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Pietro Metastasio
Didone abbandonata

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Scena nona - Enea, Selene

 

ENEA Allorché Araspe a provocar mi venne,

del suo signor sostenne

le ragioni con me. La sua virtude

se condannar pretendi,

troppo quel core ingiustamente offendi.

SEL. Sia qual ei vuole Araspe, or non è tempo

di favellar di lui. Brama Didone

teco parlar.

ENEA Poc'anzi

dal suo real soggiorno io trassi il piede.

Se di nuovo mi chiede

ch'io resti in questa arena,

in van s'accrescerà la nostra pena.

SEL. Come fra tanti affanni,

cor mio, chi t'ama abbandonar potrai?

ENEA Selene, a me «cor mio»?

SEL. È Didone che parla, e non son io.

ENEA Se per la tua germana

così pietosa sei,

non curar più di me, ritorna a lei.

Dille che si consoli,

che ceda al fato e rassereni il ciglio.

SEL. Ah no! Cangia, mio ben, cangia consiglio.

ENEA Tu mi chiami tuo bene?

SEL. È Didone che parla, e non Selene.

Vieni e l'ascolta. È l'unico conforto,

ch'ella implora da te.

ENEA D'un core amante

quest'è il solito inganno:

va cercando conforto, e trova affanno.

Tormento il più crudele

d'ogni crudel tormento

è il barbaro momento,

che in due divide un cor.

È affanno sì tiranno,

che un'alma nol sostiene.

Ah! nol provar, Selene,

se nol provasti ancor.

 




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