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FORSE CHE SÌ FORSE CHE NO Libro terzo | «» |
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- Che orrore! Che orrore! - disse Orietta Malispini ritraendo graziosamente la sua bocca piccola rotonda e rossa come una corbezzola dietro il gran mazzo di mammole doppie ch'ella portava appuntato molto in alto, a sinistra del collo, contro la gola, quasi grande come la sua faccia. - Io non ho dormito tutta la notte.
- Ah, io confesso che mi piacerebbe d'essere amata così - disse Adimara Adimari, con un lungo brivido che parve correre anche su per la sua giacca di chinchilla tanto squisitamente accordata alle due perle grige e tiepide del suo sguardo.
- Compresa la catastrofe? - chiese Dorothy Hamilton, con quell'accento strambo che dava qualcosa di buffo a ogni sua parola, accavalciando una gamba su l'altra mascolinamente e scotendo la cenere della sua sigaretta di tabacco bruno.
- La catastrofe ma con salvazione.
- Con Salvatore... Serra di Lubriano, dei Lancieri di Novara.
- Dolly, sei insopportabile.
- Io son certa che se Driade potesse risuscitare dalle sue ceneri si metterebbe a riamare disperatamente il suo assassino - disse Novella Aldobrandeschi senza cessare di toccar sé stessa con quei suoi gesti carezzevoli, ora strisciandosi il manicotto di martora sotto il mento, ora premendosi su le labbra qualcuno degli amuleti che portava in fascio appesi alla lunga catena, ora lisciandosi con le dita il ginocchio che tondeggiava sotto il velluto della gonna color tanè come i suoi caldissimi occhi. - Non ho ragione, Vana?
- Ma non so di chi parli - disse Vana Lunati, che s'era scossa udendo il suo nome.
- Tu caschi sempre dalle nuvole, Vanina - fece Simonetta Cesi ridendo con quella sua larga bocca dagli angoli rilevati, che all'ombra della capellatura fulva e indocile l'assomigliava a una faunella coronata di pino.
- Passione nascosta. Tutti i segni.
- Per chi? per chi?
- Passione non corrisposta. Ahi! Ahi!
- Come quella del pastore di Fondi?
- Non vedete che è diventata uno stecco?
- Con nessuna di voi si confida?
- Con me no.
- E neppure con me.
- Con me, niente.
- E con me, niente affatto.
- Quanto siete sciocche! - disse Vana con un riso impaziente. - Non sono stata sempre così?
Tutto era odio e oltranza e constrizione, dentro di lei. Ella era là, seduta nella poltrona bassa, accanto alla sua tazza di tè, accanto alle paste e alle confetture che l'ospite le aveva accumulate sopra un deschetto, nella fragranza dei fiori sparsi per ovunque, nel tepore blando, nel suo grazioso abito di casimir nero a cui un poco d'oro un poco di blu e una striscia sottile di zibellino davano un'impronta che rivelava il gusto d'Isabella Inghirami; ma la sua anima nascosta non respirava se non nel più arido orrore. Turbini di forza nascevano dentro di lei, roteavano, si dissolvevano. Una certezza le sovrastava evidente come le cose che vedeva, come le cose che poteva toccare. «Dunque, è vero. Non c'è dubbio. È vero, è proprio vero» ripeteva dentro di sé con la continuità di chi nel primo urto della sciagura spera tuttavia che una voce risponda: «No, non è vero. Hai sognato. Rientra in te». Ed ella medesima, infatti, si sforzava di sfuggire a quella certezza; piegava la sua attenzione verso le lievi amiche, verso la futilità della vita; beveva un sorso di tè, sorrideva a Simonetta; imaginava di essere come una di loro, contenta del suo bel vestito, occupata specialmente nell'attesa del gran ballo ch'era per dare Ortensia Serristori, con un peccato di gola per i pistacchi tostati e salati, con un fidanzato molto ricco o con un amoretto molto dispettoso. E pensava: «Come siete felici, come siete felici! Ci vuole così poco per essere felice! Se io ora potessi levarmi quest'orribile male, se potessi prendere una cartina di qualche cosa come quando ho l'emicrania e liberarmene, se potessi scrollare da me quest'incubo, sarei felice anch'io. Stasera canterei, domani ballerei. Ridiventerei bella come nella miniatura persiana. Proprio stamani ho ricevuto un vestito da ballo, delizioso. Volete che ve lo descriva, per farvi un poco di rabbia? Mia sorella non è stata mai tanto generosa con me...» Irresistibile come la frana, una massa compatta di dolore si rovesciava sopra i suoi pensieri incoerenti, schiacciava tutto, seppelliva tutto. Una volontà disperata di nuocere vi risorgeva per entro, accompagnata da un balenio d'imagini violente. «Ah no, no, non posso tacere! Accada qualunque cosa, bisogna che io gli dica tutto, bisogna ch'egli sappia l'infamia. E se li uccide?» Ella volgeva su le amiche quegli occhi subitamente sbarrati che le faceva ridere o maravigliare. Era tutta chiara e gaia in quel pomeriggio di marzo la stanza ove Simonetta Cesi le aveva radunate a prendere il tè per la festa del suo nome. Era parata con quelle tappezzerie d'Olanda, in velluto di lino, ove l'arte di Agata Wegerif imita la varietà dei marmi venati e vergolati come i broccatelli i cipollini i pavonazzetti, e sopra vi compone con le vecchie figure geometriche novissimi ritmi di fregi. Ovunque, su i mobili di lacca precisi e nervuti, le rose i garofani i giacinti le orchidee sorgevano da snelli vasi di maiolica ricchi di colature intense come smalti. E, in quell'acuta armonia moderna, le piccole sfingi nubili avevano una grazia di gatte che sieno per diventare tigri, una dolcezza di giovini fiere pronte a ruzzare e a graffiare, una golosità di tutto nelle bocche zuccherine che parlavano della passione selvaggia.
- Non conosci dunque il fatto di Fondi, Vana? - insistette Novella Aldobrandeschi, curiosa di scoprire il sentimento della sua amica olivastra su quella vendetta d'amore che eccitava il suo vecchissimo sangue maremmano. - No?
- Racconta, racconta! - fece Orietta, piegando la gota su le sue mammole intiepidite e disponendosi alla delizia di sbigottirsi un'altra volta, quasi con due facce gemelle, con una di carne e una di fiori.
- Ah, le parole di lui! - fece l'Adimari in rapimento. - «Se mi schiacci le ossa dentro ci trovi te sola; se mi tagli le vene, te sola; se mi spacchi il cervello, te sola; se mi apri il cuore, te, te sola, sempre te, in tutto me, a vita e a morte!»
- Mi maraviglio che ragazze «per bene» stieno a sentire di queste enormità nefande! - disse Dolly hamilton imitando la smorfia e il tono d'un catone da circo equestre, mentre soffiava il fumo dal suo nasino volto all'in su. - Volete voi perdere diffinitivamente il vostro «reputation»?
Ella pronunziò l'ultima parola, nella sua lingua, con una buffoneria così seria che le altre non poterono trattenersi dal ridere.
- Simonetta, - gridò Novella irritata - mandala via, che vada a pattinare.
Dolly tracannò d'un fiato una tazza di tè già fredda e mise un'altra sigaretta nel bocchino d'ambra, imperturbabile.
- Che fondo di tragedia è Fondi! - disse Bianca Nerli. - Mio padre ci fu quando cacciava nelle Paludi Pontine. Un piano di fossi e di macchie pantanose, un lago morticcio, una città bassa con due cinte di muraglie, la miseria e la febbre alle porte...
- Il pastore feroce aveva ventidue anni - disse Novella. - La vittima ne aveva ventuno. Si chiamava Driade di Sarro.
- Era bellissima e intrepida.
- Imagina che, dopo il primo tentativo di ratto, si provvide d'una rivoltella, e si esercitava contro i tronchi delle roveri.
- Non passava giorno ch'egli non la perseguitasse e non la minacciasse.
- Era un ossesso d'amore. Si faceva esorcizzare dagli stregoni. Beveva filtri d'erbe, che non lo guarivano. Chiara t'ha ripetuto le parole del suo male. Perduta ogni speranza, non potendo più vivere, egli pensò a vendicarsi.
- L'altra sera, la Driade con una sorellina di undici anni, con un piccolo cugino di tredici e con la zia ottantenne, dormiva in una capanna del suo campo, distante da Fondi alcune miglia. Era tardi quando arrivò a cavallo un fratello di lei, un giovinetto, che scorse un'ombra presso la porta e riconobbe il pastore. Questi gli tirò due colpi di fucile per freddarlo: il primo andò a vuoto, il secondo uccise il cane.
- Imagina ch'egli aveva assicurata la porta di fuori con funi e con traverse, perché di dentro non si potesse aprire; e la capanna, fatta di fascine e di falasco, non aveva se non quell'apertura, poco più larga d'una feritoia.
- Il fratello illeso fuggì di galoppo per andare a chiamare in aiuto certi suoi parenti che dormivano in un'altra capanna distante due miglia.
- Allora il pastore nella notte chiamò a gran voce l'amata. «Driade, svegliati! Sono io. Fuoco per fuoco!»
- E appiccò il fuoco ai quattro lati della capanna.
- Fu un attimo, tutto arse, tutto fu una sola vampa.
- Si mise a cantare una canzone d'amore, una disperata, e a saltare intorno al rogo ardente, mentre veniva per la macchia troppo tardi il soccorso.
- Tra il pianto dei bambini e il rantolo della vecchia, riconosceva il grido della giovine contro la porta sbarrata; e rispondeva col canto.
- Poi cantò al rugghio delle fiamme, perché nessuno più pianse, nessuno più gridò. Le quattro vittime caddero ai piedi della porta e ci restarono, a incarbornirsi, in un mucchio.
Vana aveva piegato il viso fin sul braccio convulsamente. Le narratrici eccitate e inorridite si protendevano verso di lei, un poco anelanti nella gara dell'atrocità, con gli occhi lustri, con le gote accese in sommo come dal riflesso dell'incendio; ma Dolly tendeva il capo commiserandole dai suoi occhi beffardi, lunghi e stretti come quelli che guardano di dietro le fessure della bautta.
- All'alba le ossa calcinate furono raccolte tra la cenere e avvolte in un pannolino, poi furono trasportate a Fondi, per la macchia, dalla scorta.
- A mezza macchia, il pastore si fece innanzi solo, con la sua doppietta, e intimò che il fardello gli fosse consegnato.
- Ah, sono certa, sono certa che avrebbe riconosciuto, che avrebbe sentito nel mucchio le ossa della sua Driade!
- Gli furono puntate al petto le canne delle carabine.
- Allora si gettò sul giumento che portava la soma, funebre, riuscì ad abbrancarla; e, senza una parola né un grido, stramazzò su quella crivellato dal piombo, su quella spirò, restò.
Le fanciulle palpitavano, a quell'apparizione ferina dell'amore implacabile, come un roseto all'annunzio dell'uragano, inconsapevoli del loro mistero che portava in sé tutte le sorti. Ciascuna credeva sentire su la sua morbidezza una mano cruda, ciascuna era una preda e una vittima. E palpitavano, offerte alla passione che doveva devastarle.
Vana disse, alzandosi, con un viso di morta:
- C'è un'aria che soffoca, qui. Apri una finestra, Simonetta.
L'odore più acuto era quello dei rami di lilla bianchi. Per la finestra aperta apparve un cielo di primavera, verde come l'acquamarina, sparso di bioccoli rosei.
- Son tornate le rondini! - gridò Simonetta.
- Le vedi?
- N'è passato un branchetto.
Tutte accorsero, col fremito della primavera nel cuore turbato. Si sporsero dal davanzale, urtando fra loro le falde e le piume dei cappelli.
- Io non vedo nulla.
Era un tempo umido e dolco. Il calore s'esalava dalle gote accese. Ciascuna sentiva a traverso la gonna le gambe dell'altra.
- La luna nuova! - gridò Orietta Malispini, come se avesse scoperto un miracolo. - È a sinistra. Fortuna a tutte!
- Dov'è? dov'è?
Si scorgeva appena nel cielo verdino, tanto era esigua, simile a un'armilla spezzata.
- Ecco le rondini! - gridò Simonetta. Ripassano. Attente!
Allora, spinta dall'onda terribile del suo cuore, anche Vana si sporse insinuando tra quei corpi freschi e sani la sua magrezza cocente, le sue ossa bruciate nelle midolle, come un fastello di stipa tra floridi rami di mandorlo.
- Le vedo, le vedo - disse Adimara.
Portavano a loro il messaggio d'oltremare, il messaggio del principe di terra lontana, un'allegrezza affannosa, una nuova avidità di vivere. Ma per Vana erano come le saette incarnite nella piaga, che a un tratto si e no rimosse; erano come un rincrudimento di supplizio. Per lei non venivano d'oltremare ma dagli stagni di Mantova, dalle crete di Volterra, dal fondo della sua stessa febbre, della sua stessa abominazione. Nessuna melodia poteva sconvolgerla a dentro come quel piccolo strido fuggente. Falde di vita si distaccavano dal passato e le rotolavano su l'anima enormi come valanghe. Ella era quella medesima che, addossata allo stipo della estense, con la testa appoggiata alle tarsie, aveva sentito il saettamento del volo trafiggerla da tempia a tempia e straziare il cielo che s'invergiliava bianco. «O rondine, sorella rondine, come può esser pieno di primavera il tuo cuore? Il tuo è leggero come la foglia appena nata, il mio è in me come un tizzo consunto... Dove tu voli non ti seguirò, finché tu ti rammenti, finché io non mi scordi!» Le parole del poeta ritornavano.
E, come se anche un accento della vita lontana con le parole e con le rondini ritornasse, Orietta pregò cingendole la cintura col braccio e accostandola al suo viso di mammole:
- Vanina, Vanina, perché non ci canti una canzone, prima che ce ne andiamo?
Ella scoteva il capo, lasciandosi sorreggere.
- Una cosa sola!
- T'accompagna Novella.
- Perché tuo fratello non è venuto?
- Aveva promesso di venire.
- S'è fatto preziosissimo il bell'Aldo.
- Una sola cosa!
- Un piccolo lied di Schumann.
- Frühlingslied, Vanina.
- Frühlingslust, Vanina.
- Frühlingsgruss, Vanina.
- Frühlingsfahrt, Vanina.
Ella si lasciava sorreggere e sospingere da tutte quelle mani carezzevoli e supplichevoli verso il pianoforte. Tutte quelle bocche di vergini, forse già baciate, forse non baciate ancora, le facevano intorno una specie di litania primaverile ripetendo il suo dolce nome accanto alla parola barbarica. Come la voglia di ruzzare era sempre pronta a svegliarsi, la litania divenne un coro bizzarro appoggiato sul frullo della prima sillaba.
- Frühlingsnacht, Vanina.
Ella si lasciava cullare e biandire con un'aria di bambina malata e pietosa di sé, che a un tratto le ammollì il viso olivastro. Pareva dicesse: «Tenetemi così, non mi lasciate più andare, cullatemi finché questo male non mi lasci, finché io non ridivenga fresca come voi, finché io non vi rassomigli!»
Esse ora si agitavano, intorno alla lunga coda del pianoforte di lacca bianca su cui erano dipinti leggeri festoni di edera legati con nodi d'oro. Sfogliavano i quaderni delle canzoni, cercavano.
- Questa.
- No, questa.
- Questa è più appassionata.
- Questa è più triste.
- Oh, questa quanto mi piace!
- Non ho voce oggi - diceva la cantatrice, con un languore compiacente, mentre le dita di Novella scorrevano su la tastiera intente a legare ad annodare le note con la stessa grazia ond'ella usava in continui gesti toccare sé stessa.
Tutte tacquero, percorse da un lieve fremito, quando videro disegnarsi in lei l'attitudine nota, quando la videro intessere le mani dietro il dorso, portare il peso del corpo su la gamba destra, avanzare un poco la sinistra, piegare appena il ginocchio, sollevare lo scarno viso da cui il canto sembrava erompere come la polla che balza più in alto quanto più è costretta. «Ueber'm Garten...»
Fievoli furono le prime note, come un'esca che con pena s'accenda. Poi subitamente la voce divampò, tutto il petto ne arse. Il canto fu come la sonorità stessa dell'anima palesata fuori della bocca dolorosa. Ella cantava come se cantasse per l'ultima volta, come se si accomiatasse da quella corona di giovinezze e dalla sua propria giovinezza abbrancata dal destino. Cantava come la martire prima del supplizio, come quella a cui l'aveva assomigliata il fratello, prima d'esser legata alla ruota lacerante. Diceva addio alle sue eguali, addio alla dolce vita, addio alla primavera ricondotta nel cielo dalle rondini. Diceva: «Vedete come sono! Sono come voi, sono giovinetta come voi: quando eravate nella vostra culla, anch'io ero nella mia. Mia madre era dolce per me. Siamo cresciute insieme, abbiamo mescolato i nostri giuochi, i nostri gridi, le nostre risa, anche i nostri pianti. Vedete com'è puro il bianco dei miei occhi, come i capelli son fitti intorno alla mia fronte, su la mia nuca. Una purità era in me, una forza era in me, tutt'e due grandi. Questa voce era in me per cantare alla vita la mia melodia. Vedete come sono. Intatta. Nessuno mi ha toccata ancora, nessuno mi ha baciata. Non ho avuta la mia parte né d'amore né di gioia. Quando m'inginocchiavo davanti a Lunella per chiederle una delle sue imagini bianche, mi sentivo simile a lei. E una cosa orribile fu svelata a me che non ero se non una creatura ignara e inoffensiva. Qualcuno m'ha afferrata per i capelli, e mi ha sbattuta, e mi ha costretta a guardare quel che non si può guardare senza perdere le palpebre, senza che gli occhi rimangano nudi per sempre. Vedete come sono. Sono come voi, e non saprete mai tutte insieme, se vivrete cent'anni, tante cose quante io ne ho sapute in un giorno, in una notte, in un'ora, in un attimo. Uno sguardo mi ha maturata, una parola mi ha invecchiata, un silenzio mi ha fatta decrepita. Non sono più buona a vivere. Quando scenderò le scale, non saprò dove andrò, quel che farò. Vorrei cantare così forte che la grande vena mi scoppiasse e io cadessi tra le vostre braccia e fossi portata da voi là sopra il letto bianco di Simonetta, e ricoperta di questi fiori; perché c'è un male in me, che non mi perdona, e non so quel che io farò ma so che non potrò fare se non qualcosa di male. Non mi lasciate al mio demonio! Perché, perché m'avete raccontata la vendetta del pastore? Come l'invidio! Non soffre più. Non ha lasciato nulla del suo amore e del suo furore in terra, null'altro che un po' di cenere. Non soffre più. È in pace. Vedete come sono. E forse io canto come lui per l'ultima volta, intorno a un fuoco spaventoso. Ah, non mi lasciate uscire di qui, non mi lasciate tornare in quella casa, dove tutto brucia tutto avvelena tutto macchia! Tenetemi con voi, tra queste cose bianche. Credevo che non ce ne fossero più, nel mondo. Circondatemi come dianzi, serratemi in mezzo a voi, rifatemi quale ero, fate che io non sappia quello che so, toglietemi dall'orrore! Se mi lasciate andare, non mi vedrete più. Se me ne vado, qualcosa di male accadrà. Debbo dirvi addio? Vi do questo canto come il commiato? Ah, e sono come voi tanto giovine, e nessuno m'ha toccata ancora, e avrei potuto essere tanto dolce, tanto fedele; e ho baciato il mio amore una sola volta, ma su la mano, ma nel buio di sotterra...» Altre parole correvano nel suo canto, queste erano dentro di lei, da lei non dette né udite: queste erano il silenzio in cui risonava il suo canto, erano lo spirito delle Pause. E inconsapevolmente le ascoltatrici commosse lo respiravano.
Non più esse chiedevano, non più sceglievano le canzoni. Ella medesima sfogliava con la mano febrile il quaderno sospeso su la tastiera, indicava a Novella la pagina, senza intervallo passava da un grido di amore a un grido di dolore, da un anelito per la vita a una invocazione della morte. Esse tutte s'abbandonavano al rapimento, si protendevano verso la potenza, in attitudini che sembravano palesare il rilievo della loro verità nascosto fino a quel punto dalla grazia fallace. Poggiavano la gota su la palma, il cubito sul ginocchio, annodavano le due mani e le ponevano presso il mento, col gesto di chi supplica, rovesciavano indietro il capo e schiudevano all'aria le labbra come chi ha il petto scavato dall'ambascia. I loro volti erano mutati, come spogli di ciò che li adornava, non ricchi se non di ciò che esprimevano: volti di angeli neutri, sospesi tra l'inquietudine della lor natura incompiuta e la divinazione di tutte le possibilità. Sentivano esse in confuso che quella voce era la voce d'una vita simile alla loro ma giunta con uno sforzo di pena in un cammino ignoto al culmine dell'erta per ove esse salivano e tentata di precipitarsi dalla parte dell'ombra. Sentivano in confuso lo strazio del commiato, alenando nel silenzio delle parole non dette. E quell'oceano amaro che ondeggia in tutte le creature viventi fra culla e tomba e in tutte s'adegua all'altezza del ciglio, lo sentivano presso a traboccare, e lo contenevano.
Ma la cantatrice voltò la pagina con un atto quasi rude; e, come la pagina si rialzava, la calcò sul quaderno col pollice prono. Disse:
- L'ultima.
Un poco si scrollò, marcando le reni: parve più diritta. S'asciugò col fazzoletto la bocca ch'era ardente come quella ove schiuma l'ansia sibillina dei vaticinii. Poi riprese la sua attitudine. S'era fatta l'ombra nella stanza. Le candele del leggio la rischiaravano sotto il mento. Un gran ramo bianco di lilla alzato da un lungo stelo di vetro opalino le sovrastava come il gonfalone della sua primavera. La sua persona pareva la figura inversa dell'arte di Lunella, nera sul bianco della cassa armonica. Tali la videro le eguali, per non più dimenticarla.
