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Pietro Metastasio
Lettere

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CXXV

 

A SAVERIO MATTEI - NAPOLI

 

Vienna 9 luglio 1770.

 

Mi giunse nella scorsa settimana il piego di V. S. illustrissima, spedito, non so quando, da Napoli, non essendovi lettera che me ne informi; ma veggo che mi reca quei fogli che avrebbero dovuto accompagnare l'ultima sua precedente.

Ho letto per le nozze della signora marchesina Tanucci il suo, non so s'io mi dica ingegnoso dramma o cantata, essendo questo leggiadro componimento, oltre la colta vivacità dello stile, tutto pieno d'azione che trattiene e seduce il lettore; servendo nel tempo istesso di grand'elogio al suo eroe. Ogni giorno ho nuove convincentissime prove della mirabile estensione de' suoi talenti, e son superbo della giusta idea che da bel principio io n'avea già concepita.

Sommamente mi sono poi dilettato attentamente considerando il musico filosofico carteggio che si è compiaciuta comunicarmi. Ho ammirate ed invidiate le forze e la destrezza di due valorosissimi atleti, che non meno nell'assalire che nello schermirsi mostrano il lor magistero nell'arte. Mi hanno obbligato ad ondeggiar lungo tempo fra le opposte loro sentenze: ciascuna di esse mi avrebbe rapito sola; ma avendomi assalito unite, l'una mi ha difeso dalla violenza dell'altra, onde senza aver cambiato di sito, mi trovo tuttavia fra le istesse antiche dubbiezze. Ciò che ho potuto stabilir di sicuro è solo il fermo proposito di non espormi mai a cimento con campioni così esperti e vigorosi, per non fornire a V. S. illustrissima troppo efficaci motivi di scemare, a riguardo mio, quegli eccessi di parzialità con cui veggo che pensa, parla e scrive di me; parzialità, ch'essendo tutta un gratuito suo dono, non è sufficientemente contraccambiata dalla piena ma dovuta giustizia ch'io pubblicamente le rendo.

Le mie fantastiche congetture su l'antica musica, a lei unicamente per ubbidirla comunicate, non meritano d'esser difese. Ne sono io stesso così poco sicuro, che non prenderei certamente l'armi per sostenerle. Pure parendomi che V. S. illustrissima creda ch'io sia caduto in contraddizione nell'esporle, vorrei poterle dimostrar almeno, che se ho mancato per avventura di ragione o di chiarezza, non ho perciò violati i canoni della dialettica. Dopo aver asserita l'enorme instabilità de' gusti, ho supposto, è verissimo, una costante semplicità nella musica antica, paragonata alla nostra; e non ho distinto i diversi tempi che possono essere compresi nel nome d'antichità. In primo luogo confesso non essermi caduto in mente che la varietà de' gusti contraddicesse punto alla costanza della semplicità, potendo ottimamente andar variando quelli senza cambiamento di questa. Le espressioni, per cagion d'esempio, semplice e molle, semplice ed aspro, semplice ed amoroso, semplice e severo, e così in infinito, non involvono, a parer mio, contraddizione alcuna; poiché di mille infinitamente diverse modificazioni che possono esser oggetto de' gusti, è ottimamente capace una sola medesima costantissima semplicità, nella quale possono quelle trovarsi incluse, come la specie nel genere. Se poi io non ho distinti i diversi tempi dell'antichità è perché gli ho creduti tutti egualmente bisognosi della asserita semplicità; e non essendovi bisogno della categoria de' gusti, non mi è paruto necessario d'attribuire a quelli l'incostanza di questi. Eccole di bel nuovo il mio raziocinio, che mi studierò di render più chiaro. Io ne stabilii per fondamento, come supposto incontrastabile, che il teatro sia l'arbitro della sorte della musica. Nel teatro il popolo l'ascolta, e, imitator per natura, ne ritiene e ne va ripetendo ciò che più l'ha commosso nelle adunanze, ne' conviti, per le pubbliche vie, e tutto se ne riempie in guisa che ne sono finalmente occupati anche i tempii. Questa è verità da noi giornalmente sperimentata: e non l'hanno ignorata né taciuta gli antichi. Ovidio nel terzo libro de' Fasti, descrivendo le diverse allegre occupazioni, con le quali si tratteneva il numeroso popolo romano ne' prati di là del Tevere, nelle feste di Anna Perenna, dice:

 

Illic et cantant quidquid didicere theatris,

et iactant faciles ad sua verba manus.

