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Pietro Metastasio Lettere IntraText CT - Lettura del testo |
CXVII
A DOMENICO DIODATI - NAPOLI
Vienna 10 ottobre 1768.
Se avess'io potuto secondare il mio desiderio, avrebbe V. S. illustrissima aspettata molto meno questa risposta: ma ben rade volte, riverito amico, mi riesce di poter far uso della mia libertà. Una serie perenne di sempre rinascenti ufficiosi doveri, la maggior parte inutili ma tutti indispensabili, mi defrauda miserabilmente di quell'ozio che l'incostanza di mia salute e gli obblighi del mio impiego permetterebbero di tratto in tratto ch'io consagrassi a qualche studio geniale ed all'utile commercio con alcuno di que' pochissimi quos aequus amavit Iupiter. Il vantaggio ed il piacere ch'io ritraggo dalle sue lettere esigerebbe ch'io ne procurassi la frequenza con l'esattezza delle mie, e se talvolta son costretto, mio mal grado, a trascurarlo, la perdita ch'io ne risento ha più bisogno di compatimento che di perdono. Dovrei qui, prima d'ogni altra cosa, protestar contro l'eccesso della sua parzialità a mio riguardo; ma il riandare ciò ch'ella dice di me, anche con animo di oppormi, è sommamente pericoloso. La vanità dei poeti non ha bisogno di eccitamenti, ed ella è troppo abile a persuadere. Perché conservi il suo equilibrio la mia dovuta moderazione non si vuole esporre a tentazioni così efficaci; onde subito alle dimande.
Confesso che l'orazione sciolta non avrebbe avuto per me minore allettamento che la legata; ma, destinato dalla Providenza a far numero fra gl'insetti del Parnaso, non mi è rimasto l'arbitrio di dividere fra l'una e l'altra gli studi miei. Ho bene intrapreso diverse volte fra gl'intervalli delle mie poetiche necessarie occupazioni qualche prosaico lavoro, sempre per altro analogo al mio mestiere; ma obbligato da frequenti sovrani comandi a riprender la tibia e la lira, ho dovuto far sì lunghe parentesi, che tornando poi all'opera interrotta ho trovato raffreddato quel metallo che già fuso e preparato al getto m'era convenuto di abbandonare; e sentendomi minor pazienza per correr dietro alle idee dissipate, che coraggio per nuove imprese, mi sono avventurato a tentarle; ed esposte ancor queste alle medesime vicende, hanno sempre cagionato il fastidio, il disgusto e l'abbandono medesimo. Cotesti tentativi o piuttosto informi ed imperfettissimi aborti forse esistono ancora dispersi e confusi fra le altre inutili mie carte, come le foglie della Sibilla cumana dissipate dal vento; ma per economia del mio credito avrò ben io gran cura ch'essi non vivano più di me; se pure non mi riuscisse, che non ispero, il fare un giorno di essi qualche uso decente. L'unico lavoro che a dispetto del coturno ho potuto ridurre al suo termine, sono alcune mie brevi osservazioni sopra tutte le tragedie e commedie greche: ma queste osservazioni ancora (oltre l'aver bisogno di essere impinguate, ed il risentirsi troppo della fretta dello scrittore) non sono che necessari utensili della mia officina, e non men per mio che per difetto della materia, mal provvedute di quell'allettatrice eloquenza che può sedurre i lettori; onde, utili unicamente al privato mio comodo, non aspirano alla pubblica approvazione. Il credito poi delle mie lettere famigliari non è giunto mai appresso di me a meritar la cura di tenerne registro. Pur da qualche anno in qua uno studioso giovane amante del nostro idioma ne va trascrivendo per suo esercizio tutte quelle che a lui ne' giorni di posta dall'angustia del tempo è permesso, e ne ha già raccolto maggior numero ch'io non vorrei; ma sono ben certo ch'ei non abuserà della mia condescendenza, violando ingratamente il positivo divieto di pubblicarle. Ed eccole reso il minutissimo conto ch'ella ha richiesto di tutte le mie prosaiche applicazioni.
La seconda richiesta di pronunciar sul merito dell'Ariosto e del Tasso è una troppo malagevole provincia, che V. S. illustrissima mi assegna senz'aver misurate le mie facoltà. Ella sa da quai fieri tumulti fu sconvolto il Parnaso italiano quando comparve il Goffredo a contrastare il primato al Furioso, che n'era con tanta ragione in possesso. Ella sa quanto inutilmente stancarono i torchi il Pellegrini, il Rossi, il Salviati e cento altri campioni dell'uno e dell'altro poeta. Ella sa che il pacifico Orazio Ariosto, discendente di Lodovico, si affaticò invano a metter d'accordo i combattenti, dicendo che i poemi di questi due divini ingegni erano di genere così diverso che non ammettevano paragone; che Torquato si era proposto di mai non deporre la tromba e l'avea portentosamente eseguito; che Lodovico avea voluto dilettare i lettori con la varietà dello stile, mischiando leggiadramente all'eroico il giocoso ed il festivo, e l'avea mirabilmente ottenuto; che il primo avea mostrato quanto vaglia il magistero dell'arte, il secondo quanto possa la libera felicità della natura; che l'uno non men che l'altro aveano a giusto titolo conseguiti gli applausi e l'ammirazione universale, e che erano pervenuti entrambi al sommo della gloria poetica, ma per differente cammino e senza aver gara fra loro. Né può esserle finalmente ignota la tanto celebre, ma più brillante che solida distinzione, cioè che sia miglior poema il Goffredo, ma più gran poeta l'Ariosto. Or tutto ciò sapendo, a qual titolo pretende ella mai ch'io m'arroghi l'autorità di risolvere una quistione che dopo tanti ostinatissimi letterari conflitti rimane ancora indecisa? Pure, se non è a me lecito in tanta lite il sedere pro tribunali, mi sarà almen permesso il narrarle istoricamente gli effetti ch'io stesso ho in me risentiti alla lettura di cotesti insigni poemi.