E l'ultima canzone fu la più breve: una melodia composta su le piccole parole d'un grande dolore, larga e grave come un corale; la cui brevità pareva prolungarsi in una infinita eco. «Anfangs wollt' ich fast verzagen...»
«Ah, ma solamente non mi domandate come, non mi domandate come!» diceva anche il silenzio delle Pause.
Tutte erano fise in lei. Ed ella, che sino a quel punto aveva fisato il suo demonio, le guardò; a una a una le guardò, lasciò impressa in ciascuna la sua imagine. E un lieve tremito salì nella sua voce. «Aber fragt mich nur nicht wie...»
Allora il pianto traboccò all'improvviso perché il pianto era già all'altezza del ciglio. Fu Adimara quella che prima pianse; e la seconda fu Simonetta; e le altre subito s'abbandonarono. E l'ultima nota restò nella gola formata dal groppo, perché un singhiozzo soffocato aveva rotto il silenzio delle lacrime. E tutte allora si levarono e s'appressarono a Vana, e la strinsero, e piansero sopra di lei; e non sapevano perché piangessero.
- Vanina, Vanina, perché ci fai piangere?
Ella sentì che l'abbandonavano, che il commiato era dato, che ciascuna aveva le sue forze e le sue sorti, che laggiù c'era una scala da scendere, poi c'era la strada la casa la notte ignota.
- Perfino tu, Dolly! - fece Orietta Malispini asciugandosi la gota presso quell'altro suo viso di mammole già affloscite.
- Oh, io no! - disse Dorothy Hamilton voltandosi per accendere una sigaretta a una candela del leggio ove la pagina dell'ultima canzone portava il segno del pollice che l'aveva calcata. - È tardi, vergini folli, è tardi. E certo io sarò tanto picchiata che il mio naso diventerà camuso o aquilino, con grande rammarico del mio fiebile Willie Willow. Dovevo scortare a pranzo le famose spalle della genitrice, dagli Aieta!
- E io in Casa Rucellai per le otto! - disse Novella Aldobrandeschi riprendendo i guanti e il manicotto frettolosa.
E ciascuna allora si ricordò della sua sera.
- Grazie ancora dei tuoi giacinti, Mara. Grazie delle tue orchidee, Novella.
- Io ho giù la mia Fräulein che m'aspetta in vettura dalle sei!
Si baciavano, si scontravano urtandosi con le falde dei cappelli o ritraevano vivamente le mani per non incrociarle; e ridevano, con le ciglia ancora umide.
- Addio, Simonetta - disse anche Vana all'ospite abbracciandola.
La fulva faunella coronata di pino ruppe un rametto di lilla, lo mise nella mano della cantatrice e su la mano posò le labbra, con una gentilezza infantile.
- Baciami Isa; e sgridami Aldo.
Giù per le scale, Adimara tenne il braccio di Vana che portava il rametto. Sul lastrico umido i cavalli delle carozze scalpitavano, gli sportelli sbattevano chiudendosi; sonavano gli ultimi saluti. E tutta quella giovinezza inquieta si sparpagliò per vie diverse, nella sera di marzo che anch'essa piangeva di gocciole e rideva di stelle.
- Vana! Sei tu?
Ella sobbalzò, pel corridoio scuro. Era la voce d'Isabella che l'aveva udita passare nell'aprir l'uscio della stanza. Entrambe ora nel sorvegliarsi avevano acquistata una strana acuità. A vicenda, prima di udire, prima di vedere, si sentivano.
- Esco.
- No.
- La prenderò io.
Dall'interno della stanza la voce del fratello disse:
- Morìccica, ho incontrato Adimara stamani. Ho saputo che ieri la festa delle compiute donzelle andò a finire in lacrime. Cantasti, sembra, con la più straziante soavità.
Ella contrasse i muscoli del sorriso, apparendo su la soglia. Aldo era disteso sul divano. La sensazione d'inesistenza e di lontananza, in cui ella da qualche tempo si smarriva così spesso, le si rinnovò. Le parve che quelle parole in quei modi non appartenessero a quegli che pure le aveva proferite. Ella lo vedeva là, in un'attitudine pigra, ma guardingo, ritenuto, col suo segreto ben chiuso nella sua fronte luminosa. Di lui tuttavia non udiva se non la voce che aveva risonato laggiù, tra il fumo dei bulicami, su la ripa maledetta; di lui non vedeva se non l'aspetto ch'ella gli aveva veduto laggiù, oltrepassata la piccola porta di pietra carica di nera edera, contro il muro diruto dell'abside scoperchiata, sotto la torre mozza, fra le macerie ancor calde del vampo canicolare, in una sera di demenza.
- Parlavamo dello Sciacallo - disse Isabella.
Con quel nome sinistro ella designava la matrigna, la seconda moglie di Curzio Lunati.
- Non lascia mai di darmi fastidio, quando sono qui. Mi pento di esser venuta via da Roma. Passa la sua vita a congiurare contro di noi, da quella cameriera licenziata che è. E tutte le cattiverie che mi fa mio padre sono aizzate da lei.
Vana non udiva se non a intervalli, come a traverso una porta che si aprisse e si richiudesse di continuo. La sorella camminava su e giù per la stanza discorrendo. E ogni movimento di lei la urtava nel fianco, la urtava nel petto, la urtava nel mezzo del viso come il pugno brutale d'un avversario accanito.
- Sai? - disse quella soffermandosi e guardandola, con qualcosa di falso e d'ambiguo e di sforzato nelle labbra e nello sguardo. - Sai l'ultima? Mi rimproverano che io ti permetta di uscire sola!
- Ah! - fece Vana; e non poté parlare, soffocata dall'odio, dubitando della verità di quel biasimo, giudicandolo un assaggio scaltro, presentendo un tentativo insidioso.
L'altra parve divinare l'insurrezione ostile, perché soggiunse:
- Naturalmente, ne ho riso.
E ricominciò a camminare su e giù per la stanza con quel passo ondeggiante, con quel gioco dei ginocchi, con quella maniera di soppesare il suo corpo su i suoi malleoli come uno che soppesi nella mano una cosa d'inestimabile pregio e ve la ponga sotto gli occhi ostinatamente per forzarvi a una perpetua maraviglia, a una perpetua cupidigia. Lo sguardo del fratello seguiva ogni movenza, di sotto alle palpebre socchiuse nell'occhiaia turchiniccia e cava.
- Vado - disse Vana voltandosi verso l'uscio, non sostenendo l'orrore delle visioni. - Sono aspettata.
Uscì come di fuga. Di fuga traversò il corridoio, l'anticamera; scese la scala, per l'androne si trovò all'aria aperta, sul lastrico. Respirò come per sentire che i suoi polmoni erano ancora dentro le sue costole, che la sua vita le apparteneva ancora. Andò diritta innanzi a sé, provando sotto i suoi tacchi la via dura, con la fronte corrugata quasi a serrare fra ciglio e ciglio la sua volontà angusta e aguzza, piantata là come un cuneo. Non guardava né a destra né a manca, ma costantemente innanzi a sé, cercando di non vedere i passanti, risoluta a non arrestarsi anche se l'avversità del caso la portasse all'incontro d'una persona familiare. Né guardava dentro di sé; perché voleva sfuggire alla riflessione, all'esitazione, all'abominazione del suo atto. Pensava soltanto: «Mi aspetta. È l'ora. Debbo andare. Vado». Riconobbe l'imboccatura della via. L'odore delle roselline, che imbiancavano i cancelli d'un giardino, le fece mancare il cuore. Sentì sopra di sé il pianto che avevano pianto, le sue eguali. «Chi m'ha fatta così? chi m'ha fatta così?»
La porta era là. Si volse, gittò un'occhiata da un capo all'altro della via ch'era quasi deserta. Entrò.
Paolo Tarsis l'aspettava. La condusse in una larga stanza, scura di legni e di cuoi, dove il fuoco ardeva in un caminetto rivestito di rame rosso. Egli non dissimulava la sua ansietà.
- Che accade? - le chiese, prima ch'ella si sedesse, prima ch'ella sollevasse il suo velo.
Allora ella si sentì perduta. Tutto il coraggio le si dilegnò, il cuneo della volontà cadde come una forcina poteva caderle dai capelli, come una cosa da nulla. Di tutta la sua forza non le rimase se non un orribile tremolio nello stomaco vuoto e un'amarezza intollerabile nella bocca.
- Datemi da bere - ella disse.
- Tè?
- No, acqua.
Strane imagini le balenavano, strani ricordi; e la prendeva una smania bizzarra di divagare, di dire cose incoerenti e inattese. Ripensava a quel ch'egli aveva detto un giorno del cibo agglomerato nel gozzo dell'avvoltoio, che il rapace vomita quando è assalito dal nemico, prima di spiccare il volo. Perché ci ripensava? Guardò intorno smarritamente. Vide su le pareti stampe e disegni che rappresentavano la struttura dei volatori di grande specie. Riconobbe sopra una tavola ingombra di libri e di carte il ritratto di Giulio Cambiaso in una cornice d'ebano. S'appressò, si chinò a guardare, col petto in tumulto. Nell'effigie muta e immobile sotto il cristallo, vide dischiudersi il sorriso su i piccoli denti di fanciullo. «S'egli ora fosse vivo, la mia sorte sarebbe diversa?»
- Forse egli mi manda - disse, e subito si pentì d'aver detto.
Guardò rapidamente Paolo e vide con terrore che egli era già convulso nell'aspettazione.
- Qualcuno m'avrà veduta entrare? - disse ella, avvicinandosi a una finestra, con un accento singolare di donna prudente, come se quello fosse un colloquio d'amore colpevole.
- No, non temete. Di rado passa qualcuno per qui.
- E se Isabella m'avesse seguita o m'avesse fatta seguire?
- Non pensate a questo.
- Ma non potrebbe arrivare qui all'improvviso?
- Non potrebbe.
- Perché? Oggi non dovete vederla?
- Sì, debbo vederla, più tardi.
- Qui?
- Ma perché mi domandate questo, Vana?
- Che avete oggi? Non siete buona.
- Non sono buona. Non sono venuta qui per essere buona.
- Ma sedete, ma parlate dunque!
- Voglio andar via. Lasciatemi andare. Non dirò nulla.
Per la prima volta egli la vedeva di contro a sé così aspra e selvaggia. Ella aveva parlato come in uno scoppio d'ira. Il viso di lei era come il viso della creatura che del suo cuore ha fatto una selce da scagliare in faccia al destino.
- Per questo egli vi manda? - disse Paolo dominando la sua impazienza spasimosa.
- Chi, egli?
Lo sguardo di lui segnò l'imagine del compagno solo nella custodia di lutto.
- Ah, la fidanzata - proruppe ella con una voce che era stridula come un'irrisione maligna - la fidanzata dell'Ombra! Non sono se non quella, per voi. Ogni volta che vi vedo, ogni volta che vi parlo, sempre sono quella? M'avete esclusa dalla vita, m'avete messa a fianco del morto che v'è caro, avete posto una pietra anche sopra di me che pure ero viva, avevo un'anima, avevo una forza e una purità e un orgoglio da portare su qualche cima. M'avete esclusa dalla vita di sangue e di luce, per non lasciarmi vivere se non nel silenzio funebre... Ah, mi ricordo, mi ricordo delle vostre parole là su la strada di Volterra; mi ricordo come m'avete discostata da voi, con quanta dolcezza. Desideraste che io divenissi un sorriso, che io fossi la memoria immobile di un sorriso... Forse diventerò, forse sarò; già sono. Già riesco a simulare un sorriso che vidi scolpito in un sasso che un giorno era stato un uomo, laggiù, alla badia, su le Balze, la sera in cui il mio male era più grande della voragine. Dianzi ho sorriso così davanti a mia sorella, a mio fratello... Mi avete esclusa, mi avete sepolta, e la vita si vendica su me, su voi, su quella che vi tiene, su tutti i miei carnefici. Tutto è impuro e tutto si corrompe.
Una ribellione indomabile fiammeggiava nello stretto viso senza carne. Ella pose le sue dita intorno al suo collo perché la sua anima la strangolava. Si tolse i lunghi spilli del cappello col gesto violento di chi sguama il pugnale. Si scoprì il capo come già quella sera su l'orlo dell'abisso. Ma ora il fascino della perdizione era ben più letale, e nessuno le impediva di gettarvisi.
- Di che m'accusate? - disse Paolo Tarsis sconvolto dinanzi a quell'energia minacciosa. - Di avervi tenuta alta su l'altare d'una memoria? di avervi serbata in me quale voi stessa voleste essere?
- Non accuso, non accuso. Grido, perché tutte le mie ossa gridano come su la ruota, perché non m'è rimasta se non questa forza di gridare e bisogna che l'esaurisca per annientarmi. Non so perché, dianzi, mi sia venuto in mente quel che una sera diceste dell'avvoltoio che rigetta il suo cibo orribile, quando è assalito, e quando è ferito a morte, e dopo che è spirato anche. L'odore atroce fa impallidire e mancare chiunque gli s'avvicini. Non so perché mi sia venuto in mente questo, non so. Ma io ho tanta ignominia sul cuore, ho tanta abominazione dentro di me, che non posso più reggerla. L'altare! Io su l'altare! Ma chi mai fu profanata, fu bruttata più di me? A Volterra, in un piccolo oratorio di campagna, c'è quell'Imagine che porta i segni delle tre pietre scagliate dal viandante malvagio. Era il mio rifugio, era il luogo del mio voto. Ma dov'è il miracolo? E che cosa può mai l'amore se il mio amore non ha potuto nulla?
- E che mai avrei potuto io? che posso io per voi?
- Che mai, se non m'amate, se amate l'altra? Nulla, certo. Volete ragionare? volete persuadermi che non avete nessuna colpa? Ma io non accuso, e forse neppure comprendo. Ve l'ho detto: mi sfogo, grido. Fate conto d'aver ferito l'avvoltoio e di dover sopportare l'agonia orribile. Non mi ribello contro di voi; finisco come vuole la mia sorte. Tre indugi sono concessi, tre avvertimenti, tre prove, a qualunque scellerato. Dopo la terza volta, la tolleranza ha termine. Questa è la mia terza volta. Tolleratemi ancora. Pensate ancora per un momento che sono viva, che sono una creatura di carne e d'anima, che sono una pena respirante. «Bisogna dar tutto» comanda una parola divina. Io ho dato tutto. Non chiedo nulla in cambio; ma mi sia concesso di testimoniare che ho dato tutto, prima di andarmene. La prima volta, su la brughiera, non parlai del mio amore; piansi soltanto. La seconda volta, su la strada fangosa di Volterra, parlai; e mi fu risposto. Questa è la terza. Invoco forse un diritto? No; la tolleranza che si concede al più miserabile. Tento d'imporvi la mia pena? No. Voi siete estraneo, incolpevole: amate l'altra. Ma, giacché professate il culto delle memorie, umilmente vi domando di ricordarvi che un giorno, un giorno omai troppo remoto, voi veniste incontro al mio amore, voi lo prendeste per la mano e lo avvicinaste a voi... Oh, lo so, lo so: non fu se non un gesto interrotto.
- Chi può rintracciare il valore d'un gesto, d'una parola, d'un silenzio?
- Non accuso. Invoco l'indulgenza, cerco di farmi perdonare l'ostinazione. Tutto può esser dato, qualche volta, per rintracciare il valore d'un gesto, d'una parola, d'un silenzio. Lasciatemi parlare del mio amore!
Ben era viva, uno stretto nesso di vita ella era; un tenace nodo di potenza; e la massa della sua chioma piantata intorno alla sua fronte era come quel torsello che è imposto al capo il qual debba sollevare grande peso.
- Non temo di mostrarvi la mia verità. A chi mi confesserò se non a colui che amo? Questo è un sacramento. «Che cosa hai tu fatto dell'anima tua?» E bisogna rispondere. Non si perdona a chi abbia vissuto invano. Io ho dato tutto. La mia anima disperata io l'ho sostenuta con la speranza, per l'amore dell'amore. Udite questo. La notte che seguì il vostro arrivo a Volterra, io e mia sorella fummo l'una di fronte all'altra così come nostra madre ci fece, senza freno e senza maschera. Ella era smarrita, ella era atterrita dinanzi a quel che il mio cuore poteva. Tre volte disse: «Fa' dunque ch'egli t'ami». Era una sfida superba? La raccolsi? M'illusi di poter vincere? E che ho mai fatto io per vincere? Di quali seduzioni mi sono armata? Udite questo ancora. Quella notte, nel combattimento, ella mi domandò: «Credi che tu l'ami di più?» Io risposi: «Non di più. L'amo io sola». Avevo già guardato la morte, mi ero già inclinata verso l'abisso. E volli vivere. Non io volli vivere, ma il mio amore volle vivere in me. Non ero nata se non per portarlo. Tutto in me, dalla fronte al piede, era congegnato per portarlo. E che cosa ho io fatto per attirarvi a me? Vi dissi addio, laggiù, su gli stagni bollenti. E fino a oggi son rimasta distante come chi ha detto addio. Ma in certi giorni ho conosciuto la santità di ardere, d'essere sola e di ardere per ardere. Qualcuno ha detto che la fiamma è di natura animale. Ah, come l'ho compreso, come l'ho sentito! Giorni d'ardore, senz'altro sollievo che il sospiro; giorni d'olocausto, in cui nulla avanzava non consumato...
Egli temeva di guardarla. Teneva il suo capo fra le palme, e guardava il fuoco semispento nel camino.
- Potevo io vincere? Quella notte ella aveva detto: «L'amore più forte non è quello che vince?» Ah, non è vero! Ho dato tutto, per saper questo. Ella aveva detto a disfida: «Egli è folle di me» Sì, una cosa torbida e trista vi rendeva folle, vi rende folle. Vi amavo io sola, vi amo io sola. Ma non avevate occhi per me, come ora; non per me, non per l'inganno...
Egli si volse di subito. Ella s'arrestò si smarrì. E sul pallore e sul silenzio parve balenare un gran baleno.
Egli la guardò, la considerò, con quel modo ch'egli aveva di prendere la materia umana e di porla davanti a sé e di dominarla. La parola poteva essere una rivelazione e poteva essere un trascorso, poteva valere e poteva non valere; ma egli riconobbe nell'aspetto di lei quel che era la volontà prima, quel che era la cagione della visita segreta, del colloquio richiesto. Tenne afferrata la realtà per non più lasciarla: la sorella era venuta per accusare la sorella. Ma egli stesso fu afferrato da una tanaglia che non più lo lentò. Tutto il resto vanì, fu abolito. Il martirio confessato di quella creatura non valse più del tizzo semispento su gli alari. L'istinto fermo del maschio s'impadronì di quell'uomo attossicato. Vana credette che le pupille chiare di una fiera nascosta la spiassero di sotto a quelle palpebre umane.
Egli si conteneva, per non sbigottirla. Ella aveva perduto il suo coraggio ostile, il vigore della rampogna. Era omai allo sbaraglio, non buona se non a divincolarsi.
- Continuate, Vana - egli disse, con la voce sommessa per menomarne il tremito.
- Non so più.
- Perché? Che ho detto?
- Di quale inganno?
Ella balbettava, sempre più smarrita sotto le pupille chiare di quella fiera nascosta. Egli si levò, di scatto; le prese le mani. Non le strinse, non le scosse; ma tutta la persona di lui spirava tanta violenza, ch'ella si sentì come stritolare.
- Ah, non fate di me qualcosa di male!
- Perché dunque siete venuta?
- Perché anch'io sono folle.
- Non vi schermite, non vi schermite. Non l'avete già detto?
- Che ho detto?
- Non siete venuta per provarmi che mi amate voi sola?
Egli parlava a bassa voce, tenendole le mani ch'erano fredde e umidicce, guardandola da presso. Ed ella vide uscire da quelle labbra le parole ultime, le sentì scendere nel più profondo di sé, come un sorso inatteso d'ebrezza.
- Sì, io sola - rispose, invasa da un languore mortale.
Egli ormai l'aveva in suo potere. L'istinto fermo gli suggeriva l'astuzia. Tutto poteva egli trarre da quel turbamento. Egli diede un ardore ambiguo alla sua voce, per turbarla più a dentro; intrecciò le sue dita alle dita di lei, per meglio tenerla; accostò ancor più il suo viso, abbassò ancor più la sua voce, per creare il cerchio del segreto.
- Sì, io sola.
Ella vacillò, ché le giunture le si scioglievano. Egli la sospinse, lasciò ch'ella sedesse, si chinò, le s'inginocchiò ai piedi. Ella era come in una intermittenza di sogno e di veglia, era come chi si assopisce in viaggio e a ogni sobbalzo del legno si scrolla e si ridesta.
- No, non esitate. La sorte vi manda a slegarmi.
- Ah, troppo l'amate!
- Non è più l'amore.
- Mai nessun dubbio?
- No, no. È orribile. Come può esser vero? Come si può far questo?
Ella spalancò gli occhi. Vide ai suoi piedi un'angoscia bianca come un pannolino attorto e spremuto da due pugna rudi.
Egli sentiva le mani di lei divenir sempre più gelide e madide.
- Giuratemi - supplicò ella nell'orrore - giuratemi che, quando saprete, non farete nulla contro di lei, nulla contro nessuno.
- Sì.
- Giuratemi che stasera non la vedrete, che non cercherete più di vederla, che andrete lontano...
- Sì, sì.
- ...che non cercherete di lui né ora ne mai.
Egli aveva la lingua arida come una scheggia di esca; era tutto disseccato, dalle labbra ai precordii.
- Lui - accennò con la convulsione delle labbra
- lui...
- No. È orribile. È la cosa mostruosa...
- Aldo?
Ed ella gli s'abbatté su la spalla. Egli la respinse, balzò in piedi. E per qualche attimo tutta la sua vita girò e rombò come una fionda intorno al suo capo in fiamma.