 

Ora il teatro per tutta l'antichità drammatica ch'io conosco, incominciando dai primi palchi di Eschilo, o s'ella vuole dai plaustri di Tespi coetaneo di Solone fra' Greci, e da Livio Andronico fra' Romani, il teatro, dico, è stato sempre un luogo all'aria aperta, capace d'un popolo spettatore sino alla moderna invenzione delle nostre anguste, coperte e limitatissime sale, che or noi onoriamo del nome di teatri. Queste, a creder mio, han promosso, favorito, e reso possibile il compostissimo sistema della nuova musica tanto dall'antica differente. Poiché l'arte de' suoni, che debbono formarsi nell'aria da noi regolarmente commossa, convien per necessità che si tratti con ragione infinitamente diversa quando la mole che vogliam mettere in moto è più vasta e più circoscritta e leggiera. Chi canta a cielo aperto ad un popolo intero ha bisogno, per farsi sentire, di spinger la sua voce col maggiore sforzo possibile, e cotesto sforzo non è affatto compatibile col nostro portentoso sminuzzamento de' tempi, eseguibile unicamente a mezza voce ed in luogo ristretto. Or, quando il canto è composto di tanto minor numero di parti, è sommamente minore anche il numero delle combinazioni che ne risultano, e per necessaria conseguenza è notabilmente più semplice.

L'argomento poi, o sia indizio di cotesta antica semplicità, da me tratto dall'universalità della scienza musicale a' tempi di Platone, non è sciolto, mio caro signor don Saverio, col contrapposto di quelli che per diletto a' nostri dì la posseggono. Non creda che questi sieno molti, perché molti ne parlano. Basta una picciola dose di teorica per ragionar decentemente d'un'arte; ma il divenire artista è dono privativo della lunga indefessa pratica, maestra di tutto, senza escluderne la virtù medesima, ch'ha dovuto perciò esser definita da' saggi habitus animi rationi consentaneus. Che la pratica della moderna musica sia infinita è pur troppo palese. Per assuefare il petto, le labbra, l'occhio, l'orecchio e le dita a cospirare unitamente con uffizi tanto diversi alla frequente divisione de' quasi impercettibili istanti, bisognano milioni d'atti replicati e l'abbondantissima dose d'un'eroica pazienza. Questo penoso, eterno esercizio occupa comunemente tanto spazio della nostra breve vita, che non ne lascia abbastanza per gli altri che sono necessari a rendersi atto agl'impieghi o militari o civili. E se ve n'ha pure alcuno che sia giunto a vincer così enorme difficoltà, dee contarsi fra quei rari portenti che sono oggetti d'ammirazione, ma non fondamenti di regole.

Or vegga V. S. illustrissima a qual segno m'ha reso loquace la pueril ripugnanza di comparir cattivo logico appresso di lei. Non era questo, a dir vero, un sufficiente motivo onde tanto affannarmi. Se s'incontrano antinomie fra i legislatori, non sarebbe poi finalmente reo d'un misfatto da nascondersi per vergogna, se mai fosse colto in contraddizione un poeta.

L'attenta nostra compositrice mi commette con molta premura di riverirla. Si spedì ella in fretta dal lavoro che avea fra le mani, si applicò senza intervallo alla composizione del nuovo salmo: già non è lontana dalla metà del cammino: e se la felicità con la quale è sin qui proceduta non l'abbandona nel resto, spero che non soffrirà discapito il credito della sua diligenza. La replicata lettura del salmo 41, da V. S. illustrissima primieramente assegnatole, l'affezionò di tal sorte, che non ha poi voluto assolutamente valersi della libertà di cambiarlo. Rispetto alle voci, ella ha creduto necessario di tenere il sistema medesimo che scelse per il Miserere, come più atto ad impiegar l'abilità del compositore ed a diversificare l'uniformità del componimento. Scriverà un paio di strofe col salterio obbligato, ma di modo che, in mancanza di questo stromento, potranno con un violino ottimamente eseguirsi. Addio, mio caro signor don Saverio. Quando non debba esser mistero, non mi lasci ignorare il nome del dotto e savio prelato con cui carteggia.

Io sono intanto, e sarò eternamente.

 

 




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