Quando io nacqui alle lettere, trovai tutto il mondo diviso in parti. Quell'illustre Liceo, nel quale io fui per mia buona sorte raccolto, seguitava quelle dell'Omero ferrarese, e con l'eccesso di fervore che suole accompagnar le contese. Per secondar la mia poetica inclinazione mi fu da' miei maestri proposta la lettura e l'imitazione dell'Ariosto, giudicando molto più atta a fecondar gl'ingegni la felice libertà di questo, che la servile, dicevan essi, regolarità del suo rivale. L'autorità mi persuase, e l'infinito merito dello scrittore mi occupò quindi a tal segno, che, non mai sazio di rileggerlo, mi ridussi a poterne ripetere una gran parte a memoria: e guai allora a quel temerario che avesse osato sostenermi che potesse aver l'Ariosto un rivale, e ch'ei non fosse impeccabile. V'era ben frattanto chi per sedurmi andava recitandomi di tratto in tratto alcuno dei più bei passi della Gerusalemme liberata, ed io me ne sentiva dilettevolmente commosso; ma, fedelissimo alla mia setta, detestava cotesta mia compiacenza come una di quelle peccaminose inclinazioni della corrotta umana natura ch'è nostro dover di correggere; ed in questi sentimenti io trascorsi quegli anni, nei quali il nostro giudizio è pura imitazione dell'altrui. Giunto poi a poter combinare le idee da me stesso ed a pesarle nella propria bilancia, più per isvogliatezza e desiderio di varietà che per piacere o profitto ch'io me ne promettessi, lessi finalmente il Goffredo. Or qui non è possibile che io le spieghi lo strano sconvolgimento che mi sollevò nell'animo cotesta lettura. Lo spettacolo ch'io vidi, come in un quadro, presentarmisi innanzi d'una grande e sola azione, lucidamente proposta, magistralmente condotta e perfettamente compiuta; la varietà de' tanti avvenimenti che la producono e l'arricchiscono senza moltiplicarla; la magia d'uno stile sempre limpido, sempre sublime, sempre sonoro e possente a rivestir della propria sua nobiltà i più comuni ed umili oggetti; il vigoroso colorito col quale ei paragona e descrive; la seduttrice evidenza con la quale ei narra e persuade; i caratteri veri e costanti, la connessione delle idee, la dottrina, il giudizio, e sopra ogni altra cosa la portentosa forza d'ingegno che, in vece d'infiacchirsi come comunemente avviene in ogni lungo lavoro, fino all'ultimo verso in lui mirabilmente s'accresce, mi ricolmarono d'un nuovo sino a quel tempo da me non conosciuto diletto, d'una rispettosa ammirazione, d'un vivo rimorso della mia lunga ingiustizia e d'uno sdegno implacabile contro coloro che credono oltraggioso all'Ariosto il solo paragon di Torquato. Non è già che ancor io non ravvisi in questo qualche segno della nostra imperfetta umanità; ma chi può vantarsene esente? Forse il grande suo antecessore? Se dispiace talvolta nel Tasso la lima troppo visibilmente adoperata, non soddisfa nell'Ariosto così frequentemente negletta; se si vorrebbe togliere ad uno alcuni concettini inferiori all'elevazione della sua mente, non si lasciano volentieri all'altro alcune scurrilità poco decenti ad un costumato poeta; e se si bramerebbero men rettoriche nel Goffredo le tenerezze amorose, contenterebbero assai più nel Furioso se fossero meno naturali. Verum opere in longo fas est obrepere somnum; e sarebbe maligna vanità pedantesca l'andar rilevando con disprezzo in due così splendidi luminari le rare e picciole macchie, quas aut incuria fudit, aut humana parum cavit natura.
Tutto ciò, dirà ella, non risponde alla mia domanda. Si vuol sapere nettamente a quale dei due proposti poemi si debba la preminenza. Io ho già, riveritissimo signor Diodati, antecedentemente protestata la mia giusta repugnanza a così ardita decisione, e per ubbidirla in quel modo che a me non disconviene, le ho esposti in iscambio i moti che mi destarono nell'animo i due divini poeti. Se tutto ciò non basta, eccole ancora le disposizioni nelle quali, dopo aver in grazia sua esaminato nuovamente me stesso, presentemente io mi trovo. Se per ostentazione della sua potenza venisse al nostro buon padre Apollo il capriccio di far di me un gran poeta, e m'imponesse a tal fine di palesargli liberamente a quale de' due lodati poemi io bramerei somigliante quello ch'ei promettesse dettarmi, molto certamente esiterei nella scelta, ma la mia forse soverchia natural propensione all'ordine, all'esattezza, al sistema, sento che pure al fine m'inclinerebbe al Goffredo.
Oh che prolissa cicalata! è vero: ma non mi carichi della sua colpa; ella se l'ha tirata addosso non meno col suo comando che con l'amore, la stima e l'avidità di ragionar seco, di cui ha saputo così largamente fornirmi. Questo saggio per altro non ha di che giustamente spaventarla: le mie fin da bel principio esposte circostanze mi obbligheranno pur troppo ad essere mio mal grado discreto. Non desista intanto dal riamarmi e dal credermi veracemente.