Quasi in un sogno cupo rotto dai sobbalzi delle ossa, ma con un languore d'amante pur sotto l'orrore, ma con un abbandono avido al potere che l'avviluppava, ma col presentimento d'una mutazione miracolosa che fosse per compiersi, ella era discesa a quel punto. «Non è più l'amore» egli le aveva detto. Nel tumulto e nell'oscurità, uno spirito d'ingenua giovinezza ancor superstite in fondo all'abominazione aveva risposto: «Ecco, ti slego. Ecco, sei libero. T'eri già volto verso di me; ora ritorni a me, ora mi riconosci. Forse m' amavi già, forse non hai mai cessato d'amarmi. Quell'altra cosa torbida e trista non più ti tiene, non più t'infetta. E, se io metto le dita sulle tue tempie, nulla più rimane in te, neppure il disgusto, neppure il dispregio. Ti guarisco, ti consolo, ti rinnovo. Non so se sei tu che mi porti via, che mi porti lontano, o se sono io che ti rapisco, che ti nascondo. Di tutte le rive, di tutte le isole che tu hai dentro gli occhi, qual è la più lontana, qual è la più bella?» Come nella notte di Volterra, l'amato le era apparso vittima di un sortilegio, prigioniero d'un malefizio, che da lei attendesse la liberazione. Egli aveva detto: «La sorte vi manda a slegarmi». Non aveva ripetuto: «Egli vi manda». Aveva scoperchiato la tomba, aveva tolto alfine di sopra lei la pietra sepolcrale.
Con che crudezza, a un tratto, la respingeva! Rovesciata dall'urto violento, ella era rimasta sul la spalliera come una cosa vile e inutile, come lo straccio strofinato nella bruttura e gittato via. Ma sentiva l'aria della stanza occupata da una enormità di furore e di dolore spaventosa. E, caduto il fascino, al suo accorgimento feminino gli atti e i detti di lui apparivano quali erano: un gioco perfido per indurla alla rivelazione, senza pietà senza bontà senza promessa.
Ella si raddrizzò come se l'odio e l'orgoglio le risaldassero le vertebre della schiena. Si raddrizzò; e con gli occhi sbarrati guardò la passione dell'uomo, lo spasimo della bestia.
Era come se invisibili branche se invisibili zanne fossero conficcate in quella dura carne, sin là dove la natura ha nascosto le fibre del dolore disumano. Era come una lacerazione incruenta che mettesse a nudo quanto di più occulto è nell'opaca massa destinata a fallire a patire e a ricordarsi.
Tanto l'amava? Tanto a dentro egli l'aveva lasciata penetrare nella radice della sua vita? Chi mai poteva estirparla?
Egli si riavvicinò, con qualcosa di feroce in tutto l'aspetto, tendendosi verso la creatura già in piedi e in arme.
- Non mi toccate - gridò in lei d'improvviso l'istinto.
Egli ritrasse la mano. Roca era la sua voce.
- Di che?
- Come avete scoperta l'infamia?
Di nuovo l'energia ribelle fiammeggiava nello stretto viso senza sangue. Nessuno aveva pietà di lei; ella non aveva pietà di nessuno.
- Non c'è un destino che sempre mi conduce a vedere quel che non dev'esser veduto? Voi ne sapete qualcosa.
- Avete veduto?
- Ho divinato, ho veduto, ho udito.
- Che cosa?
- Non mi toccate! - gridò ella ancora, indietreggiando, con una selvaggia repulsione di tutto il suo essere.
Certo, nel martirio della sua scienza, non aveva veduto nulla di più crudo; fra tutte le miserie fra tutte le ignominie nessuna più atroce di quella che si rivelava nella convulsione di quella faccia ch'ella aveva amata, in cui ella aveva adunata tutta la luce della vita. In verità, in verità, omai ella poteva ripetere la parola divina: «È compiuto»; e nessun'altra.
- Che cosa? - ripeté egli sordamente.
Ella non rispondeva. Era più facile trarre una voce da quella parete, da quel legno, da una qualunque di quelle forme angolose e scure sparse intorno come massi d'inimicizia, che disuggellare quelle labbra. Ella si rimetteva il cappello, il velo, senza fretta e senza fiacchezza. Egli aveva ripreso a vagare per la stanza, serrato dalle branche e dalle zanne invisibili. Ritornò verso di lei; le mostrò di nuovo quella faccia, che pareva fosse stata ficcata nel più turpe fango umano e poi risollevata tutta contraffatta e lorda.
- Da quanto dura? - chiese con la voce brutale.
Ella non rispose.
- Andatevene, dunque, andatevene! - proruppe egli, forsennato, non respirando che l'ingiuria e la violenza.
Ella gittò un rapido sguardo all'imagine chiusa nella custodia di lutto; abbassò il velo; andò verso l'uscio, l'aprì ella medesima. Egli la richiamò.
- Vana!
Ella non si volse, traversò l'andito. Un domestico la precedeva per accompagnarla fino alla scala. Ella aveva il passo fermo, un rigore quasi lapideo in tutta la persona, una tesa volontà di ripulsa, come per rendersi intangibile; poiché pensava che una mano potesse a un tratto prenderla per la spalla e trattenerla. Si ritrovò sul lastrico. «È compiuto.»
Camminò diritta lungo il muro; rasentò ancora i cancelli carichi di roselline. «Sono gialle» notò. Senza soffermarsi ne colse una che pendeva all'altezza della sua mano: era sfiorita; si sfogliò subito. Le pareva di sorridere, ma veramente non sorrideva. «Viviano, Viviano» pensò «credevo che t'avrei riveduto credevo che l'ultimo saluto sarebbe stato per te, buon compagno.»
Rasentando un muro scrostato su cui scorreva la sua propria ombra, ella rivide la larva smorticcia quale erale apparsa laggiù, alla badia, uscente dalla parete come una di quelle figure estinte che l'intonaco ancor serra presso il grande cavallo bianco. «Un sorriso in una pietra. Chi sa che cosa anche tu avevi scoperto nella vita! Ma tu sei senza età. Io ho vent anni; e so troppe cose. Tu sei impietrato, sei scolpito, non ti muti più. La bestia orribile non si affaccerà all'improvviso fra la tua fronte e la tua gola.» Ella batteva le palpebre come per cacciare l'imagine della faccia bestiale dianzi veduta tra la fronte e la gola del suo amore; che di continuo le si riformava in fondo alla pupilla. Quella ancora la sconvolgeva, la inorridiva. Ma, se fosse riuscita a cancellarla, le sarebbe quasi parso di non soffrir più; perché in quel punto aveva l'illusione d'essersi liberata da tutto il resto. Era come se le avessero capovolta l'anima, come se fossero andate al fondo tutte le cose infeste che la strangolavano, e fosse venuta nel luogo loro una parte preservata e lontana ove non aliasse se non l'aura dell'estrema pace. «Tutto è compiuto. Tutto è consumato.»
Su una piccola piazza vide un cavallo bianco attaccato a una vettura pubblica. Era d'un bianco qua e là giallastro, con la testa bassa tra due gran paraocchi, con un'aria stanca e triste su le sue gambe arcate.
- Vuole? - domandò il cocchiere, rubicondo e lustro.
Ella mise il piede sul predellino.
Ella voleva rispondere: «Alla Badia». Diede l'indirizzo di Simonetta Cesi. Il cavallo bianco trotterellava zoppicando, e la sua lunga schiena stecchita si abbassava verso la spalla sinistra, a stratte. Per non guardarla, Vana alzò gli occhi: vide il sole roseo sul cornicione d'un palazzo, il lieve cielo come sparso di piume, un grande albero della Giudea fiorito in un giardino. Cercò anche una rondine a volo, un nido di rondine in una gronda: inutilmente. «Simonetta, Simonetta, che dirai domani? Piangerai un'altra volta? Ah, se tu sapessi quanto male fa l'amore, a chi ama e a chi non ama! Il pastore di Fondi lo sa, e anche la Driade. Dio ti guardi, sorella allegra!» Diede al cocchiere un altro indirizzo, il suo proprio. S'appoggiò indietro; e guardò il cielo, respirò la primavera, cercò una rondine in una gronda. L'ansietà la riprese; di nuovo il cuore le si torse; l'anima le si rivolse, e le cose crudeli la strangolarono. «Isabella è già uscita? va dov'egli l'aspetta? E che accadrà? S'egli la uccidesse..» Con un gran sobbalzo ella rivide quelle mani contratte che s'erano tese verso di lei e che non l'avevano toccata, non avevano osato più toccarla. «Perché ho fatto questo? Per vendicarmi? La vendetta è una gioia. E qual è la mia gioia? L'ho fatto per provargli che l'amo io sola? E mi sembra di non amarlo più. L'ho fatto per essere alfine costretta a morire? Ficcare il viso a fondo nel lordume della vita è una maniera di morire.» E la sua inconsapevolezza profonda, di sotto alla sua scienza funesta, si tendeva verso il mistero in cui s'oscuravano le creature del suo medesimo sangue. «Isabella va ogni giorno laggiù dov'egli l'aspetta, e Aldo non lo ignora. Spesso ella s'indugia, non torna se non a tarda notte, qualche volta al mattino; e Aldo non lo ignora.» Senza comprendere, ella rimaneva come sotto un incubo deforme, con un misto di ribrezzo e d'ambascia. Scorse nella vetrina d'un fioraio un mazzo di rose gialle in mezzo a un fascio di capelvenere. Fece fermare la vettura; discese; entrò, comperò i fiori. Li tenne su le sue ginocchia, stringendo i gambi con le due mani. Nell'orrore inesplicabile della vita si rifugiava anche una volta presso l'Ombra. Rivedeva il sorriso vivente di Giulio Cambiaso, i denti minuti e puri come quelli di un bimbo; e sentiva che veramente nessuna creatura umana era stata per lei tanto dolce e nessuna tanto vicina. Ebbe onta della sua ribellione insensata contro quella tutela funebre. Disse, come sul sentiero della badia: «Fra poco, fra poco verrò».
E allora le figure del caso - quelle rose, il cavallo bianco, il muro scrostato, la disparizione delle rondini - furono i segni che la conducevano verso il compimento. E tutto, da quel punto, fu segno e indizio e fatalità.
Scese davanti alla sua porta. Seppe dal portiere che Isabella era uscita, che Lunella era rientrata. Salì all'appartamento della sorellina. Udì la voce di Miss Imogen che recitava nel suo idioma il ritornello d'una vecchia leggenda. Si soffermò; spiò, non vista.
Lunella era seduta accanto alla finestra, simile a un gentile paggio, vestita di velluto fulvo, col suo largo collare di merletto, co' suoi fiocchi di nastro che le ritenevano il peso dei capelli alle tempie. Intagliava con le sue forbici una imaginetta in un foglio di carta. Ai suoi piedi Tiapa era seduta su la seggiolina dorata, in un abbigliamento suntuoso che nascondeva le ferite e le magagne, tutta seta e ricami, come una minuscola Infanta. E Miss Imogen, smilza e biondiccia, con quella voce melodiosa che l'aveva resa accetta a Isabella, in piedi presso i vetri, leggeva nel libro la tenzone della Madre e del Figlio. «E quando tornerai tu dal viaggio, - o figlio mio gioioso, dimmi, dimmi, - e quando tornerai tu dal viaggio? - E ben so che non ho altri che te.» - «Quando l'alba si levi a tramontana, - o cara madre.»
Vana tratteneva il respiro, spiando per mezzo ai lembi della tenda. La stanza era chiara e tranquilla, con la sua tavola, con il suo leggio, con la sua scansia di libri, con la sua lastra di lavagna ove restava disegnata dal gesso una figura geometrica. Lunella era intenta alla sua arte, sporgendo di tratto in tratto il labbro di sotto se l'intaglio le riusciva difficile, secondando con le dita abili l'arrendevolezza del foglio che le si volgeva per ogni verso. A ogni risposta del figlio ella s'interrompeva per un attimo, sollevava le palpebre ombrose e guardava il libro. Poiché stava ella di profilo contro la luce, Vana in quell'attimo le vedeva gli occhi color di nocciola rischiarati per traverso splendere come topazii. «Quando l'alba si leva a tramontana, - o figlio mio gioioso, dimmi, dimmi, - quando l'alba si leva a tramontana? - E ben so che non ho altri che te.» - «Quando le pietre nuotino nel mare, - o cara madre.»
Nella breve interruzione il cuore di Vana pareva arrestarsi. Per un attimo la piccola sorella rimaneva attonita, come se subito non comprendesse quegli strani modi che dissimulavano la sentenza tremenda; poi reclinava il capo e riprendeva il sottile suo lavoro, inconsapevole di ciò ch'era sospeso su la sua chioma d'angelo magnifico.
«Quando le pietre nuotano nel mare, - o figlio mio gioioso, dimmi, dimmi, - quando le pietre nuotano nel mare? - E ben so che non ho altri che te.» - «Quando le piume sienvi come piombo, - o cara madre.»
Non il pensiero dominante della morte ma il gelo stesso della morte allora fu nella misera che di dietro la tenda assisteva allo spettacolo di quella vita ignara. Ella s'agghiacciò tutta, dalla nuca alle calcagna. La figura dello spettro entrò nella sua immobilità. Le parve non d'essere sul punto di trapassare ma d'essere già simile al trapassato che ritorna nella sua casa come un testimone invisibile e guarda le creature familiari vivere senza terrore sotto le sciagure imminenti.
«Quando le piume sonvi come piombo, - o figlio mio gioioso, dimmi, dimmi, - quando le piume sonvi come piombo? - E ben so che non ho altri che te.» -
«Quando giudichi Iddio tra i vivi e i morti, - o cara madre.»
Ella fece un passo di là dai lembi della tenda. Lunella si volse, lasciò cadere la carta, balzò in piedi, le corse incontro, la cinse con le braccia e pose il suo viso nelle rose.
- Per me? per me? per Forbicicchia?
- No, queste no.
- Perché?
- Perché sono gialle.
- E che importa?
- Sono per me, sono per Morìccica.
- Tutte?
- Tutte.
- Dammene una!
- Lasciami sedere, ché sono tanto stanca.
- Perché sei stanca?
- La primavera affatica. Non la senti tu?
- Me m'assonna, mi mette tanta voglia di dormire. Dormo, anche con gli occhi aperti. Dammene una!
- Non si può.
- Perché non si può?
- Perché una... porta sfortuna.
- Chi l'ha detto?
- Te lo dico io.
- E perché lo dici?
- Perché lo so.
- E come lo sai?
- Sta a sentire. Una volta una bambina, che non si chiamava Lunella ma era dolce come Lunella, si partì di lontano lontano, dall'estremità della terra, da un paese che si chiamava Madura, dove c'era un Dio che si chiamava Visnù; si partì sola sola, a piedi nudi, per portare una rosa: una rosa gialla. E la portò e la diede: ma quello che l'ebbe, subito morì.
- Oh, no!
La forza misteriosa del sangue si rimescolò, a quell'accento. Era come un'eco ritornante, come una ripercussione recata da un'aura dei luoghi profondi. Vana credette riudire sé medesima in quelle due sillabe esclamate, sé medesima nella remotissima ora. Quell'accento era sorto all'improvviso dal penetrale della stirpe, ove le geniture segnarono i più lievi segni del riconoscimento, lievi eppure più certi d'ogni altra affinità carnale, palesati a quando a quando con un'aria con un tono con un gesto con uno sguardo.
- Sorellina, sorellina, perché tanto mi somigli? - disse Vana, invasa da una commozione che non poté nascondere.
E serrò perdutamente sul suo petto la creatura palpitante; e la tenne. E quella non si disciolse ma restò nella stretta, nella calda tenerezza; vi s'accomodò con piccoli moti dei muscoli come per meglio aderire, sentendo un calore materno esalare da quelle braccia e penetrarla, un calore materno, che pur la sorella sentiva sorgere a poco a poco dal suo petto verginale con la rivivente imagine di quella che le aveva carezzate entrambe nel tempo felice.
«E quando tornerai dal tuo viaggio, - o figlio mio gioioso, dimmi, dimmi, - e quando tornerai dal tuo viaggio? - E ben so che non ho altri che te.» - «Quando l'alba si levi a tramontana, - o cara madre.» Il ritornello, non come verbo ma come melodia, ondeggiava nel cuore di Vana, forse anche nell'altro piccolo cuore. Su i vetri della finestra pioveva l'azzurro sempre più cupo; l'ombra s'addensava nelle pieghe delle tende, negli angoli, sotto le porte; il rumore cittadino non giungeva sino a quel silenzio, se non indistinto. «Quando le pietre nuotino nel mare, - o cara madre.»
Vana s'accorse che Lunella s'era addormentata; e l'anima le venne meno, di struggimento. Non si mosse, non diede il più lieve crollo. Come Miss Imogen apparve all'uscio, con gli occhi ella le accennò di non appressarsi. Quella si ritrasse. La bimba dormiva con la gota contro la spalla della sorella, abbandonata su le ginocchia che la reggevano. Vana sentiva l'odore e il tepore dei capelli, il respiro quieto, tutta la gracilità sensibile delle ossa. Ascoltava il silenzio: le cose vi catavano a fondo come in un mare. «Quando le piume sienvi come piombo, - o cara madre.»
S'era fatto il vespro. L'azzurro su i vetri pendeva nel violetto. Forse la stella già tremolava sul più alto cipresso del giardino. La prima squilla della salutazione angelica mosse un'onda che le inondò i precordii. «Quando giudichi Iddio tra i vivi e i morti...» Ben era quell'onda stessa che le saliva alle ciglia, che traboccava. La contenne, la riversò dentro, per tema che le gocciole calde scorressero, cadessero sul viso di Lunella, la risvegliassero. «Ah, dormire, dormire, non saper più nulla, non ricordarsi più di nulla, entrare così nella pace, senza risveglio!» Ella pensò che un giorno, per essere felice e per ringraziare il Cielo d'esser nata, parve le bastasse di appoggiare il capo sopra un petto crudele e di piangere un poco e di addormentarsi e di non svegliarsi più. Ora la sua piccola sorella faceva quell'atto, ed era come s'ella medesima lo facesse verso quella madre che si sentiva rispondere per ambagi sempre la parola disperata.
Le campane sonavano; l'ombra s'incupiva; il respiro di Lunella era eguale. Il sopore si propagava da quel dolce corpo abbandonato. «Fin che tu ti rammenti, fin che io non mi scordi!» Le palpebre di Vana s'appesantivano; il suo respiro s'accompagnava al respiro innocente. Il tempo fluiva nella oscurità.
D'improvviso nell'oscurità un grido si levò, un grido di terrore; a cui un altro grido rispose, ché anche la misera nella confusione del sonno era atterrita sentendo le mani di Lunella aggrapparsi al suo collo e tutto il corpo sobbalzare convulso.
Gridava come se morisse o vedesse morire, gridava come nelle tenebre del sepolcreto.
Sbigottita Imogen accorse, fece la luce, vide le due sorelle aggrappate l'una all'altra e smorte.
- Mio Dio! Mio Dio! Che accade?
- Nulla, nulla. Lunella s'è svegliata e ha avuto paura del buio.
La piccola tremava ancor tutta, e Vana non riusciva a domare il suo proprio tremito.
- Quanto tempo è passato? È tardi? Che ora è?
- Sono quasi le nove - disse Imogen.
- Così tardi? Bisogna che tu mangi, piccola cara, bisogna che tu ti faccia servire il tuo pranzo.
- Non te n'andare, Vanina, non te n'andare! Rimani con me stasera.
- Sono ancora così, vedi? Bisogna che mi svesta. Poi torno.
- Non te n'andare!
Ella baciò l'inquieta. Prese il mazzo delle rose. Si volse per uscire.
- Torno.
La piccola la seguì fino alla soglia. Ella s'allontanò di corsa per l'andito. Il singhiozzo frenato le rompeva il petto.
Scese la scala, si diresse verso le sue stanze. Non incontrò nessuno. Tutta la casa le parve deserta e sinistra. Chiamò:
- Francesca.
La sua cameriera non rispose. Chiamò:
- Chiara.
Entrò. Posò i fiori sul suo capezzale. Non reggendo all'ansia, uscì; corse verso l'appartamento d'Isabella.
- Chiara!
La donna rispose. Era là, nella camera da letto.
- No, signorina. Ha fatto sapere che non torna, che non s'aspetti.
- Di dove?
La donna chinò gli occhi, con un sorriso compunto.
- V'ha parlato ella stessa? avete udito la sua voce?
- Si, signorina.
- Verso che ora?
- Bene.
Un'amarezza così atroce le torse lo stomaco che la donna credette avesse riso. Era veramente più atroce che il vomito funebre dell'avvoltoio.
- È rientrato, s'è vestito ed è uscito di nuovo. Pranzava fuori.
- Francesca dov'è?
- Credo sia giù in guardaroba.
- Chiamatela, che venga su da me a spogliarmi.
- Vuole che la spogli io?
- No.
A un tratto le faceva ribrezzo. Era lo stesso modo, era la stessa voce della notte di Brescia. Come avrebbe potuto ella lasciarsi toccare da quelle mani?
- Che ordini ha per il pranzo?
- Nessuno.
- Non pranza?
- Non ho voglia.
La donna uscì. Ella rimase nella vasta camera di damasco verde, che odorava di gelsomino come l'estate del giardino di Volterra. Il gran letto era preparato; la lunga camicia molle e trasparente era posata su la rimboccatura orlata di pizzo. Su la tavola della specchiera brillavano innumerevoli cristalli metalli avorii: fiale d'essenze, scatole di cosmetici, pettini e spazzole di varia densità, in bacili o in custodie arnesi più sottili e più diversi che quelli di qualsiasi altra arte, tutti gli strumenti e tutti i segreti addetti al culto del corpo trionfale.
Per l'ultima volta la potenza dell'odio creò di tutto rilievo la figura ondeggiante con la pieghevolezza delle malvage murene. - Aveva vinto, aveva vinto ancora! Ancora una volta, certo, aveva inebriato di voluttà e di menzogna la bestia ruggente. Era incolume. L'ora del pericolo era trascorsa. Non schiacciata dall'ira, non gittata sul lastrico ma creduta ma temuta ma ripresa, a rabbia e a infamia della delatrice. - Le imaginazioni vergognose assalivano la misera. Ella rivide la bestia orrenda affacciarsi tra la fronte e la gola di colui ch'ella aveva amato sopra la vita e sopra la morte. E dalla selvaggia repulsione risorse la forza; si raddrizzarono le vertebre nella schiena, un tenace nodo di potenza si riformò nell'anima; un sovrano dispregio fiammeggiò nello stretto viso senza carne, sotto la massa della chioma piantata intorno alla fronte come quel torsello ch'è imposto al capo il qual debba sollevare grande peso.
