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Pietro Metastasio
Catone in Utica

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SCENA DECIMA

 

Cesare e detto.

 

CAT.

Cesare, a me son troppo

Preziosi i momenti, e qui non voglio

Perderli in ascoltarti:

O stringi tutto in poche note, o parti. (siede)

CES.

T’appagherò. (Come m’accoglie!) (siede) Il primo

De’ miei desiri è il renderti sicuro

Che il tuo cor generoso,

Che la costanza tua...

CAT.

Cangia favella,

Se pur vuoi che t’ascolti. Io so che questa

Artifiziosa lode è in te fallace;

E, vera ancor, da’ labbri tuoi mi spiace.

CES.

(Sempre è l’istesso). Ad ogni costo io voglio

Pace con te. Tu scegli i patti; io sono

Ad accettarli accinto,

Come faria col vincitore il vinto

(Or che dirà?)

CAT.

Tanto offerisci?

CES.

E tanto

Adempirò, ché dubitar non posso

D’un’ingiusta richiesta.

CAT.

Giustissima sarà. Lascia dell’armi

L’usurpato comando, il grado eccelso

Di dittator deponi, e come reo

Rendi in carcere angusto

Alla patria ragion de’ tuoi misfatti.

Questi, se pace vuoi, saranno i patti.

CES.

Ed io dovrei...

CAT.

Di rimanere oppresso

Non dubitar, ché allora

Sarò tuo difensore.

CES.

(E soffro ancora!)

Tu sol non basti. Io so quanti nemici

Con gli eventi felici

M’irritò la mia sorte; onde potrei

I giorni miei sagrificare in vano.

CAT.

Ami tanto la vita, e sei romano?

In più felice etade agli avi nostri

Non fu cara così. Curzio rammenta,

Decio rimira a mille squadre a fronte,

Vedi Scevola all’ara, Orazio al ponte;

E di Cremera all’acque,

Di sangue e di sudor bagnati e tinti,

Trecento Fabi in un sol giorno estinti.

CES.

Se allor giovò di questi,

Nuocerebbe alla patria or la mia morte.

CAT.

Per qual ragione?

CES.

È necessario a Roma

Che un sol comandi.

CAT.

È necessario a lei

Ch’egualmente ciascun comandi e serva.

CES.

E la pubblica cura

Tu credi più sicura in mano a tanti,

Discordi negli affetti e ne’ pareri?

Meglio il voler d’un solo

Regola sempre altrui. Solo fra’ numi

Giove il tutto dal ciel governa e move.

CAT.

Dov’è costui che rassomigli a Giove?

Io non lo veggo; e, se vi fosse ancora,

Diverrebbe tiranno in un momento.

CES.

Chi non ne soffre un sol, ne soffre cento.

CAT.

Così parla un nemico

Della patria e del giusto. Intesi assai:

Basta così. (s’alza)

CES.

Ferma, Catone.

CAT.

È vano

Quanto puoi dirmi.

CES.

Un sol momento aspetta:

Altre offerte io farò.

CAT.

Parla, e t’affretta. (torna a sedere)

CES.

(Quanto sopporto!) Il combattuto acquisto

Dell’impero del mondo, il tardo frutto

De’ miei sudori e de’ perigli miei,

Se meco in pace sei,

Dividerò con te.

CAT.

Sì, perché poi

Diviso ancor fra noi

Di tante colpe tue fosse il rossore.

E di viltà Catone,

Temerario, così tentando vai?

Posso ascoltar di più!

CES.

(Son stanco ormai).

Troppo cieco ti rende

L’odio per me: meglio rifletti. Io molto

Fin or t’offersi, e voglio

Offrirti più. Perché fra noi sicura

Rimanga l’amistà, darò di sposo

La destra a Marzia.

CAT.

Alla mia figlia?

CES.

A lei.

CAT.

Ah! prima degli dèi

Piombi sopra di me tutto lo sdegno,

Ch’io l’infame disegno

D’opprimer Roma ad approvar m’induca

Con l’odioso nodo. Ombre onorate

De’ Bruti e de’ Virginii, oh come adesso

Fremerete d’orror! Che audacia, oh numi!

E Catone l’ascolta?

E a proposte sì ree... (s’alzano)

CES.

Taci una volta:

Hai cimentato assai

La tolleranza mia. Che più degg’io

Soffrir da te? Per tuo riguardo il corso

Trattengo a’ miei trionfi: io stesso vengo,

Dell’onor tuo geloso, a chieder pace;

De’ miei sudati acquisti

Ti voglio a parte; offro a tua figlia in dono

Questa man vincitrice; a te cortese,

Per cento offese e cento

Rendo segni d’amor: né sei contento?

Che vorresti, che aspetti,

Che pretendi da me? Se d’esser credi

Argine alla fortuna

Di Cesare tu solo, in van lo speri.

Han principio dal Ciel tutti gl’imperi.

CAT.

Favorevoli agli empi

Sempre non son gli dèi.

CES.

Vedrem fra poco

Colle nostr’armi altrove

Chi favorisca il Ciel. (in atto di partire)

 

 

 




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