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Pietro Metastasio
Lettere

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30 - A FRANCESCO ALGAROTTI - DRESDA

 

Vienna I dicembre 1746.

 

Ho intrapreso ben quattro o cinque volte di scrivervi, ma sono tanti i debiti de' quali voi mi caricate, e così poco discreti gli acidi miei e gli stiramenti de' nervi del mio stomaco e della mia testa, che, non sapendo trovar proporzione fra quel ch'io posso e fra quello che vi deggio, sono andato differendo, e senza aumentare in facoltà ho perduto il merito della diligenza. Onde, per non rendermi più reo di quel che già sono, ho risoluto d'arrossir piuttosto per la mia debolezza che somministrarvi motivi onde ragionevolmente dubitare dell'amor mio e della mia riconoscenza. E incominciando per ordine vi dirò in primo luogo che mi piace molto il cambiamento fatto da voi nella lettera del commercio, usando ingegni invece di molle, ed io non trovo che facciano oscurità i due significati della parola ingegno; nulladimeno, come io so già il vostro sentimento, non è meraviglia se lo riconosco immediatamente: per assicurarmi io ne farei pruova leggendo il passo a persona non prevenuta, ed osserverei se la parola muove l'idea che si vuole, con la necessaria sollecitudine. A tutte le altre vostre ingegnose ed erudite difese troverete la replica nella mia prima lettera; e a quella delle venerabili autorità che voi producete, per sostener l'uso delle parole, che sono straniere in Parnaso, io vi dirò che negli scritti de' nostri divini maestri v'è numero considerabile di cose da rispettarsi sempre, e non imitarsi mai, e che a dispetto della profonda venerazione che voi ed io abbiamo per il nostro Dante, non sarà possibile che ci riduciamo a scrivere:

 

E quello che del cul facea trombetta.

 

Nessuno è reo,

se basta a' falli sui

per difesa produr l'esempio altrui.

 

Ho riletto attentarnente il Congresso di Citera, e mi sono tanto compiaciuto delle sue nuove bellezze, quanto del più vantaggioso lume in cui avete poste le antiche; me ne congratulo con esso voi: vi consiglio di non accostar più la lima a così forbito lavoro, perché alla fine si perde il buono cercando l'ottimo, e l'eccesso della diligenza tira seco gli svantaggi della trascuraggine, e ve ne parlerei più lungamente se l'impazienza di ragionar della bellissima lettera che vi è piaciuto indirizzarmi non vincesse ogni altro mio desiderio. Sappiate dunque che io l'ho già letta molte volte e sempre con nuovo piacere; che mi pare ch'essa si lasci molto indietro l'altra sua sorella del commercio; che scintilla tutta d'un certo vivace fuoco poetico ond'è tutta ripiena d'anima in ciascuna sua parte; che vi sono de' versi che hanno subito occupato luogo nella mia memoria, e non saprei farli tacere, tanto essi vi risuonano, come per esempio:

 

Il nuovo Achille tuo, che già nel seno

l'omeriche faville agita e versa.

 

Né il latino Ocean tentar nel greco.

 

Giaceano a terra squallide e dolenti,

involte ancor nell'unnica ruina.

 

Né ancor avea

Michelagnolo al Ciel curvato e spinto

il miracol dell'arte in Vaticano.

 

E quella invida lode

che solo in odio a' vivi i morti esalta.

 

Degli erranti fantasmi ordinatrice

aura divina.

 

e altri molti che io tralascio per non trascriver la maggior parte della vostra lettera. È frutto in somma che mi fa compiacer de' miei presagi sul vigore del vostro ingegno, quando non se ne ammiravano che i fiori. Né vi cada in mente che questo mio giudizio sia un cortese contraccambio delle lodi, delle quali con tanta profusione mi caricate. Veggo assai bene che queste potrebbero risvegliarmi quell'invidia che non sono giunti gli scritti miei a meritare: mi compiaccio in esse della cagione che vi seduce, e trovo argomenti in loro d'esser più contento di voi che di me. Comunque la faccenda si vada, io confesso il mio debito, ma non intenderei mai pagarlo con la moneta adulterina di menzognere lodi, indegne di essere introdotte ne' sacri penetrali dell'amicizia. E perché abbiate nuovi argomenti della mia sincerità, io vi dirò liberamente quanto nella vostra lettera ho incontrato capace di qualche maggiore ornamento, non bisognoso di correzione.