Subito pensò ch'era disarmata e che le bisognava l'arme sicura. Seguendo un ricordo ben distinto, cercò intorno, qua e lá. Vide luccicare quel che cercava: un pugnaletto turchesco dal manico di calcedonio, già appartenuto a quell'Andronica Inghirami il cui nome è scolpito nella pietra fessa d'un architrave, alla badia, insieme col nome d'Ugo Riccobaldi, sopra uno scudo a tre stelle. Lo prese, lo nascose, uscì. Tornò alle sue stanze.
Vigilò sé stessa come il guerriero il qual tema che un pensiero ignavo penetri per la fenditura del suo casco. Non ebbe pietà di sé, né di nessuno, fuorché di Lunella. Resistette alla tentazione di rivederla; resistette a un'altra tentazione disperata che l'afferrò un istante: quella di non lasciarla nella casa dell'ignominia, quella di portarla via con sé dove nessuna profanazione poteva giungere mai. «Dio ti guardi! Dio ti salvi! Se l'anima è immortale, io stessa ti guarderò come dianzi quando tu non mi vedevi.»
Ella sapeva come la salma si ponga in apparecchio di sepoltura: si ricordava di sua madre. Apprestò il suo giovine corpo, scarno e forte come quello d'una Martire indomabile. Lo purificò. Si lasciò pettinare pazientemente. Scelse la più bella delle sue vesti bianche. Evitò di guardarsi nello specchio per non essere indotta a commiserare la sua giovinezza. Ma era tanto bella nel suo rigore adamantino, che la donna non poté trattenere una parola di maraviglia.
- Chiamerò.
Rimasta sola, chiuse le porte. Trasse il pugnaletto d'Andronica; lo sguainò, lo mirò, ne provò la punta su l'unghia del pollice. Un brivido le raccapricciava tutta la carne; ma il cuore le restò prode. Ella posò la lama presso il fascio delle rose, per consacrarla. Scacciò da sé le ultime imagini acri, che ancora tentavano di assalirla. Volle essere intenta a una sola. «Eccomi. Sono pronta.»
Rivide l'eroe supino, avvolto nella rascia rossa del guidone, con intorno al capo il drappo nero accomodato a celare il taglio della tempia. E la visione fu evidente come se il rude letto da campo fosse a fianco del letto verginale.
Andò alla finestra, l'aperse: la notte era stellata ma fredda su gli orti cupi di cipressi e di allori. Con gli occhi d'incorruttibile smalto salutò le giovani stelle nel cielo di primavera, riconobbe il Carro, le Guardie, le Pleiadi; mentre la mano sentiva battere la forza del cuore sotto il costato, cercando l'interstizio.
Non richiuse. Spense tutte le lampade, tranne una presso il capezzale. Si scalzò, salì su la proda, si distese, congiunse i piedi come offrendoli alle pastoie d'argento. Risollevò il busto per porre su i nudi piedi congiunti le rose, come ad osservare il rito del connubio funebre. Spense l'ultima lampada. Tenendo stretta l'elsa gemmea nel pugno, si riadagiò col capo su que' suoi capelli tanto fieri che sembravano nutrirsi del suo coraggio.
Allora si sentì bella di quella bellezza che a traverso le lacrime ella aveva veduta soltanto sul volto dell'eroe supino.
Paolo Tarsis era uscito dalla sua casa, poco dopo lo sciagurato dibattito. Aveva raccolto tutta la sua virtù per dominare il suo dolore e il suo furore. Aveva esitato, prima di dirigersi verso il nascondiglio dei suoi piaceri. Poi aveva risoluto di affrontare il rischio.
Contratto sul suo spasimo, aspettava la donna.
Ella giunse con uno di quei suoi movimenti aerosi che la facevano pur sempre assomigliare a Ornìtio, con la bocca splendida a traverso il velo, con l'impeto e con la grazia in ogni piega delle sue vesti.
- Aini, Aini, sono qui. Dormivi?
Egli non s'era levato, non le era andato incontro, non l'aveva di subito avviluppata nel suo desiderio inesausto, non le aveva sollevato il velo con la mano impaziente per divorarle le labbra, non l'aveva abbattuta sul tappeto ancora tutta anelante, come un violatore micidiale, rinnovandole quella paura che la faceva gioire più d'ogni dolcezza. Perché? S'era addormentato aspettandola? era stordito dal sonno?
Ancora col barbaglio dell'aria aperta, non lo vedeva bene sul divano immerso nell'ombra. Rapidamente si tolse il velo e il cappello; poi sfilandosi i guanti, si avvicinò, si chinò verso lui muto. Non più abbagliata, scorse d'improvviso gli immobili occhi che la guardavano; e gittò un piccolo grido.
- Ah, Paolo! Mi vuoi spaventare?
Era come in quel giorno marino, come quando ella aveva raccolta presso il davanzale la rondinella loquace.
- No, no. Lo sai che ho paura. Non mi guardare così!
Ella indietreggiava, con un riso convulso, come quando aveva lasciato cadere dalle mani tremanti la tiepida prigioniera.
- Perché mi fai questo? Lo sai che non voglio. Non voglio che tu mi guardi così, Paolo.
E il riso già somigliava al singhiozzo, come allora. Ella indietreggiava, ma egli non si levò. Una parola vituperosa, quella che svergogna la femmina da conio, risonò cruda fra le quattro pareti. E poi si fece una pausa, come dopo un colpo che atterra.
- Che hai detto?
Atterrata ella non era ancora: ma certo qualcosa di lei era piombata a terra, se bene ella restasse in piedi. Le sue gambe s'agghiacciavano; il suo cuore pareva come retrocesso verso la schiena, come aderente alle vertebre, vuotato di sangue. Aveva traudito?
La parola di vituperio risonò la seconda volta, più cruda.
- Impazzisci?
- No. Nettamente dico quel che sei.
E per la terza volta l'ingiuria percosse la donna sul viso.
Egli si levò, minaccioso.
- Impazzisci? - ripeté ella, con la voce che le si rompeva tra le mascelle come sconnesse.
- Vattene, se non vuoi che io ti getti su la strada.
In un baleno ella aveva compreso. Aveva la colpa nelle midolle, che gridava contro di lei. La sua faccia pareva distrutta, simile a un pugno di cenere. Non una vena in lei, che non fosse vuota; non una giuntura, che non si snodasse; non un muscolo, che non tremasse sotto la pelle abbandonata dal calore. Era stroncata, era perduta, era un fasciume da gettare sul lastrico, veramente. E una forza pronta proruppe dal suo profondo per salvarla, una forza che le rimise il cuore nel mezzo del petto, che le riempì le vene, che le rannodò le giunture, che le rassodò i muscoli, che le ricolorò la faccia, che le concitò la voce; la forza viva e invitta della menzogna, più potente che i nervi i tendini il sangue. L'uomo, che l'aveva annientata, la vide moltiplicarsi come un mostro che schiacciato rinasca e si rigonfi e si dirami in più tentacoli tenaci.
- Che pazzia t'ha preso, così, a un tratto? di che t'hanno abbeverato per farti così bruto? Mi ingiurii, mi scacci; e credi che non sia necessario dire una qualunque ragione! Sei un insensato. Ho pietà di te.
Lo sdegno esalava dalla sua attitudine, ardeva nella sua parola.
Senza grido, quasi pacato, egli confermò:
- Ho detto quel che sei. E nessuna della tua specie ti eguaglia nell'impudenza. Non vale che io parli.
- Quel che hai fatto, lo sai bene.
- Mi sono data a te senza misura. È il mio torto.
Ella era là, discosta, in piedi; ed egli voleva ancor più separarla da sé, respingerla nell'abominazione, vederla scomparire. Ed ella era ancora là, per lui, come la sola cosa viva nell'Universo, la sola cosa alzata sul suo varco. E v'era per lui un solo varco un solo cammino un solo orizzonte; ed ella glielo serrava. E sentiva di non poterla abbattere se non per giacerle sopra, per distruggersi in lei.
Disse, con parole aride e rapide che gli passavan tra i denti, come i carboni accesi tra le dita di chi li raccoglie scottandosi per evitare l'incendio:
- Tanto la misura t'è ignota, che hai un amante perfino in casa tua, hai pervertito perfino chi ti vive accanto, sotto gli occhi delle tue piccole sorelle...
Ella balzò, gridò d'indignazione irrefrenabile.
- Ah, vile, folle e vile! Come osi di gettarmi in faccia questo dubbio mostruoso?
- Il dubbio tu stessa ti sei piaciuta di suscitarlo, di eccitarlo, per la frenesia malvagia delle torture, quante volte, con quanti modi ambigui! Tu lo sai. Io me ne ricordo. Porto le bruciature. Ma pensavo che tu ti eccitassi col fantasma della colpa, per una delle tue tante perversioni crudeli. Non credevo possibile la duplicità in una creatura che ogni giorno si torce urla agonizza nelle mie braccia e ogni giorno mi chiede di più e si dona con più furore...
- Tu stesso mi difendi. Con questo mi difendi tu stesso, dimostri tu stesso la tua demenza.
- «Capace di tutto!» Ti ricordi? ti ricordi su la via di Mantova? Questo mi rispondesti, questo mi dichiarasti. E promettevi il dolore e l'obbrobrio con le parole oscure, e minacciavi tutto il male. Ah, t'avessi scagliata nella polvere, avessi schiacciato me e te contro quei tronchi, avessi annientata la tua perfidia e la mia sciagura!
Ella era fisa. Qualcosa come un flutto dell'anima saliva di dentro e velava la sua sfrontatezza. La sua menzogna ora pesava alla sua passione. La necessità della discolpa la umiliava. Quell'uomo doloroso e iroso, simile a ogni altro uomo nella rampogna nel dispregio e nel castigo, le sembrava ottuso e tardo. Ella avrebbe voluto rispondere: «È vero. Mi ricordo. Anche dissi: - L'amore che io amo è quello che non si stanca di ripetere: Fammi più male, fammi sempre più male. - Ah, perché voi siete come tutti gli altri? perché la vostra gelosia è così cieca, è così ferma? Vi amo sino alla morte. Questo è certo. Se voi ora veramente aveste la forza di scacciarmi o di fuggire, io non saprei continuare a vivere. Quel che di me più vi brucia e vi crucia, la mia carne, si disseccherebbe, non si nutrendo se non della vostra. Eppure, la colpa di cui mi accusate, io l'ho commessa; e vorrei non discolparmi. L'ho commessa per amore dell'amore, perché non è vero che la perfezione dell'amore sia nella congiunzione di due; e questo gli uomini sanno ma non osano confessare. L'amore, come tutte le potenze divine, non si esalta veramente se non nella trinità. E questa non è una dottrina perversa, non è un gioco di perfidia, in me, ma è un verbo testimoniato col martirio, col più dolente sangue del petto. Un tale amore disdegna la felicità per un bene ignoto ma infinitamente più alto, verso cui l'anima si tende di continuo rapita dal più puro dei dolori, che è il dolore disperato; mentre la coppia richiede il giogo e n'è gravata sempre, e n'è curvata verso la polvere o verso la gleba, e forse è inevitabile che la guidi il bifolco avaro. Ah, quando finalmente l'amante non sarà più lo stupido nemico ma il fratello pensoso e voluttuoso? Lo so, lo so: voi non potrete mai comprendere. Vi sarà più facile toccare le stelle nel volo che avvicinarvi al mio mistero. Nessuna parola e nessuna lagrima varrà mai al persuadervi che non ho ceduto al vizio deforme ma a questo senso divino del patimento, ch'io porto in me. Non ho cercato né ho dato il piacere; ma ho presa nella mia mano tremante un'altra mano tremante per scendere a trovare il fondo dell'abisso, o forse del tempio sotterraneo. Non ho fatto opera di carne ma di triste iniziazione. E anche per voi, taciturno che non parlate se non ad offendere o a delirare, anche per voi io sono una scienza: non sono una felicità né sono una sciagura ma una scienza severa».
A capo chino, assorta, ella fece qualche passo verso il divano: vi si abbandonò quasi prona, e si coprì la faccia con le palme. Quella sua pallida nuca, pudenda come il sesso, e le sue spalle piane, l'incavo delle sue reni, la sua cintura, e il suo fianco e la sua lunga coscia obliqua e in parte fuor della gonna rappresa i fusoli delle gambe apparivano. Ella era assorta nelle sue penose ambagi in cui la sua anima avviluppava la sua novità invece di liberarla; ma turbava intanto con la sua groppa il maschio.
- Taci? - diceva egli ottusamente, dominando la voglia orribile di gettarsi addosso a lei e di straziarla. - Ora taci? Confessi?
La violenza contenuta di lui la affaticava, quelle domande roche la stancavano come un clamore importuno. Ella lasciava fuggire da sé la forza della menzogna. L'eloquenza della difesa le diveniva intollerabile. Prona, quasi in un'attitudine d'invito al desiderio, ella comprimeva l'enormità della sua vita segreta così cupa di onde cozzanti che di continuo si frangevano e schiumavano al limitare d'un antro in fondo a cui stava nascosta la Sirena dell'inaudito carme.
Ella aveva commiserazione di lui che tanto in quel punto somigliava a un altro uomo, a un altro amante; il quale, credendosi ingannato, l'aveva assalita quasi con le stesse domande, quasi con gli stessi gesti.
- Forse già, prima d'incontrarmi e di tentarmi, tu l'avevi corrotto. Già a Mantova, quel giorno, c'era nelle sue affettazioni qualcosa di lubrico...
Ella non poteva sopportare quella rampogna acre non di collera ma di mal dissimulata bramosia, quella doglia angusta come ogni doglia carnale, come un bruciore come una slogatura come un taglio. Ancora una volta ella vedeva l'uomo diminuito, trasformato in noiosa belva; vedeva l'Amore chino su quattro piedi e privo della bella fronte. «Ah, non mi dire le ingiurie che tu diresti a qualunque altra donna per svergognarla! Ma dimmi una parola ch'entri in me qual sono, che tocchi me quale sono, e che mi agiti e che mi sconvolga e che tragga dal mio profondo questa mia forza ignota di cui sono inferma, questa mia novità nascosta di cui ho la febbre come d'un germe che sia per isvilupparsi e per cangiarmi. Dimmi quella parola; o taci, e flagellami!» E la fronte del fratello, e l'ardua malinconia di quelle pupille così perspicaci, e quelle labbra così cupide e così scontente, e tutte quelle linee di pensiero e di divinazione, e tutte quelle vampe di precocità terribile emergevano in contrasto con la brutale oppressura che le toglieva perfino l'energia di mentire. Ella non ascoltava più, ma udiva nella voce il ruggito soffocato del desiderio.
- Non rispondi?
Egli a un tratto l'aveva presa per le spalle e la squassava. Ella rimaneva inerte, aspettando. Egli la lasciò, indietreggiò, con un gran fremito:
- Vattene, - disse - vattene. Non voglio ucciderti.
- Vado.
Erano l'una di fronte all'altro. Ella non lo guardava ma sapeva che tutta la vita di lui era protesa verso una fatalità a cui nessuna forza né umana né divina avrebbe potuto opporsi.
- Vado.
Si volse per raccogliere i guanti il cappello il velo.
- Addio.
L'addio le restò tra i denti. Il maschio già s'era precipitato sopra lei, l'aveva atterrata, era caduto in un viluppo. E col pugno la percoteva sul viso su le braccia sul petto, ruggendo la parola vituperosa.
Ella non gridava né si difendeva, ma a ogni colpo gemeva un gemito sommesso, quasi un'implorazione senza suono, che somigliava il gemito ond'ella aveva accompagnato il miracolo del primo bacio, debole come il fiotto d'un bambino infermo. Sentì il noto sapore dolciastro nella sua bocca, e non d'una sola stilla; e poi sentì l'altra bocca schiacciarla, più pesante del pugno, e i colpi cessare, e le mani passare a un'altra violenza, e la carne penetrare la carne come il ferro che sventra. E nella lividezza del crepuscolo, in fondo a quella stanza d'amore, tra le quattro pareti ch'erano quattro testimonii di silenzio e d'ombra, fu la mischia feroce di due nemici legati per il mezzo del corpo, fu l'ànsito crescente nel collo gonfio di arterie da recidere, fu lo squasso rabbioso di chi si sforza strappare dall'infimo le più rosse radici della vita e scagliarle di là dal limite imposto allo spasimo degli uomini.
L'uno urlò come se in lui si compisse lo strappo atrocissimo; si sollevò, poi ricadde. L'altra si scrollò, con un rantolo che si ruppe in un pianto più disumano dell'urlo. Ed entrambi rimasero abbattuti sul pavimento, nel barlume violaceo, sentendosi ancor vivi entrambi e lordi, ma con qualcosa di esanime fra loro, con i resti di un oscuro assassinio fra i loro corpi disgiunti. Ed ella non cessava di piangere.
Su i vetri della finestra pioveva l'azzurro sempre più cupo; l'ombra s'addensava nelle pieghe delle tende, negli angoli, sotto le porte; il rumore cittadino non giungeva sino a quel silenzio, se non indistinto. Ed ella non cessava di piangere.
Il suo pianto era come il pianto di Lunella, era come il torrente, strabocchevole, senza freno. I singulti precipitati parevano soffocarla; nelle lacrime tutto il suo viso pareva stemperarsi.
Ed egli si trascinò sul tappeto, carponi, per un tratto. La prima squilla della salutazione angelica giunse nell'ombra che s'incupiva. Ed egli s'arrestò, perché uno scroscio di pianto più alto gli ritolse la forza, lo rifece spoglia vuota e miserabile.
- Isabella! - chiamò egli tremando in tutte le ossa.
Ella non cessava di piangere. Egli s'alzò in piedi, brancolò su la parete. Uno sprazzo di luce rischiarò la stanza. E allora egli vide la donna atterrata e devastata raggrupparsi in sé stessa, rannicchiarsi come una povera bestia sbigottita, incrociare le braccia sul volto, nascondersi. E il cuore gli si divise.
- Isabella!
Le s'inginocchiò accanto, cercò di sollevarla di sotto alle braccia ch'ella teneva ostinatamente incrociate sul volto, scoprì la bocca piena di sangue e di lacrime.
- Perdonami, perdonami! - proruppe disperato. - È vero, è vero: sono folle e sono vile. È vero. Perdonami, perdonami, Isabella!
Era folle di rimorso, di pietà e di passione. Tremando le disgiunse le braccia; e scoprì i segni delle percosse, scoprì tutto quel povero viso disfatto che impregnavano le lacrime come se dalla palpebra le si fossero diffuse sotto la pelle.
Egli si torceva d'angoscia, tendendole le mani, premendo quelle mani su la sua voce supplichevole, che era l'anima sua stessa divelta.
- Mi perdoni?
E da quel dissolvimento nel pianto, da quelle povere gote solcate e peste, da quel mento che pareva smagrito nella lugubre ora, da tutta la persona menomata e come annodata nella doglia, anche una volta si formò qualcosa di breve e d'infinito, qualcosa di fuggevole e di eterno, di consueto e d'incomparabile: lo sguardo, quello sguardo.
E fu tutto. E rimasero prostrati, l'una contro l'altro, là dove avevano commesso l'oscuro assassinio, prostrati senza parola, vinti da un amore ch'era più grande del loro amore e che forse tornava dal luogo della bellezza dilaniata e derelitta.
- Mi ami? - chiese egli, con un soffio in cui spirò l'intera sua vita.
Ella gli si piegò addosso con una di quelle sue dedizioni a cui nulla resisteva, con una di quelle sue fluidità ond'ella eguagliava la veste bagnata che aderisce alle membra, l'olio versato che assume la forma della lampada ove si acquieta e risplende.
- Alzati, - egli pregò - vieni. Lascia che io ti porti.
Più sommessamente egli pregò:
- Lascia che io ti spogli, che io ti lavi.
Ella disse:
Alzandosi, ebbe un lieve deliquio. Come rinvenne, guardò intorno stupefatta e sospettosa; scrutò tutti gli angoli. Poi, con un modo insolito, quasi ella fosse divenuta un'altra o trasognasse:
- Stasera bisogna che vada via presto. Bisogna che rientri presto a casa. Potrei rimaner chiusa fuori. Oggi è venerdì. Non avrei dovuto uscire. Troverò chiusa la porta. Rimarrò su la strada. Non mi lasceranno più rientrare. Certo mi spiano. Certo ora sanno che io sono qui. Non farò più in tempo. Mi lasceranno fuori...
Le sue parole divenivano incoerenti. Pareva che una paura occulta dissolvesse i suoi pensieri.
- Isabella, che dici? Come possono lasciarti fuori? Chi?
Rapidamente ella rispose:
- Lo Sciacallo! Mio padre e lo Sciacallo!
Poi si scosse; batté più volte le palpebre, per fugare da sé un'aura che l'agitava; si premette col dorso della mano la bocca, e guardò il dorso su cui rimaneva una traccia sanguigna. Egli moriva d'angoscia, di vergogna e di tenerezza guardando il piccolo viso disfatto, le palpebre gonfie e rosse, la bocca ferita.
- Isabella! - chiamò come si chiama per risvegliare qualcuno.
- Sono qui - ella rispose.
- Mi pareva che dicessi cose strane.
- Che dicevo?
- Vieni. Lascia che io ti spogli, che io ti lavi. Rimani qui con me. Ti supplico! Riposati accanto a me. Non te n'andare. È impossibile che noi ci separiamo stasera.
- Bisogna che io vada. M'aspettano.
- Di qui puoi avvertire Chiaretta. Non te n'andare, non mi lasciare stasera, Isabella.
