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Pietro Metastasio
Catone in Utica

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SCENA QUINTA

 

Fulvio e detti.

 

FUL.

Ormai

Consolati, signor; la tua fortuna

Degna è d’invidia. Ad ascoltarti al fine

Scende Catone. Io di favor sì grande

La novella ti reco.

EMI.

(Ancor costui

Mi lusinga e m’inganna).

CES.

E così presto

Si cangiò di pensiero?

FUL.

Anzi il suo pregio

È l’animo ostinato.

Ma il popolo adunato,

I compagni, gli amici, Utica intera,

Desiosa di pace, a forza ha svelto

Il consenso da lui. Da’ prieghi astretto,

Non persuaso, ei con sdegnosi accenti

Aspramente assentì, quasi da lui

Tu dipendessi e la comun speranza.

CES.

Che fiero cor! Che indomita costanza!

EMI.

(E tanto ho da soffrir?)

MAR.

(a Cesare)

Signor, tu pensi?

Una privata offesa, ah non seduca

Il tuo gran cor. Vanne a Catone, e insieme,

Fatti amici, serbate

Tanto sangue latino. Al mondo intero

Del turbato riposo

Sei debitor. Tu non rispondi? Almeno

Guardami; io son che priego.

CES.

Ah! Marzia...

MAR.

Io dunque

A moverti a pietà non son bastante?

EMI.

(Più dubitar non posso: è Marzia amante).

FUL.

Eh, che non è più tempo

Che si parli di pace. A vendicarci

Andiam coll’armi: il rimaner che giova?

CES.

No: facciam del suo cor l’ultima prova.

FUL.

Come!

MAR.

(Respiro).

EMI.

Or vanta,

Vile che sei, quel tuo gran cor. Ritorna

Supplice a chi t’offende, e fingi a noi

Che è rispetto il timor.

CES.

Chi può gli oltraggi

Vendicar con un cenno, e si raffrena,

Vile non è, Marzia, di nuovo al padre

Vuo’ chieder pace, e soffrirò fin tanto

Ch’io perda di placarlo ogni speranza.

Ma, se tanto s’avanza

L’orgoglio in lui che non si pieghi, allora

Non so dirti a qual segno

Giunger potrebbe un trattenuto sdegno.

 

Soffre talor del vento

I primi insulti il mare,

Né a cento legni e cento,

Che van per l’onde chiare,

Intorbida il sentier.

Ma poi, se il vento abbonda,

Il mar s’innalza e freme;

E, colle navi, affonda

Tutta la ricca speme

Dell’avido nocchier. (parte)

 

 

 




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