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Pietro Metastasio
Demetrio

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SCENA TREDICESIMA

 

Cleonice e poi Barsene, indi Fenicio

 

CLEON.

Sarete alfin contenti,

Ambiziosi miei folli pensieri.

Eccomi abbandonata, eccomi priva

D’ogni conforto mio. Qual nume infausto

Seminò fra i mortali

Questa sete d’onor? Che giova al mondo

Questa gloria tiranna,

Se costa un tal martìre,

Se per viver a lei convien morire?

BARS.

Regina, è dunque vero

Che trionfar sapesti

Su i propri affetti anche al tuo ben vicina?

FEN.

Dunque è vero, o regina,

Che avesti un cor sì fiero

Contro te, contro Alceste?

CLEON.

È vero, è vero.

FEN.

Non ti credea capace

Di tanta crudeltà.

BARS.

Minor costanza

Non sperava da te.

FEN.

L’atto inumano

Detesterà chi vanta

Massime di pietà.

BARS.

L’atto sublime

Ammirerà chi sente

Stimoli di virtù.

FEN.

Col tuo rigore

Oh quanto perdi!

BARS.

Oh quanta gloria acquisti!

FEN.

Deh! Rivoca...

BARS.

Ah! resisti...

CLEON.

Oh Dio! tacete.

Perché affliggermi più? Che mai volete?

FEN.

Vorrei renderti chiaro

L’inganno tuo.

BARS.

Di tua costanza il vanto

Vorrei serbarti.

CLEON.

E m’uccidete intanto.

Egualmente il mio core

Il proprio male ed il rimedio abborre;

E m’affretta il morir chi mi soccorre.

 

Manca sollecita

Più dell’usato,

Ancor che s’agiti

Con lieve fiato,

Face che palpita

Presso al morir.

Se consolarmi

Voi non potete,

Perché turbarmi,

Perché volete

La forza accrescere

Del mio martìr? (parte)

 

 

 




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