Egli l'accarezzava perdutamente. Ella si persuase, si lasciò trarre nella stanza attigua. E per qualche istante l'illusione li avvolse. Credettero di essere in una delle loro sere di festa segreta, quando le stanze erano piene di fiori, quando pranzavano a una piccola tavola coperta di delicatezze, quando ella si svestiva per rimaner nuda sotto una di quelle lunghissime sciarpe di garza colorate ora da uno gnomo ora da un silfo.
Egli uscì per dare gli ordini alla donna abile e discreta che accudiva al servizio. Rientrando, trovò Isabella che si guardava nello specchio minutamente i segui dei colpi nella faccia. Ella aveva su la fronte una lunga scalfittura rossa; un'altra scalfittura sul collo, sotto l'orecchio destro; un gonfiore nerastro al labbro di sopra, e qua e là lividure che cominciavano a scurirsi. Sorrise nello specchio, senza volgersi; e la contrattura le fece dolere il labbro.
- Vana non mi domanderà. Indovinerà.
- Bisogna che avverta Chiaretta.
Dopo aver parlato, s'indugiò dinanzi all'apparecchio con la gota inclinata sul nero imbuto, in ascolto. E sbarrava gli occhi fisa alla sua ansia. Disse:
Egli vedeva in lei qualcosa d'insolito.
- Ma perché sei tanto inquieta?
Non era l'inquietudine ch'egli le conosceva, era un'altra; che si manifestava in cominciamenti di gesti, in piccoli guizzi di muscoli, in fuggevoli sguardi, i quali non le appartenevano Tra le linee del viso, già alterate dalla violenza e dal pianto, le si moveva a quando a quando una linea quasi impercettibile, apparente e sparente, che le era estranea. Egli la guardava, senza sapere perché, con un'attenzione infaticabile.
- Lascia che io ti aiuti a spogliarti.
Come ella gli voltava le spalle per lasciarsi sganciare, disse all'improvviso cou una gravità senz amarezza:
- No. T'inganni.
- T'inganni.
Una tristezza e una pietà infinite erano nel suo accento. E la carne di lui, nello scoprire quella nudità, conobbe un tremito nuovo.
Egli l'aveva veduta triste, gaia, tenera, lasciva, irata, crudele; l'aveva veduta in tutti gli aspetti, ma non mai in quello. Era come una gravità rassegnata, pacata, e intenta.
- Vedi? - ella disse, guardandosi sul braccio una macchia scura come d'inchiostro. - Il mio vero sangue è nero.
Ella aveva sfilate le braccia dalle maniche, quelle braccia non molli ma salde, che pur sembravano portare la più fresca freschezza della vita come una ghirlanda rinnovata a ogni alba. Nude le larghe spalle emergevano, e le piccole mammelle sul petto largo come il petto delle Muse vocali, dall'ossatura palese di sotto i muscoli smilzi. L'orlo della camicia era squisito di scollo e di ricamo, il busto connesso aveva la tenuità e la perfezione d'un calice floreale, ingegnosi e preziosi di fibbie e di nodi erano i legaccioli che di là si partivano a rattenere le calze, tutti gli involucri partecipavano dell'intima grazia e sembravano arricchirsi e affinarsi quanto più s'avvicinavano alla pelle; ma ora cadevano come ingombri morbidi, disdicevoli a quel corpo come a una statua severa, quasi respinti da una severità superba che ingrandiva e poliva ogni rilievo a simiglianza del sasso. Quando, tolta la scarpa, ella fece macchinalmente il gesto consueto tirando la punta della calza rimasta aderente all'unghia del pollice, egli ne fu attonito come d'una piccola maniera femminina che contrastasse a quella potenza. In ginocchio, sguainò egli stesso le lunghe gambe lisce. E così ella fu tutta nuda, senza sorridere.
Ricomparve nella stanza ov'era preparata la piccola tavola, portando una di quelle tuniche a mille pieghe che, quando erano vedove del suo corpo, si ristringevano a guisa di corde bene attorte e, quando ella vi si insinuava agilmente per la testa, s'aprivano a guisa di ventagli numerosi. Quella era d'un nero blu ramificata di verde, con la fimbria stampata in sanguigno d'un fregio di polpi al modo fenicio.
- I garofani di Boccadarno? - disse vedendo su la mensa angusta i grandi fiori scapigliati color d'ardesia.
S'era riacceso in lui il fuoco torbido.
Ella mangiava interrottamente, qualche volta con una voracità subitanea, qualche volta con una ripugnanza penosa. Aveva su la fronte la scalfittura rossa, sul braccio la chiazza fosca, nel labbro il gonfiore livido. E il silenzio era interrotto a quando a quando da un clamore di popolo, che veniva da un anfiteatro vicino.
- Ti ricordi della sera che ti fidanzai? Ti chiamavo Madschnun. Ti raccontavo la storia della gazella liberata, ti parlavo del mio giardino di gelsomini. Te ne ricordi?
- Sì - egli rispondeva, con quel suo viso che non aveva se non il colore dell'osso in cui era sculto.
- Poi ti parlai di Vana, della passione di Vana. Poi ti parlai del piccolo fazzoletto color lilla, profumato di gelsomino, ch'ella m'aveva offerto a Mantova, nella stanza del labirinto, per asciugare il sangue del primo bacio. Te ne ricordi?
- Sì - rispondeva egli con un sordo tonfo nel petto, riudendo dentro di sé la voce infiammata della vergine olivastra, come portatagli da una raffica di tempesta.
- Ah, perché dunque non è venuta col suo piccolo fazzoletto, e non me l'ha offerto un'altra volta per asciugare la mia bocca che ha sanguinato sotto il tuo pugno, Aini?
Senza sarcasmo, senz'amarezza, senza rancore ella parlava, e senza sorriso; ma con quella gravità rassegnata, pacata, e intenta. Egli non aveva fatto tanto sforzo quando in Luzon, stretto dalle catene e infiacchito dal digiuno, s'era proposto di fisare i suoi carnefici senza batter ciglio.
- Domattina non ci sarà più sangue; ma andrò, e le dirò: «Guardami la bocca, piccola sorella cara. Non è stato il bacio di colui che ami». E la bacerò, perché tu non potrai più baciarmi, Aini.
Egli non osava interromperla, se bene soffrisse un supplizio insoffribile. Ella aveva preso uno dei grandi garofani e lo teneva pel gambo, posato su la tovaglia sparsa di frutti, di confetture, di vini chiari, di cristalli, di argenti. E qualcosa come il rombo d'una fatalità ritornante era nell'aria chiusa. Ed egli rivedeva quel viso d'allora, il viso sfrontato e convulso, stretto ermeticamente fra le trecce dense, con la luce dorata nella gola e nell'irrisione, il viso della tentatrice frenetica. Ma ben più misterioso era quello che ora gli stava dinanzi, quello segnato dai colpi dell'assassino ch'egli non aveva potuto reprimere, quello ch'egli aveva percosso e accarezzato e che né la percossa né la carezza avevano avvicinato a lui. Fragile era tuttavia ma remoto, in finito, alto su una profondità dove non era dato discendere a lui ch'era disceso nel fondo del mare.
- Forse l'ho io separata da te? T'ho preso a lei? E come avrei potuto prenderti se tu non fossi stato già mio? Certo, quella sera, alla marina, ti parvi orribile quando ti parlai dell'amore di mia sorella. Ti ricondussi verso di lei, e le dissi: «Fa' dunque ch'egli t'ami». Ti parvi orribile. Ma chi può mai giudicare l'amore? e chi può dire il termine della voluttà e il termine del tormento, e dove il male cessi d'essere il male e dove il bene cessi d'essere il bene, e per che modo una nuova vergogna crei un amore nuovo, e di che cosa debba vivere l'amore per piacere alla morte? Come fate voi a condannare e ad assolvere? Nulla è certo fuorché la crudeltà e la fame del cuore, e il sangue e le lacrime, e la fine di tutto; e neppure si sa quale sia il tempo di piangere. Ma forse c'è ancora da scoprire qualche dolore più lontano. Il mio lo conosci?
Era ella in un di quei momenti in cui pareva estrarre sé medesima dal suo masso e occupare l'aria come una creatura del Titano, come il ginocchio come l'omero come il cubito come il seno dell'Aurora la occupano.
- Ah, vieni! - disse alzandosi e prendendo per mano l'amato. - Voglio ancora tenerti fra le braccia.
Lo trasse nell'altra stanza, verso il gran letto verde che sapeva i loro delirii e i loro sonni, voluttuosi come gli amplessi, e i loro risvegli balzanti di desiderio sempre novello.
- Vieni. Conoscimi, prima di lasciarmi. Respirami. Cercami. È la nostra caverna verde. Pensa che siamo sotto l'oceano, che l'oceano ci nasconde, che nessun'altra cosa ci tocca. Metti il tuo dolore contro il mio dolore. Ah, non senti, non senti che il mio è più grande? Non senti come il mio sangue aumenta, come le mie vene si gonfiano, come le mie ossa si rinforzano? Mi sembra che non so qual essere maraviglioso voglia nascere da me. Lo senti? Ti riesce d'abbracciarlo? Ah, non tu stanotte, non tu puoi tenermi fra le tue braccia; ma io ti terrò.
Veramente ella gli sembrava ingigantita e tale che la sua carezza non potesse percorrerla. Veramente ella era come l'Aurora, scolpita nel masso della doglia umana e sol cinta sotto le mammelle dalla zona che è come quel cerchio che divide in giorno e in notte la sfera del mondo, non vergine ma sterile e affaticata dall'ansia perpetua della maternità inespressa.
- Conoscimi, - ella diceva - conoscimi, prima che io mi separi da te, prima che tu mi lasci. Metti la tua pena contro la mia pena. Tenta di scuotermi e di sollevarmi per sentire il peso di quel che dentro mi pesa più della mia carne. Fammi sanguinare ancora, se non sai ancora di che sa il mio sangue. Fammi ancora male, amor mio dolce, fammi sempre più male finché tu mi somigli; perché in nulla possiamo somigliarci se non nella crudeltà, ma tu non puoi eguagliarmi nel patirla. Ricordati del mio pianto come io mi ricorderò della parola che accompagnava i tuoi colpi.
Una disperazione frenetica empiva l'uomo, a cui nessuna carezza valeva perché ella si sentisse conosciuta. Forse ella non gli diceva quelle parole se non per fargli sentire la sua solitudine. E di tratto in tratto nel silenzio notturno, come una implorazione di ciechi, saliva il clamore della folla rinchiusa.
- Eccomi. Prendimi quale sono, almeno una volta.
Prendi me, me e non la forma del tuo delirio. Che almeno una volta io sia tutta tua, che almeno una volta tu mi possegga!
Egli le suggellò la bocca per soffocarle la voce; egli le prese con le labbra il fiato, il più profondo fiato, quello che sanno le vene i sogni i pensieri; egli le prese con le dita il mento e con l'altra mano la nuca, come la prima volta, e la tenne e bevve sinché non venne alla sua saliva il sapore dei precordii.
E delirarono, fuori del tempo, fuori del mondo. Tentarono di ritessere con le loro fibre vive una trama più stretta, tentarono di fare con le loro due vite una morte che fosse simile a un'altra vita. Non s'arrestarono se non per sentire l'anima spezzarsi a traverso la carne, credendo che ciascuno fosse per rapirne in sé la metà dolorosa. Sperarono di assaporarla nella saliva nel sangue nelle lacrime nel sudore nella semenza. Ricaddero, si risollevarono.
Ella diceva:
- Conoscimi.
Ella diceva:
- Cercami. Raggiungimi.
- Uccidimi.
E invano. Ricaddero, estenuati.
Egli rimase giù, come esanime. Ella si risollevò sul gomito, implacabile; e guardò le mura, ascoltò la notte, palpitò d'aspettazione. Tutto era silenzio. Il clamore dell'anfiteatro era cessato. L'orecchio vigile percepì il gemitio d'una cannella nel piccolo giardino. Seguendo quel suono, il cuore si nempiva d'un'onda penosa, traboccava e poi si vuotava.
- Che ascolti? - mormorò il giacente, senz'aprire gli occhi.
Ella lo guardò. Egli giaceva sul fianco sinistro, riverso il capo, sottoposto il pugno e il polso alla gota, piegato una gamba sotto l'altra distesa e disteso il braccio lungh'esso quel fianco sino alla coscia nervosa, simile a un Tebano che non avesse sciolto l'enigma ferale ma avesse provato la mammella e la branca della Sfinge. Non aveva le sue armi accanto a sé, era inerme e spoglio; appariva tuttavia della razza guerriera, della specie espedita, col ventre depresso tra le costole e il pube, con le clavicole risentite ond'emergeva il collo asciutto, con l'omero prominente e liscio come il ciottolo, col torace saldo come il corbame della carena, con i piedi magri che palesavano le cinque corde. Nessuna mollezza: abolito tutto ciò che è molle, fuorché il frutto della bocca; ma contrapposizione ed equilibrio di forze come nell'architettura dorica, proporzione nella solidità. Il teschio traspariva di sotto alle màcie ben modellato dal divino vasaio; l'occhio era incastrato sotto l'arco del sopracciglio, come una virtù inflessibile; la fronte non aveva se non una sola ruga ma verticale, nella linea delle cose confitte, ma fiera come una cicatrice inveterata; il naso di retto profilo era nettissimo, come le cose che separano.
Ella lo guardava disgiunto da sé, eppure ossa delle sue ossa, carne della sua carne; lo guardava solitario, serrato con tutto il congegno delle membra intorno al selvaggio dolore, eppure indissolubile.
Era l'ultima notte, l'ultima volta? Palpitò in tutte le fibre, chinandosi sul corpo vinto; e con la voce delle sue viscere anelò:
- Si muore?
E non seppe perché così dicesse; ed egli non rispose, ma si stirò come chi rende lo spirito.
E in lei lo spirito si confuse. Un senso confuso di duplicità era nel suo corpo. Ella si sforzava all'attenzione, ma non udiva più il rumore dell'acqua né altro rumore conoscibile. Il silenzio viveva ingannevole, traversato da suoni che mutavano di natura quando l'orecchio era per riconoscerli. A un tratto le parve di riudire il passo della notte di Volterra, quel passo continuo e indistinto che l'aveva empita di spavento.
- Vana!
Vide nell'ombra dell'uscio la figura bianca della sorella, coi capelli sciolti come in quella notte, col bianco degli occhi balenante come in quella notte; che la fisava, premendosi con una mano il costato.
- Vana! Come sei qui? Come sei entrata? Vana! Ella balzò dal letto, verso di lei che scompariva.
Passò la soglia, traversò la stanza attigua, chiamandola. Si trovò nel buio e nel terrore.
- Paolo!
Egli accorse. La raccolse, la portò su i guanciali, la tenne fra le braccia.
- Non l'hai veduta?
Le mascelle tanto le tremavano ch'ella formava a stento le parole.
- Sei allucinata. Isabella, Isabella, non aver paura, non tremare così.
Egli stesso non dominava il suo cieco sgomento.
- Era Vana, era proprio Vana. L'ho veduta. Stavo per toccarla. È fuggita. Va' a vedere... Forse è là.
- Tu deliri.
Egli le palpava le tempie per sentire se ardessero. Cercava di placarla.
Ella gemeva:
Non era più la grande creatura titanica, non era più l'Aurora. Era una povera creatura tremante che si rannicchiava contro il petto di lui bisognosa di rifugio e di protezione.
- Ho freddo.
Seguitava a battere i denti. Nella stanza, con l'avanzar della notte, il calore diminuiva.
Egli la coperse. Ella gli si avviticchiava, aderiva tutta a lui così che parve fosse venuta nella sua carne la forza delle ventose e delle spire. Si lamentava talvolta, con quel suo fiotto di fanciullo infermo.
- Ahi - gemeva, perché le lividure le dolevano, perché ora il suo dolore era fatto di tanti piccoli dolori.
Ma a poco a poco da quel viluppo un lento bene si generava come dall'innesto quando s'appiglia e la pianta innestata sparge le vene con l'altra e un medesimo succo le addolcisce e nutre.
- Ahi - ella gemeva; ma non era più il lamento puerile.
Era l'allarme del desiderio assalitore. E il sangue aumentava, e le vene si gonfiavano, e le ossa si rinforzavano. Ed ella ridiveniva grande e potente. E anche una volta ritentavano essi di fare con le loro due vite una morte che fosse simile a un'altra vita.
Ella diceva:
- Si muore.
Ma non sapeva di ripetere una parola già detta, e forse detta verso un altro mistero.
E ricaddero, e si risollevarono. E la notte si consumava. E ricaddero come per non più rialzarsi. Il sonno bestiale piombò su i loro corpi schiumanti, li schiacciò. E per gli interstizii degli scuri entrava il giorno, prima pallido, poi raggiante. E i colpi all'improvviso battuti sopra l'uscio del corridoio non ruppero quel sonno, ch'era veramente il fratello del nero dèmone.
Sentendosi scuotere, la misera si svegliò con un sobbalzo; e urlò di nuovo terrore perché credette di vedere al suo capezzale la femmina dai capelli rossicci e lisci, dal viso sparso di lentiggini, dagli occhi albini, la femmina che portava l'odore sinistro nel grembiule rigato, la cucitrice del lenzuolo ov'ella aveva trovato quel sonno.
Era la donna discreta che, non udendo alcuna risposta al suo battere, aveva osato entrare per risvegliarla.
- Signora, signora, c'è Chiaretta. Dice che ha bisogno di vederla subito.
La misera non riesciva scrollare da sé il letargo.
- Chiaretta! - balbettò ricadendo sul guanciale.
- Che vuoi?
- Si svegli, signora, si svegli! - insisteva la donna.
Paolo aveva aperto gli occhi e nell'ombra incerta, ove ardeva ancora la lampada velata ed entravano per gli interstizii i raggi del mattino, aveva sentito quell'aura misteriosa che accompagna la sventura. Subito fu in piedi, indossò una veste, uscì nel corridoio, vide Chiaretta stravolta e singhiozzante.
- Che accade?
- La signorina...
- Vana?
Da prima ella non poté continuare ma fece il gesto orribile, il gesto che non lascia dubbio né scampo. Dopo, sotto le domande ansiose, trovò la forza di narrare con parole confuse e interrotte: la scoperta lugubre, la finestra spalancata, la salma irrigidita... La voce di nuovo le mancò perché scorse tra i lembi della tenda un viso ch'era come quello di laggiù. Isabella aveva traudito, aveva compreso.
Allora lavare e vestire quel cadavere virgineo non sarebbe stato così triste sforzo come fu per quel corpo vivente, ancor madido di sudore, ancora schiumoso di voluttà, vergognoso di macchie crudeli, rotto dal lungo martirio dell'orgia; che l'orrore squassava di continuo a modo di una branca protesa a scuotere per la nuca una vittima tramortita ed a finirla senza farla sanguinare.
Poi fu la luce spietata del giorno, fu il sole sul lastrico. Poi fu l'arrivo dinanzi la porta socchiusa a lutto, fu la scala salita quasi con le ginocchia, fu su la soglia la vista del padre ignominioso e della matrigna feroce sopraggiunti al bottino probabile. Più oltre fu l'incontro degli intrusi in nome della legge. Più oltre fu tutta l'abominazione e tutta la desolazione.
E non fu mai silenzio.
Seguirono giorni in cui la vita veramente parve una storia raccontata da un ubriaco rossa di furia e di onta. Ovunque la volontà del dolore cercò uno scampo, ovunque trovò una via senza uscita, una muraglia cieca, un'insidia coperta. Nella sera di Mantova il bisogno di sfuggire aveva cacciato l'adolescente tra le pareti ignote, di soglia in soglia, d'andito in andito, di stanza in stanza, per l'irremeabile ruina: ogni porta, piena di minaccia; ogni scala, piena di terrore; ogni corridoio, come un abisso. Tale non egli soltanto ma ciascun superstite, non nel Palagio del Sogno d'estate ma nel nesso e nel flesso degli eventi e delle sorti, nella distretta degli impedimenti e delle necessità, nel segreto del suo proprio spirito e nella contingenza dei casi manifesti. Ogni proposito d'azione sembrava trarre dietro di sé il fantasma d'un delitto.
E in un'ora più nera di qualunque altra, Paolo Tarsis credette ricevere il messaggio del compagno fedele oltre la morte. Da una lontananza infinita gli tornavano nel cuore antiche parole, ben note: «Ma più da presso mi vieni, ché un poco, abbracciandoci insieme l'uno con l'altro, possiamo godere del pianto di morte». Non egli le rivolgeva al compagno; ma il compagno a lui le rivolgeva. Il voto della triste fidanzata divenne anche il suo voto: «Verrò, fra poco verrò».
S'avvicinava l'anniversario eroico. Già correva il nono mese dal giorno del lutto. Il popolo di Brescia, apprestandosi alla nuova festa dedàlea, aveva decretato di porre un segno in memoria del caduto su la pianura sottoposta al suo immenso stadio azzurro. Dopo le gare la statua della Vittoria sul carro rustico, sul plaustro dei coloni di Roma tratto dai sei buoi lombardi, era tornata nella sua cella a piè del Cidneo; ma la colonna romana dalle scannellature profonde era rimasta alzata nel mezzo del campo, col suo capitello corinzio involto di acanti corrosi, vedova del simulacro. Per decreto del popolo prode una statua novissima, fusa nel bronzo fornito dall'erario civico, doveva sostituire l'antica e rimanervi in perpetuo a commemorazione dell'eroe ligure.
Ora l'opera, allogata allo statuario bolognese Iacopo Caracci, era già pronta nella bottega del fonditore. L'artista aveva fatto di cera due esemplari, essendo l'un bronzo destinato a sorgere su la brughiera bresciana e l'altro su la rupe di Àrdea per voto di tutti i comuni del Lazio. Ora sollecitava Paolo Tarsis perché assistesse al getto.
Da più giorni il costruttore d'ali incatenato alla terra non respirava più ma ansava sotto l'incubo assiduo. Si preparò rapidamente alla corsa, con uno scrollo di sollievo, tanto era il bisogno di essere altrove, di fuggire i fantasmi, di respirare con violenza il mattino.