Per ragion d'esempio io farei che scambiasser luogo il quinto verso col quarto, e direi:

 

                                               ...ov'io

Orazio non ugual d'Augusto al peso,

le giuste lodi al mio signor scemai.

 

e ciò solamente per approssimar quel nominativo d'opposizione all'io da cui egli è retto, ed alleggerirne la fatica al lettore.

Dal decimo terzo sino al decimo ottavo verso, tratto per altro ammirabile, io inciampo tre volte: desidero in primo luogo che abbia il suo articolo quella tragica Musa come cosa non generica ma particolare. È vero che vi sono dei casi ne' quali l'articolo si trascura con eleganza, ma voi sapete meglio di me quando, come e perché; né questo è il luogo di fare una dissertazione. Secondariamente (oh qui sì che mi chiamerete la seccaggine) non mi si accomodano all'orecchio quei vostri palchetti, profanatori d'uno de' più nobili poetici tratti della vostra lettera; e finalmente quel bellissimo aggiunto di grato, che voi date al popolo, vorrei che fosse o in principio di verso o altrove situato in guisa che, senza dover tornare in dietro con la mente, facesse conoscere ch'ei regge tutto ciò che siegue del periodo, e per darvi un'idea della maniera che io intendo di spiegare, eccovi come vorrei organizzato tutto quel passo:

 

Al tragico tuo canto

dal basso pian, dagli ordini sublimi,

sonori ognor, di giusto plauso, il folto

popolo spettator tributi invia:

grato che alfin le invereconde un tempo

scurrili scene, or, tua mercé, pudico

passeggi e grave il Sofocleo coturno.

 

La correzione in margine evita il pericolo di attribuir l'aggiunto sonori ad altro che a' tributi. Forse non vi piacerà la lunga trasposizione, ed io non intendo difenderla: voglio solamente farvi comprendere qual sarebbe l'ordine che io desidererei, lasciando a voi la cura di eseguirlo a vostro talento quando così non v'aggradi. Nel verso 23 vorrei che faceste dono d'un articolo a quel: da tua Dido infelice cosa facilissima col suo cambiamento dell'aggiunto, come per ragion d'esempio:

 

            ... dall'afflitta tua Dido.

 

Voi potrete difendere la vostra maniera, se così vi piace; troverete esempi confacenti, e chi volesse convincervi con grammatici, dopo aver riletti il Salviati, il Pergamini e il Buommattei, non saprà ancora con qual sicurezza, dove possa trascurarsi l'articolo, e dove no; tanto infelicemente si sono questi studiati di darne regola certa. Sicurissimo è per altro che l'articolo particolareggia e determina il nome a cui s'unisce. Fiume che inondi i campi, non disegna qual fiume. Ma il fiume inondò i campi disegna quel tal fiume, di cui si è parlato; questa regola ha alquante eccezioni, e più che ogni altra cosa gli orecchi bastantemente sicuri mi sogliono determinare i dubbi di tal fatta.

Nel v. 33, quel non ti dolga l'udire, parmi che muova l'idea di stato d'afflizione e di bisogno di consolatore e lusingherebbe assai più la mia umanità e seconderebbe il vero chi dicesse:

 

v. 33                A ragion tu non curi obliqua voce.

v. 37                Sai che di tal reo verme è pasto e nido.

v. 38                Né meraviglia è già.

 

Nel v. 43, Col valor che ha negli occhi io direi su gli occhi, poiché negli occhi vuol dir dentro.

