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Pietro Metastasio
Lettere

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LXVII

 

A RANIERI CALZABIGI - PARIGI

 

Frain 15 ottobre 1754.

 

La gratissima vostra del 16 dello scorso settembre mi ha raggiunto fra queste campagne di Moravia, dove soglio impiegar l'autunno nelle provvisioni di salute che bisognano ad un italiano, per resister poi al prolisso inverno teutonico. Vi rimarrò ancora qualche giorno; e andrò poi a trincerarmi in Vienna contro il freddo, che ha incominciato pur troppo sollecitamente quest'anno a mandar precursori. Non trovo fondamento dell'eccessiva vostra riconoscenza; pur se questa traveggola giova a rendervi più mio, non intendo d'illuminarvi. La vostra prefazione non ha qui solamente il mio voto; io ne ho trovato altri, e d'un peso che bilancia quello della mia amicizia per voi, e quello del mio naturale amore per me medesimo. Voi non mi parlate di raddolcire alcun poco le espressioni, di cui vi valete contro i semidotti e francesi e italiani. Foste mai risoluto di lasciare ad esse tutta l'acrimonia della vostra per altro giustissima indignazione? No, amico, credetemi: chi irrita non persuade, anzi accresce avversari in vece di far proseliti; e il costringere a diventar seguaci i nemici è il più bello di tutti i trionfi.

I miei pareri che oggi non ho tempo di comunicarvi sull'unità del loco e sul coro avranno molto maggior forza come vostri che come miei, essendo io parte principale; onde, con pace della vostra delicatezza di coscienza, guardatevi di citarmi. La materia merita che non si passi leggermente, e particolarmente in Francia, dove al povero teatro (oltre il rischio che ha corso d'esser infamato ed oppresso dalla divota atra bile di Port-Royal) si è voluto addossare un rigorismo che non ha fondamento in alcun canone poetico d'antico maestro, a cui s'oppongono numerosi esempi di tragici e comici così greci come latini, e da cui è più visibilmente violata la legge del verisimile che dalla morale rilasciata. Non si trova né in Orazio né in Aristotile una parola sola intorno all'unità del luogo, e quando abbia a giudicarsi per induzione, non vedo perché dobbiamo creder giansenista intorno all'unità del luogo quell'Aristotile medesimo che intorno all'unità del tempo è arcipelagiano. Se dobbiamo regolarci con gli esempi, è facile di dimostrare che quasi tutte le tragedie o commedie greche e latine han bisogno di mutazione di scena, perché sia ragionevole il discorso degli attori. Cornelio ha osservata questa incontrastabile necessità nell'Aiace di Sofocle: io mi ricordo d'averla ritrovata nelle Nuvole d'Aristofane, nell'Ippolito e nell'Oreste d'Euripide ecc. E se io non fossi affatto privo di libri in questa campagna potrei accennarvi i luoghi e di queste e d'altre tragedie e commedie nelle quali è indispensabile o mutare scena o supporla mutata, o creder pazzo l'autore. Ma non più pedantismo per oggi. Il ritratto dicono che fa gran torto alle mie bellezze. Io sono incallito a queste detrazioni: anzi non mi dispiacciono le grida contro i difetti delle copie, come argomenti del contrario nell'originale. Il tutto insieme del rame incontra approvazione: e basta per il nostro bisogno.

Pensate a farmi capitare un esemplare della nuova edizione, subito che sia compiuta, ed a provvederne alcuno di questi nostri librari viennesi. Io sono intanto.

 

 




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