Era un mattino d'aprile, ma il viaggio fu lugubre. Le montagne s'infoscavano fasciate di nuvole. Soffiava per tutto l'Apennino un vento diaccio. Due volte egli fermò la macchina per tornare indietro, perplesso: due volte vinse il presentimento che lo mordeva.
A Bologna, tanto crebbe la sua angoscia, che non poté placarla se non tentando di riudire la voce della povera anima lontana. Attese lungamente nell'ufficio delle comunicazioni. Il rombo del suo cuore empiva la cabina ottusa. L'apparecchio era pieno d'un balbettio incomprensibile, ed egli gittava nell'imbuto nero la sua ansietà inutilmente.
Più tardi, andò nella bottega del fonditore. Piovigginava. Sotto la vasta tettoia il forno fusorio era già acceso. Il fumo si spandeva per le travature, strisciava su i cumuli di terra, su i mucchi di mattoni refrattarii, su le crepe le croste le buche delle muraglie. E il ricordo dell'inferno di Monte Cèrboli gli passò nello spirito.
Iacopo Caracci lo condusse su pel margine d'una fossa piena d'ombra ove si movevano i manovali taciturni. Di sotto alle catene alle funi agli uncini dei paranchi, per mezzo ai fasci di stipa, alle portantine dei crogiuoli alle corbe di metallo bruto, lo condusse verso quella delle due cere non ancora rivestita della tonaca di terra.
Il volatore palpitò e s'illuminò. Una forma possente s'ergeva dinanzi a lui con l'ali aperte. Era Dedalo? era Icaro? era il Dèmone del folle volo umano? Non era l'artefice ateniese, il fabro della falsa vacca, né era il suo figlio incauto; perché il corpo gagliardo, fra le due età, rivelava il vigore adulto, giunto alla perfezione del crescere, compiuto. Pareva che uno degli Schiavi michelangioleschi, un di quei quattro che il Titano lasciò sbozzati nei massi e il nepote Lionardo offerse al duca Cosimo, alfine con un colpo di spalla e un colpo di ginocchio si fosse sprigionato dall'aspra ganga e col nerbo delle braccia franche avesse imbracciato due ali per le guigge al modo di due grandi clipei e con tutto lo scatto delle congiunte gambe pontando i piedi spiccasse il volo.
«Àrdea!» Il vincitore di Brescia riudì entro di sé il grido della moltitudine, riebbe un brivido dì quell'ebrezza quando una intera stirpe fu nuova e gioiosa in lui; rivisse gli attimi sublimi quando il Pilota invisibile gli era tra l'una e l'altra ala come uno spirito del vento, quando il cuore gli tremò perché v'era nato il pensiero d'andare più oltre, quando non la Nike soltanto ma tutta la gloria di sua gente era alzata su la colonna di Roma.
Non poteva quell'impeto di uno e di tutti essere espresso in simulacro con più alto stile. Fortemente egli lo disse all'artefice commosso; che anche nell'aspetto somigliava al Buonarroti, con una testa camusa di Sileno barbato su un piccolo corpo arido come un viluppo di corde da balestra.
Ma il metallo tardava a struggersi; la fornace ardeva con poco alito. Il bagno non era ancor pronto, né il canale; i manovali lavoravano ancora nella fossa fusoria. Il maestro di getto, guardando il cielo piovigginoso e fiutando il vento come un veleggiatore alla panna, determinò per l'operazione un'ora tarda della notte. Paolo Tarsis uscì ma promise di ritornare.
Vagò nella sera sciroccosa, per la città malinconica, sotto i portici eguali. «Compagno, compagno, ti ritrovo!» diceva egli allo spirito della statua alata e all'imagine viva del fratel suo. Se bene una parte dell'anima gli fosse penosamente protesa verso l'orrore lontano, egli aveva dalla lontananza e dalla mutazione un senso involontario di libertà. Gli sembrava che una sera d'amicizia tornasse a lui dopo tante sere torbide e inquiete. Il ricordo gli palpitava dentro come un cuore ridivenuto duplice, gli rendeva gli accenti gli sguardi i gesti dell'essere caro, glielo faceva vivo come quando insieme avevano osservato dal limitare della tettoia i segnali del vento e compianto il pollame testardo e irriso la millanteria bracata e fatto il proposito sorridendosi emuli dagli occhi leali. Egli lo sentiva in sé come nelle lor grandi ore di silenzio, quando l'uno e l'altro erano una sola armonia operosa; lo sentiva rivivere più frescamente che se gli camminasse al fianco per quel portico solitario; se ne sentiva occupato come se fino a quel punto lo avesse tenuto nascosto e lo avesse nutrito delle sue vene e lasciato respirare pe' suoi polmoni, soffrire e gioire coi suoi precordii, sognare con la sua tristezza, attendere con la sua pazienza, sperare con la sua fede. «Compagno, compagno, ti ritrovo. Credevi tu che ci saremmo ricongiunti dopo tanta mia perdizione? Credevi tu che avremmo ripreso insieme il volo come in quel giorno quando ti venni sopravvento per raggiungerti, e nel vortice dell'elica ti gittai il nostro grido di richiamo e di allarme? Se tu vinci, io vinco. Se io vinco, tu vinci. Così pensavo io, così tu pensavi. Ora, vedi?, ci hanno fatto due statue gemelle, ci hanno dato il fuoco e il metallo; e saranno fuse l'una dopo l'altra nella stessa fornace, per la tua vittoria e per la mia vittoria, per la tua memoria e per la mia memoria. Come potrebbero nell'anniversario incidere il tuo nome senza incidere il mio? Come potrei non tentare la grandezza del nostro sogno più disperato, per te, per me, innanzi quel giorno? Tutto questo tempo di viltà e di delirio, io t'ho tenuto addormentato nel mio profondo, t'ho lasciato sognare sotto il mio male. Nelle pause dell'orribile rombo ascoltavo il tuo respiro. E talvolta mi pareva intendere la tua voce che indicava la rotta. Te ne ricordi? Ponente una quarta a libeccio! -»
E vide il ripiano di Àrdea, la rupe di tufo tagliata ad arte, la valle dell'Incastro, la chiostra dei Monti Latini, e una colonna dorica rigettata dal mare di Circe e portata lassù a forza di buoi e piantata nella cittadella e sopravi imposto il bronzo sacrificale e trionfale. E imaginò un volo infinito, sopra un'onda che come quella del Lete gli toglieva ogni memoria della riva di giù. «- Anch'io. - Ti ricordi di quella parola detta sorridendo? È la parola di tutti quelli che amano, è la parola del grande amore. Tu me la dicesti, con gli occhi negli occhi. Quanto ho dovuto patire e di quali mali, prima di potertela ripetere! Ma era necessario che così fosse. Per ciò non rimpiango l'immensa forza che ho consumata nella sterilità. Era necessario che così la consumassi perché io potessi riaverla da te nell'ora segnata dalla doppia sentenza. Siamo superstiziosi, come tutti quelli che giocano i giochi terribili. L'indovino di Madura! Quella che di tanto lontano ti portò la rosa del presagio, tu lo sai, ha rifatto il suo viaggio. Tutte le rose della sua cintura te le portò e te le posò su i piedi congiunti. E prima di rimettersi nel cammino del ritorno, tu lo sai, ha rinfrescato i suoi piedi nudi col fresco delle stesse rose! Ti amava. Era veramente la tua fidanzata segreta. Ma, quaggiù, dove avrebbe potuto ella cercarti se non in me che ti nascondevo? Ti amava. Lo sai. Avendo nel suo piccolo cuore una forza sovrumana, la sorte non le ha concesso se non di essere un presagio e un annunzio. È la nostra sorella dell'altra riva. È la rondine della nostra primavera.»
Pareva che il fiato dell'amicizia addolcisse e serenasse il suo dolore per quell'umida e tiepida sera d'aprile ove la vecchia città di mattone fumigava con le sue torri come torchi spenti nei suoi chiostri senza fine contigui. «E io? non sono più nulla per te, Aini?» disse allora una bocca sanguinosa. «Ricordati del mio pianto come io mi ricorderò della parola che accompagnava i tuoi colpi..» E il tormento ricominciò, più fiero.
Egli salì in una vettura e si fece ricondurre all'albergo, sperando di trovare qualche notizia, un dispaccio di risposta. Nulla. Un carrozzone pomposo come un feretro entrava con rimbombo nell'atrio portando una sola viaggiatrice: una piccola vecchia grinza e adunca, che lo guardò con due occhi di gufo. Sotto il colonnato egli rivide la tavola dove s'era seduto con Isabella nella breve sosta, in quel pomeriggio di giugno. Un facchino aveva lasciato là uno strofinaccio; le sedie di vimini vuote stavano intorno a guardarlo.
Dopo pranzo uscì di nuovo per le vie non sapendo come ingannare la sua ansia. Sotto un portico violentemente illuminato udì un clamore di folla, uno scroscio di applausi. Alle mura e alle colonne pendevano imagini di pugilatori giganteschi in atto di combattere, seminudi, coi pugni armati di guanti enormi. Entrò in una vasta sala gremita, afosa di mille petti anelanti. Sopra un palco recinto di corde un bianco e un negro combattevano assistiti dall'arbitro. Ma non era un combattimento, era una carneficina disgustosa. Il bianco, già ridotto un cencio sanguinante, aveva le labbra lacere, il naso pesto le palpebre gonfie tutto il ceffo disfatto; ma resisteva tuttavia con un coraggio inumano, sputando nel sangue ingiurie atroci contro il suo carnefice. Il negro ghignava dalla larga fauce piena di denti d'oro, e senza pietà scagliava contro la mascella dell'avversario il pugno infallibile. Facilmente egli avrebbe potuto con un urto nello stomaco abbatterlo in modo che non si rialzasse più; ma pareva ch'egli avesse un vecchio rancore da sfogare, una lunga vendetta da compiere. Il bianco era ornai stremato di forze; ed egli lo teneva in piedi, come se giocasse con un fantoccio, rimettendolo a piombo per la rapidità dei colpi alterni a destra e a sinistra. Tutto il palco era sparso di sangue. Le viscere della folla urlarono: - Basta! Basta! - I denti d'oro brillavano nel ghigno scimmiesco. Le guardie intervennero.
Paolo Tarsis, che pure tante volte s'era appassionato a quegli spettacoli, fuggì sconvolto, col cuore in gola. Si ricordava del giorno in cui egli e il compagno avevano assistito, in Sidney, dai gradi d'un immenso stadio capace di ventimila spettatori, sotto la giovine luce, al pugilato supremo fra il negro Jack Johnson e Tommy Burns il Canadese, finito in carneficina anche quello. Come entrò nell'ombra, all'estremo del portico, due o tre bagasce in agguato lo sollecitarono. Da un caffè fumoso veniva un coro ignobile accompagnato da uno stridio di mandolini e di chitarre. Un chiarore verdognolo, dalla vetrina d'una farmacia, non rischiarava se non le tracce dei piedi umidicci su le lastre. Ed era una notte d'aprile.
«Spero di vedere a faccia a faccia il mio Pilota quando io abbia passato la linea.» Egli ripeteva al suo disgusto e al suo rimorso le parole del poeta d'In memoriam care all'amico, mentre andava verso la bottega del fonditore.
Iacopo Caracci lo attendeva presso il forno.
- Ebbene?
- Il metallo si comincia a muovere.
Rimasero l'uno accanto all'altro, taciturni. Lo statuario aveva tra le dita una pallottola di cera bruna e la brancicava di continuo. Il forno ruggiva da tutti i forami splendendo. Il mastro ficcò in una buca una lunga verga adunca e tentò il bacino. La verga ritratta ardeva incandescente nella mano quasi incombustibile, e tutta la persona s'avvampava al riverbero. Due manovali stillanti di sudore issarono l'ultima corba di metallo bruto, e a uno a uno fecero calare i masselli nell'ardore che abbrusticava le braccia villose. Il forno crepitò e crosciò nelle sue armature ferrate, mentre per lo spiracolo del tirante si vide lampeggiare il migliaccio liquefatto.
- Pronti? - chiese il Caracci, un poco pallido, lasciando cadere la cera ammollita dal pollice e dall'indice in cui aveva constretta la sua irrequietudine.
Gli operai carponi spargevano stipa accesa nel canale interposto tra la parete della fornace e l'entrata della forma per asciugar la terra fresca. Un di loro teneva già in pugno il mandriano che doveva percotere la spina e sprigionare il bronzo liquido. Il mastro era salito in piedi sul tavolone che attraversava la fossa fusoria.
- Do? - chiese l'uomo in atto di vibrare il palo di ferro.
Allora parve a Paolo Tarsis che l'aria ripalpitasse d'un'ansietà religiosa come nell'attesa del miracolo. Egli respirò nell'anima stessa del fuoco e nell'anima del fratel suo. Il primo urto del ferro gli risonò nell'osso del petto. Una vena furente e fulgente si precipitò nel varco, più divina delle divine meteore. E non era la colata del metallo strutto che soffiava e stridiva nei rami di gitto a riempire il cavo della statua bella, ma era la bellezza e l'immortalità d'una seconda vita che perpetuava l'ideale imagine fraterna e esaltava il superstite in una subitanea purificazione. Quando la forma fu piena e la leva s'abbassò e il turo chiuse la bocca rigurgitante e il metallo superfluo s'incupì nel fermarsi, egli sentì che il rito del fuoco s'era compiuto dentro di lui e che la parola del rito non poteva essere se non quella del compagno: «Anch'io».
Si volse a Iacopo Caracci e lo vide ancor pallido sotto la maschera di polvere e di fuliggine; e s'accorse ch'entrambi erano su l'orlo della fossa fusoria e che egli stesso portava le vestigia ignee sul viso.
- Quando la mia? - domandò allo statuario.
Questi subito comprese che la domanda alludeva alla seconda fusione.
- Fra due settimane.
- E il metallo?
- C'è già, e buono. Venga a vedere.
L'artefice lo condusse dove i masselli erano accumulati.
- Io non so se potrò tornare - gli disse Paolo Tarsis. - Ma mi prometta che mi avvertirà.
- Sicuramente.
- Le affido un pegno che m'è preziosissimo. Le mani che hanno modellato una tale opera sono certo mani sicure.
Un fervore così virile riscaldava quella voce, che il costruttore di statue guardando il costruttore d'ali conobbe anche una volta come il dolore non sia se non creazione. Egli sentiva che in colui era per crearsi un grande evento. Parve che in quel punto il genio dell'amicizia toccasse entrambi. Disse con semplicità:.
- Non sorrida della mia superstizione. Le affido questo anello: non vale se non per la data che v'è incisa. Quando il bronzo dell'altra statua sarà liquefatto, lo getti nel bacino.
Era un povero cerchietto d'ottone, tolto alla martingala del cavallo che impennandosi aveva ricevuto in pieno petto il lungo coltello del juramentado nell'isola di Sulu.
- Sarà fatto - disse il postremo discepolo di Michelangelo.
- Ora mi lasci rivedere la cera.
Andarono laggiù, in fondo, nel buio. Un giovinetto nero di fuliggine rischiarava il passo tra gli ingombri con un pezzo di torcia. Il ricordo di Aldo nel sepolcreto etrusco traversò lo spirito di Paolo Tarsis, con una raffica di cose torbide e crudeli.
- Alza la tua torcia! - disse Iacopo Caracci al manovale.
E pel color bruno la statua pareva già fusa nel bronzo, pontata su i piedi dai tendini tesi per iscoccar di terra, con le due ali imbracciate come due vasti clipei, col volto ardentemente riverso a divorare il cielo.
S'accomiatarono, come due che legava una promessa misteriosa. Nel passare lungo la fossa fusoria, Paolo vide il metallo superfluo rimasto nel rigagnolo murato. Si chinò per raccogliere un colaticcio che sopravanzava all'orlo, di mattone, credendolo già freddo: ma si scottò le dita. Allora il giovinetto fuligginoso lo prese con una tanaglia, lo tuffò in una secchia ove strise: poi l'offerse. Aveva la forma di una mano.
Era notte alta, ma la nuvola qua e là rotta scopriva le stelle fioche. La luna nascosta diffondeva un albore simile all'alba giù pei lunghi chiostri solitari. Che faceva Isabella? Non dormiva: aveva ucciso il sonno. Né egli sperava di chiudere gli occhi.
Soltanto li chiuse al mattino. Gli sembrava d'aver vegliato il suo compagno una seconda volta. Non aveva pianto col pianto di Vana, ma aveva compiuto il rito del fuoco.
Quando si svegliò, era tardi: non era giunta notizia alcuna. Diede gli ordini al meccanico per la partenza. Uscì per andare all'ufficio delle comunicazioni. La piazza ancor umida di pioggia splendeva al sole di aprile come se tutta consentisse alla grazia della sua fontana; la terracotta della vecchia città sembrava perdere il fosco e il sanguigno, tingersi di rosa novella. Egli ebbe un desiderio disperato di riudire la voce che gli faceva tanto male.
Ansioso entrò nella cabina imbottita come quelle stanze atte a spegnere il clamore dei supplizii. Prima udì nell'apparecchio il rombo come d'un traino che si dilegui, poi al suo chiamare udì Isabella rispondere.
- Isabella, sei tu?
- No, no, non sono.
- Sì, sei tu. Riconosco la voce. Mi senti?
- Oh, sempre quel passo.
- Non so, non so. Ho la testa così debole! La testa mi va via... E poi viene quella donna, che me la prende.
- Quella dal grembiule rigato.
Egli ebbe il gelo in tutte le ossa. A traverso la distanza, su da quella bocca nera e insensibile, il soffio della follia gli ventò sul viso e l'agghiacciò.
- Dove sei? Sei a Mantova? Ah, non dovevi andare!
- Non sai che sono qui? Aspettami. Parto subito.
- Non dovevi guardare in quello specchio. Ho paura, ho paura.
- Isabella, ascolta! Mi senti? Parto subito. Non vuoi vedermi?
- Ah, come potrei vederti ora, dopo che ho fatto questo?
Ella soggiunse debolmente, come se parlasse a sé:
Egli aveva creduto che, di là dalla miseria di quel risveglio improvviso nella stanza verde, non potesse la vita dargli nulla di peggio. Ma in tutto il passato nulla eguagliava d'atrocità quell'angoscia soffocata da quell'angustia, quegli impeti di soccorso troncati da quel novo strumento di tortura che avvicinava e separava a un tempo, che giocava con l'illusione della presenza e con la realtà dello spazio.
- Dove sei stata? Sei uscita? Quando?
- No, mai. Non sono uscita mai; ma...
- Parla!
- La senti che cammina sempre?
- Isabella, Isabella, parto subito. Fra tre ore sono con te. Vieni laggiù, da noi.
- Come posso? Tu lo sai quel che sono, tu l'hai detto...
Una voce estranea interruppe bruscamente la comunicazione, fra uno scampanellio assordante. Quando egli uscì dalla cabina, tutti si volsero a guardarlo, tanto il suo aspetto era miserabile.
Non respirava più. Gli pareva che non avrebbe più potuto respirare se non in quella bocca disseccata dall'aridità della follia. Sospingeva la macchina col suo cuore, su per l'erta, intentissimo ai ritmi di tutti i congegni, sapendo che la sorte era congiunta allo scocco d'una scintilla, al distacco d'un filo. Era a pochi chilometri dal Covigliaio, nell'Apennino, quando s'accorse che il motore non pulsava più. Egli stesso non aveva più palpito. Il meccanico scosse il capo e corrugò le sopracciglia, indovinando il guasto al magnete. Ogni tentativo fu vano. Rimasero fermi su la strada, nella solitudine.
Come passava una vettura di posta, Paolo si fece portare fino al Covigliaio per chiedere aiuto. Eran quasi le cinque, e la sua ansietà s'aggravava di presentimenti funesti. Tornò indietro con un meccanico addetto all'albergo. Dopo un'ora di lavoro la macchina ricominciò a camminare. Percorso un chilometro appena, si fermò: stette là, su la strada solitaria, ammasso pesante e inerte, con l'aspetto ottuso dei bruti caparbii, resistendo a ogni stimolo a ogni industria. E la disperazione prese l'uomo.
Il tempo era lentissimo. Il giorno si consumava. Una grande serenità pendeva su la montagna deserta. Tutte le cime si doravano e le ombre si facevano quasi rosee. La luna insensibile, d'una delicatezza quasi carnale, priva di raggi, con una vita senza fuoco, saliva di dietro un culmine ch'era simile a un omero che ritenesse il lembo d'una tenue tunica violetta. Ed egli ripensò il plenilunio d'agosto su la marina pisana, la bianca terrazza coronata d'oleandri, la danza degli orizzonti, il mimo dell'ape. Dov'era, che faceva in quell'ora Isabella? andava forse al nascondiglio? E lo trovava chiuso!
Il tempo fluiva, la luce diminuiva. Gli sforzi per sanare il congegno infermo erano vanissimi. In che modo avrebbe potuto egli giungere alla città? Omai la speranza di riaccordare il motore era perduta. Stava in ascolto per distinguere un indizio lontano, per scoprire se qualche veicolo si avvicinasse; quando in fatti udì nel valico il rombo ben noto.
Si credette salvo. Riconobbe la macchina di Maffeo della Genga, carica di donne velate e incappucciate. Era un'allegra compagnia. Com'egli domandò soccorso, da prima gli fu dato il meccanico perché col suo facesse un ultimo tentativo. Poi, come cadeva la sera, gli fu offerto d'incastrarsi fra i posti occupati.
Ripartirono lasciando su la strada la carcassa inanime. Dal Covigliaio mandarono buoi a tirarla. Filarono su Firenze senz'altri indugi. La montagna era tutta violacea. Faceva freddo. La compagnia si rattristava, serrata e silenziosa. Paolo sentiva che ogni minuto aveva un'importanza incalcolabile e ch'egli correva verso una catastrofe oscura. Certo, ogni minuto aveva il suo peso; e nei pressi di Pratolino ne andaron perduti dieci per accendere i fanali mal pronti. Eran passate le otto quando entrarono in città. Paolo fu deposto alla porta del suo rifugio d'amore. Ringraziò breve: aprì il primo cancello, fece per entrare. Ma un domestico dell'appartamento di sopra venne giù per le scale come se lo aspettasse e dovesse dirgli qualcosa.
