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Pietro Metastasio
Lettere

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105 - A FRANCESCO GIOVANNI DI CHASTELLUX - PARIGI

 

Vienna 29 gennaio 1766.

 

S'io avessi vissuto alquante olimpiadi di meno, il vigore, l'erudizione, l'eloquenza e la gentilezza con la quale ha fatto V. S. illustrissima nella sua ultima lettera l'elogio della musica, mi avrebbe indotto ad abbandonare ogni altro per lo studio di questa; ma non sarebbe a' dì nostri lodevole, come lo era in Grecia altre volte anche a' severi filosofi ed a' sommi imperadori, non che a' miei pari, il dimesticarsi in qualunque età con la lira. Abbastanza per altro mi consola di questa insufficienza mia il piacere di vedermi tanto d'accordo con essolei, il voto di cui io ambisco come il più solido sostegno delle mie opinioni.

Conveniamo dunque perfettamente fra noi che sia la musica un'arte ingegnosa, mirabile, dilettevole, incantatrice, capace di produrre da sé sola portenti, ed abile, quando voglia accompagnarsi con la poesia e far buon uso delle sue immense ricchezze, non solo di secondare ed esprimere con le sue imitazioni, ma d'illuminare ed accrescere tutte le alterazioni del cuore umano. Ma non possiamo non confessar concordemente nel tempo stesso l'enorme abuso che fanno per lo più a' giorni nostri di così bell'arte gli artisti, impiegando a caso le seduttrici facoltà di questa, fuor di luogo e di tempo, a dispetto del senso comune, ed imitando bene spesso il frastuono delle tempeste, quando converrebbe esprimere la tranquillità della calma, o la sfrenata allegrezza delle Bassaridi in vece del profondo dolore delle Schiave troiane o delle Supplici argive; onde il confuso spettatore spinto nel tempo stesso a passioni affatto contrarie dalla poesia e dalla musica, che in vece di secondarsi si distruggono a vicenda, non può determinarsi ad alcuna, ed è ridotto al solo meccanico piacere che nasce dall'armonica proporzione de' suoni o dalla mirabile estensione ed agilità d'una voce. Io perdonerei a' compositori di musica un così intollerabile abuso se fossero scarse le facoltà dell'arte che trattano; né mi parrebbe sì strano che l'impazienza di ostentare le poche loro limitate ricchezze gli rendesse meno scrupolosi nell'adattarle al bisogno; ma non essendovi passione umana che non possa essere vivamente espressa e mirabilmente adornata da sì bell'arte in cento e cento diverse maniere, perché mai dovrassi soffrire l'insulto che quasi a bello studio essi fanno senza necessità alla ragione? Or ella vede che io sono parziale al par di lei della musica, e che quando detesto la presente musica drammatica, non intendo di parlar che di quei nostri moderni artisti che la sfigurano.

Ma l'altro per me ben più efficace motivo di consolazione è la famigliarità che dall'ultima sua lettera si conosce aver ella col greco teatro, famigliarità che assicura la concordia delle nostre opinioni.

Ha già ella dottamente osservato che i primi padri della tragedia, per fornire alla musica le occasioni di ostentar le sue bellezze, cambiano talvolta in bocca de' personaggi introdotti, a seconda del cambiamento degli affetti, i soliti giambi in anapesti e trochei; né le sarà sfuggito che i personaggi medesimi cantano e soli e fra loro, ed a vicenda col coro strofe, antistrofe ed epodi, metri che esigono per natura quella specie di musica usata da noi nelle arie, e ch'ella chiama magistralmente periodica; onde concluderà, per necessaria conseguenza, che nell'uso di lusingar con le ariette le molli orecchie degli spettatori abbiamo illustri, antichi ed autorevoli antesignani, ai quali dobbiamo noi senza dubbio e l'aria ed il recitativo, non meno che i Latini i cantici ed i diverbi. Né picciola pruova dell'antica discendenza delle arie è il greco nome di strofa, col quale tuttavia da' letterati e dal popolo si chiamano comunemente fra noi i vari metri delle arie nostre e delle nostre canzoni.

