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Tutti i rimedi erano vani. Il lavoro non mi giovava, non mi consolava; perché era eccessivo, ineguale, disordinato, febrile, interrotto spesso da periodi d'inerzia invincibile, d'abbattimento, d'aridità. Mio fratello ammoniva:
- Non è questa la regola. Tu consumi in una settimana l'energia di sei mesi; poi ti lasci ricadere nell'indolenza; poi di nuovo ti getti alla fatica, senza ritegno. Non è questa la regola. Bisogna che la nostra opera sia calma, concorde, armonica, per essere efficace. Intendi? Bisogna che noi ci prescriviamo un metodo. Ma già tu hai il difetto di tutti i novizii: un eccesso di ardore. Ti calmerai, in seguito.
- Tu non hai ancóra trovato l'equilibrio. Tu non ti senti ancóra sotto i piedi la terra ferma. Non temere di nulla. O prima o poi tu potrai afferrare la tua legge. Questo t'accadrà all'improvviso, inaspettatamente, nel tempo.
Anche diceva:
- Giuliana questa volta, certo, ti darà un erede: Raimondo. Io ho già pensato al patrino. Tuo figlio sarà tenuto a battesimo da Giovanni di Scòrdio. Non potrebbe avere un patrino più degno. Giovanni gli infonderà la bontà e la forza. Quando Raimondo potrà comprendere, noi gli parleremo di questo gran vecchio. E tuo figlio sarà quel che noi non abbiamo potuto e saputo essere.
Egli tornava spesso su l'argomento; nominava spesso Raimondo; augurava che il nascituro incarnasse l'ideal tipo umano da lui meditato, l'Esemplare. Non sapeva che ognuna delle sue parole era per me una fitta e rendeva più acre il mio odio e più violenta la mia disperazione.
Inconsapevoli, tutti congiuravano contro di me, tutti facevano a gara nel ferirmi. Quando mi avvicinavo a qualcuno dei miei, mi sentivo ansioso e pauroso come se fossi costretto a rimanere al fianco d'una persona che, avendo tra le mani armi terribili, non ne conoscesse l'uso e la terribilità. Stavo in continua attesa d'un colpo. Dovevo cercare la solitudine, fuggire lontano da tutti, per avere un po' di tregua; ma nella solitudine mi ritrovavo a faccia a faccia col mio nemico peggiore: con me medesimo.
Mi sentivo segretamente perire; mi pareva di perdere la vita da tutti i pori. Si riproducevano in me talvolta sofferenze appartenute al periodo più oscuro del mio passato omai remotissimo. Non altro conservavo in me talvolta se non il sentimento della mia esistenza isolata tra i fantasmi inerti di tutte le cose. Per lunghe ore non altro sentivo se non la fissità grave, schiacciante, della vita e il piccolo battito di un'arteria nella mia testa.
Poi sopravvenivano le ironie, i sarcasmi contro me stesso, improvvise smanie di demolire e di distruggere, derisioni spietate, malignità feroci, un fermento acre del fecciume più basso. Mi pareva di non saper più che cosa fossero indulgenza, misericordia, tenerezza, bontà. Tutte le buone sorgenti interiori si chiudevano, s'inaridivano, come fonti colpite di maledizione. E allora in Giuliana non vedevo più se non il fatto brutale, il ventre gonfio, l'effetto dell'escrezione d'un altro maschio; non vedevo in me se non il ridicolo, il marito gabbato, lo stupido eroe sentimentale d'un cattivo romanzo. Il sarcasmo interiore non risparmiava nessuno dei miei atti, nessuno degli atti di Giuliana. Il dramma si mutava per me in una comedia amara e beffarda. Nulla più mi riteneva; tutti i legami si spezzavano; avveniva un distacco violento. E io pensavo: «Perché rimaner qui a recitare questa parte odiosa? Me ne andrò, tornerò al mondo, alla vita di prima, alla licenza. Mi stordirò, mi perderò. Che importa? Non voglio essere se non quel che sono: fango nel fango. Puah!».