Si scusò; poi su la soglia, a bassa voce, gli disse:
- Dianzi, potevan esser circa le otto, abbiamo sentito sonare il suo campanello e battere alla sua porta con insistenza. Poco dopo, un uomo è salito su per le scale e con malo modo ha incominciato a battere alla nostra porta gridando: «Aprite! Siamo agenti di polizia. Questa donna non appartiene a questa casa? Aprite, o gettiamo giù l'uscio». E seguitava a picchiare coi calci e coi pugni imbestiato. La mia padrona sbigottita non voleva che io aprissi. Allora mi son fatto al finestrino, e ho veduto giù per le scale appoggiata alla ringhiera una signora alta, snella, che m'è parso di riconoscere per quella ch'è solita venire qui da lei. Un altro uomo era accanto alla signora, che sembrava impietrita. Al mio diniego, la guardia insisteva. Persuaso finalmente che noi non si voleva aprire e che la signora non apparteneva alla nostra casa, egli è disceso con l'altro e ha ripreso lo strepito qui alla sua porta. Ho udito confusamente la signora disperarsi e dire con la voce soffocata: «Lasciatemi! Lasciatemi! Non sono quella». Non potevo far nulla per soccorrerla perché Mrs. Culmer sbigottita m'impediva di uscire. Ma nell'affacciarmi per un attimo alla finestra ho veduto la signora salire in una vettura publica che aspettava su la via, e andarsene accompagnata dai due uomini seduti l'uno a fianco e l'altro di fronte. Nell'oscurità non ho potuto scorgere il numero della vettura; ma, un momento prima che la signora montasse, avevo chiesto al vetturino: «Dove avete presa quella signora?» e m'è parso ch'egli mi abbia risposto: «In Piazza d'Azeglio». Saranno dieci minuti, appena, che ho visto la vettura scomparire in fondo alla via. S'Ella fosse arrivata dieci minuti prima, l'avrebbe trovata ancora qui!
Il primo impeto fu di correre in fondo alla via. Ma, dopo qualche passo, Paolo riconobbe l'inutilità dell'inseguimento senza tracce. Rientrò. Si precipitò al telefono. Non poté ottenere la comunicazione perché di laggiù nessuno rispondeva. Egli cercava di tenere in pugno la sua volontà e di non perdere la lucidezza; ma le più strane imaginazioni assalivano il suo cervello. Che mai poteva essere accaduto? Com'era ella capitata in mano delle due guardie? L'avevano trovata forse vaneggiante per la strada e avevano tentato di ricondurla? Ella stessa aveva dato l'indirizzo segreto? E perché le guardie con quell'insistenza e, con quella brutalità pretendevano di entrare nella casa di Mrs. Culmer? O forse si trattava di una estorsione tentata da due sconosciuti che, per compierla, simulavano di essere due agenti di polizia? E dove dunque portavano la misera? Che facevano di lei?
Ecco che l'orrore nella cabina cupa non era l'estremo: né l'estremo era pur quello, certo.
«Bisogna trovarla; bisogna sapere» diceva egli disperandosi sotto i lampi sinistri di tutte le imaginazioni. Il profumo del gelsomino di Volterra emanava dalla stanza verde, La tunica nerazzurra era sospesa alla lettiera, con le sue mille pieghe richiuse, come una corda attorta. Allora gli ritornarono nella memoria le parole strane ch'ella aveva balbettate, l'ultima sera, prima di spogliarsi: «Non mi lasceranno più rientrare. Certo mi spiano. Certo ora sanno che io sono qui... Lo Sciacallo! Mio padre e lo Sciacallo!» Poteva essere che quei due avessero tramato l'infamia?
Raccolse il suo coraggio; si dispose a uscire; si preparò a tutto. Prima d'ogni altra ricerca, bisognava andare alla questura, nel caso che i due uomini fossero veramente due guardie e potessero averla condotta nell'asilo di vergogna. Andò. Sentì l'odore singolare che, con quello dell'ospedale e della prigione, è fra i più tristi in terra. Un affaccendamento misterioso agitava le sale, gli anditi; i campanelli tintinnavano di continuo; s'udiva qualcuno singhiozzare e implorare, dietro un uscio. Un ceffo giallognolo sotto la visiera d'un chepì faceva pensare che veramente la Natura ha fatto del volto umano il suo luogo più orrido.
Fu ricevuto da un ispettore cortese, quasi con unzione. La questura ignorava tutto. Nessun ordine era stato dato. Nessun rapporto era pervenuto. Nessuna signora era stata condotta in camera di sicurezza. Inoltre era da escludersi che quelle due persone fossero veri agenti, considerato il contegno brutale d'una di loro. Gli agenti, come si sa, per penetrare in una casa chiusa, adoperano altri metodi: non la violenza ma la scaltrezza, non la forza ma lo stratagemma. Ad ogni modo l'ispettore cortese prometteva di mettersi subito all'opera per chiarire il mistero.
Mancava un quarto d'ora alle undici. Cresceva la notte. Che fare? che pensare? come attendere? Si trattava forse d'un sequestro di persona? compiuto da chi? per mandato di chi? a qual fine? E le parole della povera trasognante, balbettate di sotto il labbro gonfio, di sotto la gengiva sanguinolenta, gli sonavano sempre sul sospetto: «Lo Sciacallo! Mio padre e lo Sciacallo!»
Risolse di andare al Borgo degli Albizzi. Il palagio era chiuso, impenetrabile nelle commettiture delle sue bugne di pietra forte. Non appariva nessun lume alle finestre. Nessun indizio di vita esciva da quel masso di solidità, di silenzio e d'ombra. Al suono del campanello, nessuno rispose. Egli persistette, risoluto a qualunque audacia. Finalmente nella finestra del mezzanino, sopra il portone, apparve il portinaio mormorando:
- Non c'è nessuno. Sono tutti a Volterra.
- Non c'è nessuno.
- Dov'è andata?
- Non c'è nessuno. Sono tutti a Volterra.
La finestra si rabbuiò. La porta, con le sue formelle e i suoi chiodi, era incrollabile. La mole di pietra taceva deserta.
Egli tornò alla questura: l'ispettore aveva fatto ricerche in tutti i posti della città, inutilmente. Tornò alla casa di Mrs. Culmer; svegliò il domestico; lo interrogò ancora, con più acume, con più pazienza. Dalle risposte, un dubbio crudelissimo cominciò a straziarlo.
Tentò di nuovo il telefono. Nessuno rispondeva. Gli parve di udire squillare il campanello nel buio del palazzo abbandonato. Dov'era ella? dov'era? dove la trascinavano?
Non pensò di coricarsi, d'aspettare il giorno nell'immobilità. Uscì di nuovo; per la terza volta vincendo la ripugnanza penetrò nell'antro poliziesco. Nessuna notizia. Come più cresceva la notte, il luogo diveniva più lugubre. Nel silenzio pareva che sola una pentola putrida bollisse.
Era stanco, era digiuno, ma non trovava requie. Ripassò pel Borgo degli Albizzi, spiò le finestre, interrogò la pietra, sussultò a ogni rumore di ruote o di passi. Spinto dalla frenesia del tormento, andò vagando in quella Piazza d'Azeglio nominata dal domestico, intorno a quel giardino pubblico dove la sera si pongono in agguato le meretrici. Leggeri velli aerei scorrevano su le cime degli alberi, bianchi di luna. Nel silenzio non s'udiva se non l'urto dello zoccolo di qualche cavallo da troppe ore fermo su le sue quattro zampe indolenzite. Egli interrogò i due o tre vetturini che sonnecchiavano in serpe. Non seppero dirgli nulla; non seppero se non soffiargli in viso i loro fiati fetidi di zozza.
Alfine, non reggendo più alla nausea e alla fatica, rientrò nella sua vera casa, in quella dov'era venuta Vana a rivelare la cosa mostruosa: «Ho divinato, ho veduto, ho udito».
Non dormì. Si mondò di tanta infezione e di tanto fango. Ritornò nell'altra casa, àl mattino. L'ispettore cortese aveva promesso di mandargli un uomo di polizia per recar notizie e per raccogliere la testimonianza del domestico di Mrs. Culmer. Egli era omai rassegnato a patire tutte le onte, come un supplizio che è inevitabile ma che deve avere la sua fine. «Spero di vedere a faccia a faccia il mio Pilota quando io abbia passato la linea.»
Il delegato sopraggiunse: una figura ambigua, lividiccia, viscida, con una fronte sfuggente, con un mento sfuggente, con occhi fuggevoli. Era la mutazione umana dell'anguilla d'Aristotele, né maschio né femmina, nata da quella sua gran madre universale Putredine.
Subito disse:
- La signora è in casa, è da ieri sera nel suo palazzo. L'ispettore stamani, appena aperto il portone, ha interrogato il portinaio e lo ha costretto a dire la verità. La signora fu ricondotta iersera verso le dieci da due uomini, dei quali uno si dichiarò agente di polizia e nel riconsegnare la signora stese un verbale. Nessun rapporto però è giunto e non si sa ancora quel che sia accaduto. Ora, s'Ella permette, interrogherò il domestico.
Il domestico scese e ripeté il racconto. Ma fu accertato che, avanti il suo accorrere, una donna di servizio aveva avuto con la presunta guardia il primo scambio di parole.
Venne la donna. Era grassa e placida, con piccoli occhi porcini. Mentre cianciava, ella aveva dietro di sé il divano ove nell'ora del vituperio Isabella s'era abbandonata quasi prona prendendosi la faccia tra le palme. Egli la rivedeva là, contro i cuscini, con la sua pallida nuca impudica, con le sue spalle piane, con le sue reni falcate, con la sua lunga coscia obliqua, con le gambe fuor della gonna nelle guaine lucide. E, come la donna cianciava, l'avventura si faceva più orribile; il dubbio crudelissimo diveniva certezza. E gli parve che la parola vituperosa a un tratto riecheggiasse nella stanza, ove sul tappeto brillava una lunga spada di sole.
Egli rifaceva il cammino. La vettura publica giunse con le tre persone. Uno dei due uomini, un giovine magro con un abito grigio a righe, dopo aver sonato e picchiato alla porta di giù, salì e cominciò a strepitare dinanzi alla porta di Mrs. Culmer. Dal suo contegno appariva che egli avesse sorpresa nella piazza quella sconosciuta e l'avesse creduta un'adescatrice di passanti! Chiestole l'indirizzo, egli l'aveva ricondotta là credendo che quella casa fosse una specie di ritrovo galante. S'adirava e strepitava perché credeva che «la padrona» si rifiutasse di aprire per evitar perquisizioni pericolose. Per ciò gridava: «Questa donna non appartiene a questa casa? Chiamate la padrona. Fateci parlare con la padrona». Tutte maniere significative. E la donna dava un indizio ancor più grave. La guardia si rivolgeva alla sconosciuta e le domandava: «Ma che facevate voi, nel tal luogo, che facevate?» La testimone però non si ricordava del luogo nominato; ma anch'ella credeva fosse quella piazza.
Allora la bipede anguilla, evitando sempre di guardare gli occhi chiari, disse:
- Mi sembra che la cosa si vada illuminando. È probabile che si tratti veramente d'una guardia. Là guardia deve aver trovata la signora in Piazza d'Azeglio, che appunto verso sera è mal frequentata nell'ombra del giardino. Colpita dal contegno strano, ha commesso l'errore... Faremo le ricerche. Sapremo tutta la verità.
Paolo udiva la parola di vituperio risonare nella stanza, una volta, due volte, tre volte; e, dopo ciascuna volta, una pausa, come dopo un colpo che atterra. Rivedeva quella faccia distrutta, simile a un pugno di cenere. Poi risentiva soffiare su sé la feroce insania, rivedeva sé nell'atto di percuotere l'atterrata sul viso su le braccia sul petto ruggendo l'ingiuria.
Poteva il destino schiacciare la povera creatura con un calcagno più lurido? Quale invenzione mai poteva eguagliare quella realtà? L'ultimo urto per abbattere quella ragione vacillante era stato dato dal caso con una sapienza degna della più lenta premeditazione. E l'ultima voce, udita a traverso la nera distanza, non pareva avere annunziato l'infamia? «Tu lo sai quel che sono, tu l'hai detto...» L'avevano presa per un'adescatrice di passanti in un giardino publico. Certo, nel terrore, ella aveva dato l'indirizzo della casa d'amore, sperando di trovare il rifugio e la difesa. E l'avevano ricondotta a quella casa come a un postribolo, come per essere restituita al luogo del suo mestiere immondo! E la porta era chiusa. Battuta dai pugni e dai calci, era rimasta chiusa.
Paolo guardava la striscia di sole sul tappeto, attonito. La vita era veramente quale gli era apparsa nella caligine piovigginosa, l'altra notte, sotto il portico, tra la carneficina e l'oscenità, tra il caffè e la farmacia. Per giungere a questo egli aveva costruito le sue ali?
Uscì. Si soffermò a piè della scala; guardò il ferro della ringhiera e i gradini di marmo bianco. «Vale la pena di colare a picco, se non per altro, per non aver più in fondo alle pupille quella fiammella giallastra che iersera illuminava la scala e che è la cosa più lugubre della terra, più lugubre del vomito fetido di un avvoltoio dopo la morte, o Vana beata, martire salva!»
Rientrò nella casa vera, in quella dove l'imagine di Giulio Cambiaso era chiusa nella custodia di lutto.
«I minuti di Pratolino, la sosta per accendere i fanali! Ecco i giochi della vita. Ma, dal momento in cui la vettura col triste carico si mosse, dove fu condotta la povera creatura? dove fu trascinata, sino al momento in cui forse disse il suo vero nome e diede l'indirizzo della sua casa vera e vi fu deposta?»
Un solo uomo in quella sciagura poteva aiutarlo: il dottore. L'aveva incontrato poche volte, aveva scambiato con lui poche parole; ma aveva subito sentito, in quella struttura quadra, in quella mano larga, qualcosa di saldo, di leale, di generoso: una bontà lucida e virile, una energia misurata, un intelletto vigile. Lo cercò, lo trovò. Non lo trovò soltanto in presenza, lo trovò in anima.
Aveva già visitato la demente; appariva triste e perplesso, poiché non conosceva l'episodio della cattura se non nel ritorno dell'infelice accompagnata dai due sconosciuti e riconsegnata al portinaio. - Né Paolo aveva cuore di confessargli la sua miseria e la sua insania.
- L'ho trovata - disse il dottore - non nel suo appartamento ma in una piccola stanza del mezzanino, in una specie di sottoscala, dov'ella si rifugiò iersera come in una tana, risoluta a non più uscirne. Il fratello e la sorellina sono a Volterra. Ora la povera creatura sa che il padre e la matrigna si sono già stabiliti nel palazzo. Per aver soltanto intraveduto la nemica a cui dà il nome di Sciacallo, ella ha gittato tali grida di terrore che dianzi la gente era assembrata sotto la finestra.
Paolo appariva così contraffatto che il medico s'arrestò.
- Continui - disse egli, come se non fosse sotto la parola ma sotto il ferro operatorio. - Continui, prego.
- Per quanto io abbia cercato di persuaderla, non m'è riuscito di trarla fuori dalla sua tana dove non c'è che il nudo muro, una vecchia branda e qualche sedia sconnessa. Il delirio è violento, e non so ancora determinarne tutte le cause. Dianzi, alle mie persuasioni rispondeva: «Non posso, non posso più uscire di qui. Le guardie mi arrestano, mi portano alle Murate. Sono scritta nel libro della questura. Non sa, dottore, chi sono io? non lo sa? Prima c'era uno solo nel mondo, che lo sapeva e lo diceva. Ora quest'uno è andato e m'ha scritto nel libro. Le guardie mi conoscono. Tutti mi conoscono. Come vuole che io esca di qui? Non mi chiamo più Isabella Inghirami. Sa, dottore, come mi chiamo io? Vada, scenda nella via, lo domandi al primo che passa. Come vuole che io esca di qui, con questa bocca? Non vede come mi sanguina? Prima fu una piccola goccia, una piccola piccola goccia. Vana la vide, Vanina la vide, e m'asciugò; con un piccolo fazzoletto m'asciugò, e poi lo serbò; serbò la macchiouna rossa, e aspettò. Ora, vede?, ora non faccio che leccare il mio sangue, e mai non stagna. Chi m'ha pestata così? Quello, sempre quello, quello che m'ha scritta nel libro...»
- Ora, in realtà, l'inferma ha le stìmate nella bocca. Le gengive sanguinano intorno ai denti, le labbra sono arse e screpolate, tutti i muscoli del viso sono stravolti. E certo è questa la più intensa delle sue idee deliranti; ma ve n'è qualche altra, forse più tormentosa e di natura più grave, di cui non so scoprire l'origine.
- Forse Ella può illuminarmi. L'inferma, a intervalli, crede di sentire qualcuno che cammina sotto il suo cranio, un passo concitato che suona dietro l'osso della sua fronte; e il suo terrore di quel supplizio e dell'eternità di quel supplizio è tale che non si può assistere all'accesso senza profondo strazio. Né gli intervalli le dànno riposo, perché è di continuo nello sgomento e nell'attesa di riudire il passo. Se parla, si arresta per ascoltare. Quando l'ode avvicinarsi, si curva tutta sopra sé stessa, e rompe in supplicazioni confuse che non son riuscito a intendere, così forte il terrore le fa tremare le mascelle. Ma una volta ha detto, sotto voce, con un accento infantile: «Bisogna andare andare, mettersi in cammino e andare, a piedi scalzi, chi sa dove...» E mi sembra che in questo delirio entri per qualche parte la sorellina; perché a un certo punto è balzata in piedi, con un'eccitazione spaventosa, gridando: «Ah no, questo no! Mi porta via Lunella, mi si prende Lunella! Ah, questo no! Non me la togliere! Dove la porti? dove la trascini? Non vedi? è piccola, non può seguirti... Lasciala! Perché mi fai questo? Non vedi come sono? Non posso farti più male. Tu mi cammini sopra, tu mi passi sopra. Sono diventata la tua via...»
Paolo si stringeva le tempie fra le mani, e accennava di non poter più udire. L'insonnio, il digiuno, la stanchezza, la violenza delle commozioni finalmente rompevano la sua forza. Le tempie gli si spezzavano. Lo spasimo corporale attutì l'altro dolore. Egli non poté fare altro che distendersi e rimanere lunghe ore nell'immobilità e nel buio.
E questo fu il primo giorno dell'ultima prova.
Il secondo giorno, dopo una notte in cui l'insonnio e l'incubo si alternarono, egli rivide il dottore. Il delirio della demente era cresciuto. Non era stato ancora possibile trarla dalla tana senza provocare una resistenza pericolosa. Il padre e lo Sciacallo, che a vicenda custodivano l'adito, avevano espresso il loro pensiero su la necessità di chiudere l'inferma in una casa di salute. D'entrambi, e della feroce cupidigia ch'essi celavano sotto la sollecitudine, il dottore fece un ritratto spietato. Il proposito fermo d'impedire il delitto, a qualunque costo, ridiede all'agitato la pacatezza esteriore.
- Che cosa posso io fare per salvarla? - dimandò egli. - Crede che le gioverebbe rivedermi?
- Parli senz'alcun riguardo. Non mi risparmi, La prego.
- Quando l'inferma evita di dire il nome di quegli che la fa sanguinare, - rispose con tristezza e con pietà l'uomo dalla larga mano - qual nome essa tace?
- Il mio. È vero.
- Un silenzio penoso piombò su entrambi.
- Che accadde dall'ora in cui essa uscì sola all'ora in cui rientrò accompagnata dai due sconosciuti? - chiese il medico guardando dirittamente gli occhi chiari. - Può dirmelo?
Paolo raccontò quanto sapeva, senz'alcuna omissione.
- Ora comprendo molte cose - disse il medico - e tra le altre questa, la più grave. L'inferma è convinta che fu presa per vendetta di «quell'uno» e che, quando dagli uomini fu battuto alla porta, quegli era dentro e udiva gli oltraggi e godeva della vergogna, e non aprì.
Paolo balzò in piedi tremando per tutte le membra.
- Mi odia, dunque.
- Noto che d'ora in ora l'avversione diviene più acre e assume forme più crude. Stamani, nell'accesso, per la prima volta ha proferito sillaba per sillaba la parola infame che la marchiò, secondo essa dice.
Paolo non sopportava quegli occhi limpidi che lo guardavano; né poteva gridare la sua discolpa. Ma accoglieva la fatalità del male che la misera gli faceva e nell'amore e nella demenza e nella morte. E tacque. E specchiò la sua solitudine nel suo duro silenzio come. in una lastra di marmo nero.
Nel terzo giorno ricomparve l'uomo sguisciante dalla voce dolciastra e dagli occhi fuggevoli. Veniva ad esporgli il risultato delle sue nuove pratiche.
Restò sempre in piedi, parlò sommesso.
