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Quando dunque Don Giovanni Ussorio, dopo aver saputo da Rosa Catana la partenza di Violetta Kutufà, rientrò nella casa vedovile e sentì il suo pappagallo modulare l'aria della farfalla e dell'ape, fu preso da un nuovo e più profondo sgomento.
Nell'andito, tutto candido, entrava una zona di sole. A traverso il cancello di ferro si vedeva il giardino tranquillo, pieno di eliotropii. Un servo dormiva sopra una stuoia, co 'l cappello di paglia su la faccia.
Don Giovanni non risvegliò il servo. Salì con fatica le scale, tenendo gli occhi fissi ai gradini, soffermandosi, mormorando:
- Oh, che cosa! Oh, oh, che cosa!
Giunto alla sua stanza, si gettò sul letto, con la bocca contro i guanciali; e ricominciò a singhiozzare. Poi si sollevò. Il silenzio era grande. Gli alberi del giardino, alti sino alla finestra, ondeggiavano appena, nella quiete dell'ora. Nulla di straordinario avevano le cose in torno. Egli quasi n'ebbe meraviglia.
Si mise a pensare. Stette lungo tempo a rammentarsi le attitudini, i gesti, le parole, i minimi cenni della fuggitiva. La forma di lei gli appariva chiara, come se fosse presente. Ad ogni ricordo, il dolore cresceva; fino a che una specie di ebetudine gli occupò il cervello.
Egli rimase a sedere sul letto, quasi immobile, con gli occhi rossi, con le tempie tutte annerite dalla tintura dei capelli mista al sudore, con la faccia solcata da rughe diventate più profonde all'improvviso, invecchiato di dieci anni in un'ora; ridevole e miserevole.
Venne Don Grisostomo Troilo, che aveva saputo la novella; ed entrò. Era un uomo d'età, di piccola statura, con una faccia rotonda e gonfia, d'onde uscivan fuori due baffi acuti e sottili, bene incerati, simili a due aculei. Disse:
Don Giovanni non rispose; ma scosse le spalle come per rifiutare ogni conforto. Don Crisostomo allora si mise a riprenderlo amorevolmente, con unzione, senza parlare di Violetta Kutufà.
Sopraggiunse Don Cirillo d'Amelio con Don Nereo Pica. Tutt'e due, entrando, avevano quasi un'aria trionfante.
- Hai visto? Hai visto? Giovà? Noi lo dicevaaamo! Noi lo dicevaaamo!
Essi avevano ambedue una voce nasale e una cadenza acquistata nella consuetudine del cantare su l'organo, poiché appartenevano alla Congregazione del Santissimo Sacramento. Cominciarono a imperversare contro Violetta, senza misericordia. « Ella faceva questo, questo e quest'altro. »
Don Giovanni, straziato, tentava di tanto in tanto un gesto per interrompere, per non udire quelle vergogne. Ma i due seguitavano. Sopraggiunsero anche Don Pasquale Virgilio, Don Pompeo Nervi, Don Federico Sicoli, Don Tito de Sieri, quasi tutti i parassiti, insieme. Essi, così collegati, diventavano feroci. «Violetta Kutufà s'era data a Tizio, a Caio, a Sempronio... Sicuro! Sicuro! » Esponevano particolarità precise, luoghi precisi.
Ora Don Giovanni ascoltava, con gli occhi accesi, avido di sapere, invaso da una curiosità terribile. Quelle rivelazioni, in vece di disgustarlo, alimentavano in lui la brama. Violetta gli parve più desiderabile, ancóra più bella; ed egli si sentì mordere dentro da una gelosia furiosa che si confondeva col dolore. Subitamente, la donna gli apparve nel ricordo arteggiata ad una posa molle. Egli più non la vide se non in quell'atto. Quell'imagine permanente gli dava le vertigini. «Oh Dio! Oh Dio! Oh! Oh! » Egli ricominciò a singhiozzare. I presenti si guardarono in volto e contennero il riso. In verità, il dolore di quell'uomo pingue calvo e deforme aveva una espressione così ridicola che non pareva reale.
- Andatevene ora! - balbettò tra le lacrime Don Giovanni.
Don Grisostomo Troilo diede l'esempio. Gli altri seguirono. E per le scale cicalavano.
Come venne la sera, l'abbandonato si sollevò, a poco a poco. Una voce feminile chiese all'uscio:
Egli riconobbe Rosa Catana e provò d'un tratto una gioia istintiva. Corse ad aprire. Rosa Catana apparve, nella penombra della stanza.
Egli disse:
- Vieni! Vieni!
La fece sedere accanto a sé, la fece parlare, l'interrogò in mille modi. Gli pareva di soffrir meno, ascoltando quella voce familiare in cui egli per illusione trovava qualche cosa della voce di Violetta. Le prese le mani.
Le accarezzò le mani ruvide, chiudendo gli occhi, co 'l cervello un po' svanito, pensando all'abbondante capellatura disciolta che quelle mani avevano tante volte toccata. Rosa, da prima, non comprendeva; credeva a qualche subitaneo desiderio di Don Giovanni, e ritirava le mani mollemente, dicendo qualche parola ambigua, ridendo. Ma Don Giovanni mormorò:
- No, no!... Zitta! Tu la pettinavi; è vero? Tu la mettevi nel bagno; è vero?
Egli si mise a baciare le mani di Rosa, quelle mani che pettinavano, che lavavano, che vestivano Violetta. Tartagliava, baciandole; faceva versi così strani che Rosa a fatica poteva ritenere le risa. Ma ella finalmente comprese; e da femmina accorta, sforzandosi di rimanere in serietà, calcolò tutti i vantaggi ch'ella avrebbe potuto trarre dalla melensa commedia di Don Giovanni. E fu docile; si lasciò accarezzare; si lasciò chiamare Violetta; si servì di tutta l'esperienza acquistata guardando dal buco della chiave ed origliando tante volte all'uscio della padrona; cercò anche di rendere la voce più dolce.
Nella stanza ci si vedeva appena. Dalla finestra aperta entrava un chiarore roseo; e gli alberi del giardino, quasi neri, stormivano. Dai pantani dell'Arsenale giungeva il gracidare lungo delle rane. Il romorìo delle strade cittadine era indistinto.
Don Giovanni attirò la donna su le sue ginocchia; e, tutto smarrito, come se avesse bevuto qualche liquore troppo ardente, balbettava mille leziosaggini puerili, pargoleggiava, senza fine, accostando la sua faccia a quella di lei.
- Violettuccia bella! Cocò mio! Non te ne vai, Cocò!... Se te ne vai, Ninì tuo muore. Povero Ninì!... Baubaubaubauuu!
E seguitava ancóra, stupidamente, come faceva prima con la cantatrice. E Rosa Catana, paziente, gli rendeva le piccole carezze, come a un bambino malaticcio e viziato; gli prendeva la testa e se la teneva contro la spalla; gli baciava gli occhi gonfi e lagrimanti; gli palpava il cranio calvo; gli ravviava i capelli untuosi.