V. 45, E i buon Pisoni, quel buon per buoni è licenza della quale non farei uso in piccolo componimento, tanto più che E fra' Pisoni sta ottimamente.

 

v. 55                Che più d'uno è tra noi (bene su l'Istro

            ten' pervenne il romor).

 

Quel più d'uno, val molti. Io spero che non lo siano paragonati a' loro contrari, e se lo fossero, non mi par salubre il confessarlo. Direi dunque

 

Che taluno è fra noi (bene su l'Istro ecc.

 

Quel bene dovrebbe esser tronco, come ben su l'Istro. Vi saranno pochi esempi in contrario, e quando anche ve ne fossero a dovizia, io credo che si debbano evitare al possibile le licenze che sempre accusano l'angustia dello scrittore. Che sia pervenuto su l'Istro il romore ch'han fatto i nostri Pantili, fa loro molto onore, e non è vero; onde se non avete motivo politico per asserirlo, io direi: Ben taluno è fra noi ritrovo, e impronto ecc.

 

V. 69, Non aureo tutto ecc. desidererei che la fedele e bella traduzione del verso: nil praeter Calvam et doctum cantare Catullum, non fosse tanto disgiunta dal nome Demetrio, tanto più che quell'in tempo non aureo tutto, e pien d'opre antiche, non si conosce subito a qual oggetto si dice.

V. 95, O di servile età povere menti: io non mi scaglierei contro il secolo, che non è certamente del genio di Pantilio, anzi odia lo stile petrarchevole secco ed esangue, ed esclamerei piuttosto contro Pantilio, dicendo:

 

O di mente servil miseri ceppi,

 

lacci meschini o comunque meglio vi piacerà.

V. 121, Lungo la costa, e su per li valloni: questo verso mi par che cada, né so perché, forse quel per li è la pietra dello scandalo:

 

Su pe' valloni e per la scabra costa,

 

si sosterrebbe più.

V. 186. Se io fossi l'autore della bellissima vostra lettera, sarei vivamente tentato di terminarla con quel verso di Dante, ma in modo che il verso medesimo chiudesse il senso e non rimanesse staccato, cioè nella seguente o altra simil maniera:

 

A piena man spargete

sovra lui fiori, e del vivace alloro

nobil mercé, de' bei sudori altrui

«Onorate l'Altissimo Poeta».

 

Non perderete i quattro ultimi versi, che rappresentano l'invidia domata; quella immagine entrerà in altro componimento quando vi piaccia; ed io sarei contento che il fine della vostra lettera lasciasse il lettore più persuaso dell'amor vostro per me che del vostro sdegno verso Pantilio.

Un cavaliere d'ottimo gusto, che ha trovata la vostra lettera sul mio tavolino e che l'ha tutta letta con sommo piacere, mi sono accorto ch'è inciampato nel v. 67: Di costoro cotale è il cicalio. Se in grazia sua volete o togliere o troncare quel vostro cotale, eviterete che un altro non se ne offenda.

Ma io abuso troppo della vostra docilità e della vostra pazienza, non meno che della povera mia testa tormentata dagli incomodi suoi: tutto quello che ho osservato nella vostra lettera può difendersi quando si voglia: io non intendo di far da correttore, come voi sapete, anzi protesto di nuovo che il più grande argomento che io possa darvi dell'amor mio è la fiducia con la quale con voi ragiono delle vostre cose, fiducia che (avendola appresa a mie spese) non avrei con chicchessia.

Eccovi acclusa la lettera di ritorno del povero Gorani, che avete ragion di compiangere e per i meriti suoi e per l'amore che vi portava.

Rispondo con questa a tre vostre lettere, che tutte fedelmente ho ricevuto. Vi assicuro del sommo aggradimento della degnissima contessa d'Althann alla vostra gentile memoria, ed abbracciandovi teneramente insieme col mio conte Canale, pieno di stima e di riconoscenza sono e sarò eternamente il vostro.

 

 




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