Non creda V. S. illustrissima che io mi dimentichi le sue esortazioni. Vorrebbe ella che, siccome si dice la repubblica delle lettere, si dicesse ancora la repubblica delle arti; e che per conseguenza la poesia, la musica e le altre loro sorelle vivessero amichevolmente in perfetta indipendenza. Io, per confessare il vero, non sono repubblichista, non intendo perché questa, a preferenza delle altre forme di governo, abbia a vantar sola la virtù per suo principio; mi pare che tutte siano soggette ad infermità distruttive; mi seduce il venerabile esempio della paterna suprema autorità; né trovo risposta all'assioma che le macchine più semplici e meno composte sono le più durevoli e meno imperfette. Nulla di meno non v'è cosa ch'io non facessi per esser seco d'accordo. Eccomi dunque, già che ella così vuole, eccomi repubblichista; ma ella sa che i repubblichisti medesimi i più gelosi, quali erano i Romani, persuasi del vantaggio dell'autorità riunita in un solo, nelle difficili circostanze eleggevano un dittatore, e che quando sono incorsi nell'errore di dividere cotesta assoluta autorità tra Fabio e Minucio han corso il rischio di perdersi. L'esecuzione d'un dramma è difficilissima impresa, nella quale concorrono tutte le belle arti, e queste, per assicurarne, quanto è possibile, il successo, convien che eleggano un dittatore. Aspira per avventura la musica a cotesta suprema magistratura? Abbiala in buon'ora, ma s'incarichi ella in tal caso della scelta del soggetto, dell'economia della favola; determini i personaggi da introdursi, i caratteri e le situazioni loro; immagini le decorazioni; inventi poi le sue cantilene, e commetta finalmente alla poesia di scrivere i suoi versi a seconda di quelle. E se ricusa di farlo perché di tante facoltà necessarie all'esecuzione d'un dramma non possiede che la sola scienza de' suoni, lasci la dittatura a chi le ha tutte, e sulle tracce del ravveduto Minucio confessi di non saper comandare, ed ubbidisca. In altro modo, se in grazia del venerato suo protettore non avrà il nome di serva fuggitiva, non potrà evitar l'altro di repubblichista ribelle.

So che in Francia v'è un teatro che si chiama «lirico», dove, perché si rappresenta in musica, suppone V. S. illustrissima che questa, come in casa propria, vi possa far da padrona; ma questa circostanza non ha mai fatto fra gli antichi un teatro distinto. Fra le sei necessarie parti di qualità della tragedia, cioè fra le parti che regnano, non già di tratto in tratto, ma continuamente in tutto il corso di essa, che sono la favola, i caratteri, l'elocuzione, la sentenza e la decorazione conta Aristotile, benché in ultimo luogo, la musica. Ed in fatti non si può parlare ad un pubblico e farsi chiaramente intendere senza elevare, distendere e sostenere la voce notabilmente più di quello che suol farsi nel parlare ordinario. Coteste nuove notabili alterazioni di voce esigono un'arte che ne regoli le nuove proporzioni, altrimenti produrrebbero suoni mal modulati, disaggradevoli e spesse volte ridicoli. Quest'arte appunto altro non è che la musica, così a chi ragiona in pubblico necessaria, che quando manca agli attori quella degli artisti destinati a comporla, sono obbligati dalla natura a comporne una da se medesimi sotto il nome di declamazione. Ma quando ancora producesse una reale distinzione di teatro l'esservene uno costì, al quale, benché drammatico, si è voluto comunicare l'attributo distintivo di Pindaro, d'Orazio e de' seguaci loro, i diritti della musica non sarebbero ivi di maggior peso. Se in cotesto teatro lirico si rappresenta un'azione, se vi si annoda, se vi si scioglie una favola, se vi sono personaggi e caratteri, la musica è in casa altrui, e non vi può far da padrona.

Ma è forza, degnissimo mio signor cavaliere, che io finisca: non avrei la virtù di farlo sì presto (tanto è il vantaggio ed il piacere ch'io risento nell'aprir liberamente l'animo mio a persona così dotta, così ragionevole e così parziale com'ella meco si mostra); ma i miei indispensabili doveri mi chiamano ad altro lavoro. Se mai mi lascieranno essi tanto di ozio ch'io possa mettere in ordine un mio Estratto della Poetica d'Aristotile, che vado da ben lungo tempo meditando, le comunicherò in esso le varie osservazioni da me fatte per mia privata istruzione, sopra tutti i greci drammatici e quelle che la pratica di ormai mezzo secolo, senz'alcun merito della mia perspicacia, ha dovuto naturalmente suggerirmi; ma a patto che non avvenga a questo ciò che alla prima lettera, che a lei scrissi, è avvenuto, cioè d'esser resa pubblica con le stampe senza l'assenso mio. Le opinioni che si oppongono alle regnanti, quantunque lucide ed incontrastabili, non prosperano mai senza contese, ed il contendere, signor cavaliere gentilissimo, è mestiere al quale io non mi trovo inclinato per temperamento, non agguerrito per uso, non atto per l'età, e non sufficiente per iscarsezza dell'ozio del quale abbisogna; è mestiere in cui avrà ella osservato che le grida più sonore e i paralogismi più eruditi sogliono valer per ragioni; ed è mestiere finalmente che, degenerando d'ordinario in insulti, esige o troppa virtù per soffrirli o troppa scostumatezza per contraccambiarli. Ma io non so staccarmi da lei, e l'adorabile mia augusta sovrana, non ancora stanca (per eccesso di clemenza) delle mie ciance canore, mi spinge frettolosamente in Parnaso, e convien lasciar tutto per ubbidirla, anche a dispetto d'Orazio che mi va gridando all'orecchio

 

solve senescentem mature sanus equum, ne

peccet ad extremum ridendus, et ilia ducat.

 

Io sono col dovuto rispetto.

 

 




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