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Pietro Metastasio
Didone abbandonata

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Scena ventesima e ultima - Didone

 

DID. Ah che dissi, infelice! A qual eccesso

mi trasse il mio furore?

Oh Dio, cresce l'orrore! Ovunque io miro,

mi vien la morte e lo spavento in faccia:

trema la reggia e di cader minaccia.

Selene, Osmida! Ah! tutti,

tutti cedeste alla mia sorte infida:

non v'è chi mi soccorra, o chi m'uccida.

Vado... Ma dove? Oh Dio!

Resto... Ma poi... Che fo?

Dunque morir dovrò

senza trovar pietà?

E v'è tanta viltà nel petto mio?

No no, si mora; e l'infedele Enea

abbia nel mio destino

un augurio funesto al suo cammino.

Precipiti Cartago,

arda la reggia; e sia

il cenere di lei la tomba mia.

 

 

Dicendo l'ultime parole corre Didone a precipitarsi disperata e furiosa nelle ardenti ruine della reggia: e si perde fra i globi di fiamme, di faville e di fumo, che si sollevano alla sua caduta.

Nel tempo medesimo su l'ultimo orizzonte comincia a gonfiarsi il mare e ad avanzarsi lentamente verso la reggia, tutto adombrato al di sopra da dense nuvole e secondato dal tumulto di strepitosa sinfonia. Nell'avvicinarsi all'incendio, a proporzione della maggior resistenza del fuoco, va crescendo la violenza delle acque. Il furioso alternar dell'onde, il frangersi ed il biancheggiar di quelle nell'incontro delle opposte ruine, lo spesso fragor de' tuoni, l'interrotto lume de' lampi, e quel continuo muggito marino, che suole accompagnar le tempeste, rappresentano l'ostinato contrasto dei due nemici elementi.

Trionfando finalmente per tutto sul fuoco estinto le acque vincitrici, si rasserena improvvisamente il cielo, si dileguano le nubi, si cangia l'orrida in lieta sinfonia; e dal seno dell'onde già placate e tranquille sorge la ricca e luminosa reggia di Nettuno. Nel mezzo di quella assiso nella sua lucida conca, tirata da mostri marini e circondata da festive schiere di nereidi, di sirene e di tritoni, comparisce il nume, che appoggiato al gran tridente parla nel seguente tenore.

 

 




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