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Pietro Metastasio Lettere IntraText CT - Lettura del testo |
104 - A FILIPPO HALLAM - GENOVA
Vienna 16 dicembre 1765.
Se io credessi, come tutti i pedanti credono, di non dover lasciar senza difesa qualunque loro reprensibile errore o negligenza, alla savia osservazione di V. S. illustrissima, dello stile umile e famigliare da me impiegato nella citata scena del Siroe, risponderei che quell'Orazio medesimo che dice:
Versibus exponi tragicis res comica non vult:
indignatur item privatis ac prope socco
dignis carminibus narrari coena Thyestae:
soggiunge immediatamente che vi sono occasioni nelle quali e il comico si solleva, ed il tragico si abbassa:
Interdum tamen et vocem comoedia tollit,
iratusque Chremes tumido delitigat ore;
et tragicus plerumque dolet sermone pedestri.
Ma benché questo sia il sentimento d'Orazio, non è però il mio. Io credo che chi monta sul coturno non debba mai scordarsene la dignità, e che debba anzi evitar sempre lo stile pedestre, anche nella talvolta inevitabile espressione di circostanze basse e comuni, necessaria alla spiegazione ed alla condotta della sua favola. Ma perché, dirà ella, non è osservata cotesta massima nel luogo citato? Eccogliene la ragione. Quando io da bel principio intrapresi a trattarlo, il nostro dramma musicale non era ancora tragedia; appena s'incominciava a soffrire che fossero escluse dall'intreccio di quello le parti ridicole; ond'era un genere misto più vicino a quello del Ciclope d'Euripide e dell'Anfitrione di Plauto, che a quello dell'Edipo, dell'Elettra e del Filottete. Il nostro popolo, avvezzo a rallegrarsi in teatro, esigeva qualche riguardo da' poeti che volevano accostumarlo al severo della tragedia. Quindi conveniva somministrargli ne' drammi qualche situazione, se non comica affatto e scurrile, almeno festiva e ridente, ed in tali situazioni è impossibile che lo stile che le seconda non iscemi alquanto dalla tragica austerità. Uscito appena dalla mia prima adolescenza, io non mi credea permesso l'ardire di urtar di fronte il gusto popolare; onde procurava di compiacere i miei giudici anche a dispetto della natural repugnanza. L'esperienza poi mi ha convinto che il popolo è molto più docile di quello che comunemente si crede; ond'ella troverà ben pochi esempi di cotesta mia compiacenza, e questi unicamente in alcuno de' primi miei drammi.
Se queste, non già difese ma piuttosto scuse e ragioni, non bastano a giustificarmi appresso di lei, io ricorro alla protezione di quel medesimo Orazio col quale ella mi riconviene:
Sunt delicta tamen, quibus ignovisse velimus:
nam neque chorda sonum reddit, quem vult manus et mens:
poscentique gravem persaepe remittit acutum:
nec semper feriet quodcumque minabitur arcus.
Verum ubi plura nitent in carmine, non ego paucis
offendar maculis: quas aut incuria fudit,
aut humana parum cavit natura.
Intanto io mi congratulo seco della delicata esattezza del suo giudizio, e le sono gratissimo dell'ingenua franchezza con la quale ella mi ha provato ch'io sono escluso nella sua mente dall'infinito numero di quegli scrittori che pretendono all'infallibilità. Dacché ella mi toglie la speranza di conoscerla di persona, secondi almeno quella dell'acquisto che ambisco della sua amicizia e padronanza, alle quali non farà ostacolo la distanza che si frappone fra il Tamigi ed il Danubio, e mi creda.