poi Emilia, indi Cesare

 

MAR.

E qual sorte è la mia! Di pena in pena,

Di timore in timor passo, e non provo

Un momento di pace.

EMI.

Al fin partito

È Cesare da noi. So già che in vano

In difesa di lui

Marzia e Fulvio sudò; ma giovò poco

E di Fulvio e di Marzia

A Cesare il favor. Come sofferse

Quell’eroe sì gran torto?

Che disse? Che farà? Tu lo saprai,

Tu che sei tanto alla sua gloria amica.

MAR.

Ecco Cesare istesso: egli tel dica. (vedendo venir Cesare)

EMI.

Che veggo!

CES.

A tanto eccesso

Giunse Catone! E qual dover, qual legge

Può render mai la sua ferocia doma?

È il Senato un vil gregge!

È Cesare un tiranno! Ei solo è Roma!

EMI.

E disse il vero.

CES.

Ah! questo è troppo. Ei vuole

Che sian l’armi e la sorte

Giudici fra di noi? Saranno. Ei brama

Che al mio campo mi renda?

Io vo. Di’ che m’aspetti e si difenda. (in atto di partire)

MAR.

Deh! ti placa. Il tuo sdegno in parte è giusto,

Il veggo anch’io; ma il padre

A ragion dubitò. De’ suoi sospetti

Mi è nota la cagion: tutto saprai.

EMI.

(Numi, che ascolto!)

 

 

 




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