- Nel pomeriggio di martedì, verso le sei, la signora fu vista su la scalinata di San Firenze. L'indicazione della Piazza d'Azeglio, data per errore del domestico o per inganno del vetturino, era falsa e forviò le ricerche. Tutta l'avventura si svolse su la Piazza di San Firenze fra le sei e le sette e mezzo circa. Dopo avere esitato, in preda a un'agitazione palese, la signora entrò nella piccola porta che mette nella cappella. Quando ne uscì, prese una vettura e diede l'indirizzo di Borgo degli Albizzi. A mezza strada si pentì e ordinò di tornare indietro. Si fermò di nuovo dinanzi alla chiesa, ed entrò per la stessa porta. Quando ne uscì la seconda volta, era già buio. Come dava in ismanie, un uomo alto e magro si avvicinò a parlarle. L'uomo chiamò un suo compagno, dichiarandosi agente di polizia. Ed entrambi fecero salire la signora in un'altra vettura, e la condussero là dove accadde la scena raccontata dal domestico di Mrs. Culmer. Pochi minuti prima delle otto e mezzo, i due uomini fecero salire di nuovo la signora nella vettura e la condussero in giro, senza meta, aspettando che si rivelasse e desse una indicazione certa. Come passavano per la Piazza Beccaria, si fermarono dinanzi al caffè. Discesero; si sedettero a una tavola. La signora bevve qualcosa; anch'essi bevvero. Quanto tempo rimasero là? Uno d'essi, il magro, diceva: «Non la lascio se non la porto a casa, se non scopro chi sia e dove abiti». Sembra che finalmente, verso le dieci, la signora abbia dato l'indirizzo di Borgo degli Albizzi. I due ve la condussero. Il magro (poiché l'altro taceva sempre) dichiarandosi agente fece firmare al portiere una carta, un piccolo pezzo qualunque di carta. La signora smaniosa disparve su per le scale. I due accompagnatori si allontanarono. Le ricerche minutissime, compiute per trovare tra gli agenti l'uomo indicato, son riuscite vane Nessun rapporto fu presentato al questore. Io penso che l'uomo sia un qualche malfattore temerario che abbia tentato un ricatto. Le ricerche tuttavia continueranno.
E il delegato se ne andò, con la solita aria cerimoniosa e strisciante.
Paolo Tarsis vide il caffè ignobile; vide Isabella Inghirami, - la creatura di tutte le grazie e di tutte le eleganze, la grande farfalla crepuscolare che aveva vinto di levità tutte le aure dell'estate, quella medesima che aveva potuto d'improvviso estrarre sé dal suo masso come una statua severa, e assomigliarsi alla grande Aurora michelangiolesca - la vide seduta tra i due ceffi, dinanzi a un bicchiere impuro dov'ella bagnava le labbra riarse...
E il quarto giorno fu il giorno di Tamar.
- Può dirmi qualcosa della femmina dal grembiule rigato?
- Non comprendo.
- L'inferma a quando a quando vede una femmina rossiccia e albina con un grembiule rigato «che, odora di quell'odore». Rifiuta di coricarsi perché dice che le hanno messo nel letto il lenzuolo cucito da colei, il lenzuolo di tre ferzi. Non conosce nulla, degli ultimi tempi, che possa illuminarmi?
- Nulla.
Tacquero per un poco, pensosi.
- E l'odio? - chiese Paolo Tarsis. - Aumenta?
- «E poi Amnon l'odiò d'un odio molto grande.»Ha una bibbia?
- L'ho.
E Paolo cercò. la bibbia e la diede al medico.
- Ogni giorno porta un nuovo atteggiamento misterioso - disse il medico. - Iersera essa ebbe una tregua fra due tempeste. La tremenda irrequietudine del corpo cessò per un tratto. Consentì a sedersi. Aveva rifiutato il cibo ostinatamente. Era d'un pallore e d'un'emaciazione mortali. I sussulti gli sguardi i sobbalzi erano placati. Solo persisteva il gesto perpetuo di premersi le stimate della bocca. Stette fisa alquanto; poi recitò con un accento inatteso un versetto della bibbia: questo.
Cercò nel secondo libro di Samuele, e lesse:
- «E poi Amnon l'odiò d'un odio molto grande; perciocché l'odio che le portava era maggiore che l'amore che le aveva portato. Ed egli le disse: Levati, vattene via.» Io allora bruscamente le domandai: «Chi è Amnon?» Rispose: «Quegli che mi cacciò e serrò l'uscio dietro a me». Poi divagò oscuramente. C'è dentro di lei un travaglio così fiero che, per contenerlo, non le bastano le sue forze umane. Nella più torbida delle sue tempeste dà prova d'una incredibile potenza di constrizione. Sento di continuo il suo sforzo intorno a un nucleo profondo della sua coscienza, su cui essa poggia e preme con tutta sé come per impedirgli d'insorgere e di manifestarsi.
Restò in pensiero, col libro tra le mani, con l'indice intromesso tra le pagine, nel luogo di Samuele. Egli aveva la maniera dei grandi confessori, dei grandi maneggiatori d'anime: tentava il segreto, con una tentazione quasi inavvertita; poi aspettava in silenzio ma facendo imperiosamente pesare nel silenzio tutte le cose non espresse.
Dopo un lungo intervallo, Paolo domandò:
- Aldo, il fratello, non la vede? non ha cercato di vederla?
- Credo che sia malato a Volterra. Né, se venisse, lascerei che la vedesse. Per ora sono costretto a prescrivere il più rigoroso isolamento. La difendo così anche contro il padre, e contro quell'altra.
- E Isabella non ha mai chiesto di lui? - domandò Paolo, con una voce ch'egli credeva aver chiarito prima di emetterla e che usciva colorata del suo cupo sangue come quel rigagnolo fumido dei bulicami volterrani arrossato dalla rùbrica dopo la pioggia dirotta.
- Non ho finito di raccontarle la storia di Amnon - rispose il medico riaprendo il libro. - L'inferma delirava interrottamente, sotto un'imagine dominante. Non ho mai veduto le linee del volto umano decomporsi e ricomporsi come quelle. La sua forma espressiva sembrava una materia in fusione, una materia condannata a una metamorfosi che si travagli e non si compia. D'improvviso, dopo una specie di lungo soliloquio incompreso, con una chiarezza che sbigottiva lei medesima nel dire, disse: «Eppure, la colpa di cui mi accusate, io l'ho commessa; e non debbo discolparmi». Allora io ripetei la mia domanda guardandola nelle pupille: «Chi è Amnon?» Ebbe uno di quei sorrisi indicibili che sono nelle sue stìmate direi quasi un raggio d'ombra, assai più misterioso del raggio di luce che si vede nelle rappresentazioni delle stìmate sante. Poi recitò lenta un altro versetto, traendolo dalla sua memoria come dal fuoco: «E Amnon era in grande ansietà, fino a infermare, per amor di Tamar sua sorella». Allora io ripetei la mia domanda incalzandola: «Ma dunque Amnon chi è?» Balzò in piedi con uno di quegli impeti che la fanno somigliare a un turbine di cenere e di brace, gridando: «Mio fratello! Mio fratello!»
E il quinto giorno fu il giorno della ricordanza.
La demente aveva chiesto a Chiaretta la vecchia scatola armonica dal pettine d'acciaio: il suo scarabillo. Ella s'insanguinava le dita contro le punte del cilindro, come a sei anni. Stava accosciata e china a ricevere l'aura della doppia aletta, ad ascoltare la voce piccola e infinita che saliva dal fondo della sua infanzia.
- È strano - disse il dottore a Paolo. - Quel tintinno la placa, interrompe anche il suono del passo che le cammina sopra. Stamani diceva: «Chiamatemi Lunella, rendetemi la mia Forbicicchia, che venga e porti con sé Tiapa e le sue forbici e stia qui e intagli per me qualche figuretta, e si viva insieme tutt'e tre, e lo scarabillo suoni sempre suoni sempre!»
Paolo la rivide apparire su la terrazza, seminuda nella sciarpa lunare, con la stella cilestrina in mezzo alla fronte, recando la cosa ignota avviluppata nel pezzo di stoffa.
- Profittando di questa specie d'incantesimo che la tiene e del suo desiderio di Lunella, son riuscito a persuaderla di lasciarsi ricondurre a Volterra.
- A Volterra?
- Ho ben considerato. È impossibile ch'essa rimanga qui, in queste condizioni. Deve tutto temere dal padre e dallo Sciacallo. La più assidua vigilanza non basta. Ora la villa murata di San Girolamo non soltanto è ottima per quiete e per solitudine, ma ha il vantaggio d'esser prossima a una casa di cura, che è diretta da un uomo d'alto ingegno e di profonda coscienza e di rigidissima disciplina, nel quale io posso pienamente confidare. Inoltre so che il padre non si oppone a questo trasporto. E non bisogna dimenticare che purtroppo la sua autorità è avvalorata dalla legge, e che conviene per ciò traccheggiare con lui. Non frappongo indugio. Preparo la partenza per domani.
Fino a quel punto Paolo non aveva ancora avuto il sentimento finale del distacco, dello strappo, della separazione ineluttabile. Quel trasporto gli parve il vero transito dell'anima. Non rivide il giardino di gelsomini cantato da Hafiz ma la reggia della Follia e il sepolcreto. Poi si ricordò dell'antilope ferita, dai grandi occhi teneri come gli occhi di Leila.
Per commiato, la sera volle tornare nel nascondiglio, entrare nella caverna verde. La scala era lugubre, rischiarata dalla fiammella giallastra accesa sul pianerottolo; era come quella ove rimasero le macchie del sangue non lavate, dopo il delitto; era deserta e tacita, ma per lui risonava dei colpi dati alla porta dallo sconosciuto. Nelle stanze le cose cominciarono a vivere contro i suoi sensi con tanta forza ch'egli temette il contagio della demenza. Furono come Isabella, come la bellezza viva d'Isabella, come le sue trecce come la sua nuca come le sue braccia come le sue spalle come il suo petto come le sue ginocchia come le sue caviglie. Tutte si rianimarono, si umanarono, assunsero un aspetto patetico e consapevole. Isabella era per ovunque. s'egli si moveva, la sentiva, la toccava, aveva da lei nei precordii quei sordi tonfi, quei rossi terrori, onde l'approssimarsi della voluttà era come l'approssimarsi dell'annientamento. I ricordi in così breve spazio si fecero di carne e d'ossa, camminarono verso di lui su quattro branche, lo soffocarono con un respiro grave come quello delle fiere. Poi combatterono, poi si divorarono tra loro; e rimasero vivi i più selvaggi, e infuriarono. «Ricordati del mio pianto come io mi ricorderò della parola che accompagnava i tuoi colpi.»
E il sesto giorno fu il giorno del vituperio.
L'ispettore cortese fece sapere a Paolo Tarsis ch'egli aveva alcune notizie da comunicargli, di natura molto delicata, intorno al mistero della notte orrenda. «Che c'e' di nuovo? che c'è ancora di più tristo?» si domandò il superstite che era già pronto al suo viaggio.
Isabella forse in quell'ora viaggiava per Volterra, a traverso le crete della Valdera, a traverso le biancane sterili; vedeva di là dalla collina gessosa riapparire all'improvviso su la sommità del monte come su l'orlo d'un girone dantesco il lungo lineamento murato e turrito, la città di vento e di macigno.
Come per accompagnarla fino ai tre cipressi, fino ai tre patiboli confitti sul poggio calvo, egli passò per la Piazza di San Firenze prima di andare al colloquio incerto. La piccola porta, per ove ella era entrata, si apriva sotto una finestra difesa da ferri robusti. L'andito era bianco, con le pareti coperte di lapidi e di stemmi. Appesa in alto era una lunga scala di legno; altre due lunghe scale eran poggiate sul pavimento, simili a quelle dei crocifissori. Un pergamo di legno scuro era abbandonato a fianco dell'uscio.
Tutte quelle cose, ch'egli vedeva per la prima volta, presero a vivere in lui come se anch'esse fossero impregnate della vita d'Isabella. Il cuore gli si gonfiò d'una pietà disperata quand'egli scoprì nell'ombra la piletta dell'acqua santa. Vi luceva poc'acqua, dove forse la povera folle aveva intinte le dita per segnarsi col gesto della consuetudine.
Camminò sopra una pietra sepolcrale, per un breve corridoio ingombro di armadii neri. Entrò nella cappella; guardò le lastre nere e bianche del pavimento ov'ella s'era inginocchiata, dinanzi ai balaustri di marmo che chiudono lo spazio dell'altare; guardò con occhi intentissimi. Gli aspetti delle cose gli si stampavano nel dolore, a uno a uno, senza sovrapporsi.
«Che fece nella lunga sosta? rimase in ginocchio? si sedette? pregò? sapeva ancora pregare? e quale fu la sua preghiera?» Egli guatava guatava; e gli occhi si dilatavano per tutto vedere per tutto accogliere, e l'intero viso viveva la vita dello sguardo, come nell'ora di Mantova, come là dove tutti i segni erano eloquenti e tutti i fantasmi cantavano.
Sotto la cupola, nell'altare dedicato alla Vergine, una corona di cuori votivi cingeva l'imagine santa.
Due lampade d'argento ardevano ai lati. E da un lato e dall'altro erano due porte chiuse, in mezzo a cui battenti splendevano due cuori d'oro in fiamma; e su l'una e su l'altra porta era l'iscrizione: Reliquiae sanctorum. Alla parete destra, un confessionale; un altro, alla sinistra; e presso, due panche. «Su quale restò seduta?»
Gli parve d'indovinare scegliendo, e sedette su quella. Sentiva l'ombra scendere dal lucernario. Vedeva a traverso il cancello la chiesa bianca sostenuta dagli alti pilastri di pietra serena. Vedeva di là dalla cappella gli anditi oscuri, ingombri di stalli di armadii di confessionali. Una donna quasi cenciosa passò, e lo guardò con due occhi di febbre, pieni d'infinita miseria. Gli tese la mano cava, senza dimanda. Prese l'elemosina senza grazie; e scomparve nell'ombra trascinandosi come se avesse le reni spezzate.
E sul passo della mendicante, mentre l'ombra scendeva più grave dal lucernario, gli apparve in un attimo Isabella, simile a un turbine di cenere e di brace, con le stimate nella bocca.
S'alzò, temendo le allucinazioni; attraversò il corridoio; escì su la piazza. I fanali erano già accesi. La massa petrosa del Bargello occupava il cielo argentino. Il campanile azzurro della Badia attendeva che alla sua punta si accendesse la prima stella. Una fila di vetture stava lungo il marciapiede, coi cavalli stanchi e tristi, coi vetturini sdraiati in attitudini di ubriachi o di mentecatti. «Quale di quelle portò la povera folle, seduta tra i due accompagnatori?»
Per la Via del Proconsolo, pel duomo, nel chiaro e tiepido argento della sera d'aprile, andò al luogo di vergogna. Risenti l'odore indefinibile che, con quello dell'ospedale e della prigione, è fra i più tristi in terra. Pensò all'ignota femmina dal grembiule rigato.
Entrando nella stanza dove l'ispettore cortese lo attendeva, fu come il torturato che passa da una muda in un'altra per l'estrema sevizia.
Di dietro il cristallo insensibile degli occhiali d'oro, l'uomo zelante disse con rapida precisione:
- Dopo ricerche minute e discrete, ho potuto stabilire che nessuno dei due sconosciuti era agente di polizia. Si tratta di due sozii, d'una vera coppia criminale. L'uomo magro, il violento, è un certo Stefano Feri, una canaglia della più bassa specie, sfruttatore di bagasce, ricattatore e ladro. Il grasso, soprannominato il Canonico, è un certo Beppe della Luzza, abbiettissimo tra gli abbietti, che Dante avrebbe messo alla pioggia di fuoco in compagnia di quell'altro canonico de' Mozzi.
E l'uomo si compiacque della vereconda allusione dantesca, con un sottile sorriso che traversò la visiera di cristallo.
- Entrambi, sozii, sono di continuo in cerca di affari loschi. Come si trovavano su la piazza quella sera? La Piazza di San Firenze, la sera, è il ritrovo della marmaglia intanata nelle vie e nei vicoli che si diramano dietro il tempio e dietro il tribunale. Là presso è anche una specie di caffè bordello. I due procaccianti vi hanno il loro recapito. Ora, a qual fine si accostarono? Non è da pensare che fossero mossi dalla pietà, vedendo la signora smaniosa. La vedevano per la prima volta? Avevano premeditato il colpo? L'indirizzo fu dato dalla signora, o già lo conoscevano? Volevano tentare un ricatto? in quale forma?
L'uomo seguitò ad accumulare le interrogazioni con crescente effetto oratorio, al modo di Cicerone contro Vatinio, polito poliziotto ornato di tutte lettere, invero ammirabile. Contenne la voce in un tono quasi patetico, quando giunse all'ultima ch'egli gravò di un dubbio turpe:
- E che fecero della disgraziata vittima nella troppo lunga ora, tra la partenza dalla Sua casa e l'arrivo al palazzo di Borgo degli Albizzi? Con tutti i mezzi, se Le aggrada, conosceremo la verità.
Paolo Tarsis indugiò qualche attimo, prima di rimettersi in piedi. Dispensò dalla ricerca; ringraziò; uscì. Il mondo gli appariva come una cloaca immensa. Ogni bellezza, ogni gentilezza era distrutta. Il volto dell'Amore era osceno come quello d'un pagliaccio vinoso. Egli vedeva la divina Isabella Inghirami seduta tra il ruffiano e il sodomita, dinanzi a un bicchiere sudicio, nel caffè male odorante. La parola di vituperio, il destino l'aveva raccolta per adempierla.
E questo fu il sesto giorno dell'ultima prova.
E il settimo giorno l'Ulisside drizzò al suo cuore la parola d'Ulisse: «Cuore sopporta. Ben altro tu hai sopportato più cane!» E si scrollò, e prese la sua via. E la sua volontà e il suo dolore furono una sola tempra.
Il dì venti aprile, verso sera, Paolo Tarsis ebbe dallo statuario il messaggio promesso. I fuochi erano accesi, sotto la tettoia del fonditore. Il metallo si struggeva nel bacino. La statua aspettava per tutte le sue vene avide il sangue rovente, vestita dalla tonaca di terra, in fondo alla fossa fusoria. Un altro degli Schiavi michelangioleschi, con un colpo di spalla e un colpo di ginocchio, era per isprigionarsi dall'aspra ganga e per imbracciare le ali come clipei. «Dàgli, con la spalla col ginocchio e col pugno, dàgli forte, da' la buona stratta come la stratta della morte; che' il vento gira allargo e ridonda, e risona come il bronzo sonante, nel battito del mare.»
Sotto la sua tettoia ardeatina, anch'egli aveva acceso i suoi fuochi. Tutto il giorno aveva lavorato intorno al grande airone, in silenzio, con i suoi meccanici, portando anch'egli la tunica azzurra, non temendo per le mani che gli s'eran fatte troppo bianche, tenendo ben celato il suo disegno e il suo proposito.
«Ponente una quarta a libeccio!» Non si trattava già d'approdare all'altra riva ma di naufragare al largo, alla massima distanza dalla spiaggia d'Enea. Per ciò egli aveva atteso a rinforzare i suoi congegni; aveva mutato il motore il serbatoio l'elica; con molta industria aveva sospesa sul suo capo, nel suo posto di timoniere, lontana dalla perturbazione del ferro e corretta, una bussola rovescia fornita d'una carta marina su cui era segnata la giacitura degli atterraggi utili, costantemente orientata dall'ago. In fine aveva detto al capo dei suoi uomini, a quel Giovanni artiere prediletto da Giulio Cambiaso: «Domattina, alla diana, farò un altro volo di prova». Sembrava che per lui su la rupe di Àrdea vigesse la conscia virtus di Turno. Non andava alla morte ma all'impresa mortale munitissimo.
In quei giorni operosi di rado aveva rotto il silenzio, se non per indicare per insegnare per comandare; ma spesso parlava col suo compagno. «Credevi tu che ci saremmo ricongiunti?» Il ricordo gli palpitava dentro assiduo come un cuore ridivenuto duplice, gli rendeva gli accenti gli sguardi i gesti dell'essere caro, glielo faceva vivo e presente come quando lassù, reduci dai peripli e dalle spedizioni, avevano costruito insieme con ardentissima pazienza i primi apparecchi e avevano tentato i primi voli.
Ben quella era l'ora propizia, l'ora di Espero, quando equilibrandosi tra le ali leggere si gittavano a valle dal posatoio rupestre e imitavano il veleggio dei grandi rapaci. Ben era un'ora come quella, una serenità intenta e piena di nume, quando un di loro era riuscito a raggiungere per la prima volta, col bianco airone già quasi compiuto, che stava alla riva destra del Numico, là dove i Latini alzarono il tumulo arborato e lo dedicarono a Enea fatto dio Indigete dopo che il fiume con le sue acque ebbe purgato e lavato in lui ogni cosa mortale e non lasciato se non l'ottima parte.
Il superstite non sentiva in sé vivere se non l'ottima parte, contemplando i luoghi sacri e deserti, nella sua vigilia d'eroe, nella sua ultima sera. Tutto era grande e dolce come se l'Indigete sorridesse nell'aria senza mutamento. Tutte le cose erano semplici e grandi ma contenute in una chiostra che non le diminuiva, come nei due versi del padre Ennio sono raccolti i dodici Dei sommi di Roma. Pareva che dal lido laurente sino al castro d'Invio rinascessero gli antichi lauri moltiplicati da quello che il re Latino serbava nei penetrali insigne, a cui s'appese lo sciame fatidico. Il carme delle origini era per ovunque diffuso. Non più cantava Circe ai telai delle frodi, né s'udiva la turba degli uomini imbestiati ululare come quando sotto il monte dell'erbe veleggiarono in salvo le navi di Enea; ma sola cantava la figliuola di Giano il suo divino dolore, come il cigno canta i versi della morte, divenuta «vana ne' lievi venti».
Calava la sera. A una a una intorno a Espero le stelle sgorgavano. Un pastore conduceva la greggia non forse all'ovile ma all'oracolo di Fauno, laggiù, nel bosco sacro ove tra la mefite ch'esala e la fonte che suona l'antichissimo nume delle genti italiche, colcato sotto le pelli delle pecore offerte, ancor dorme vaticinando per sogni nel silenzio notturno.
Il superstite non abbandonò la rude casa di legno e di ferro, ove le sue vaste ali biancheggiavano. Fece apprestare il letto da campo, quel medesimo ove egli aveva composto il corpo del compagno avvolto nella rascia rossa. Ricoverò i suoi meccanici nell'officina attigua; diede ordini per la diana; rimase solo col Pensiero dominante.
Il silenzio era come quando la città guerriera dei Rutuli dormiva intorno alla reggia di Turno, erma su le sue rupi che come le mura apparivano opera d'uomo, covando i sepolcri dei suoi morti. Non s'udiva se non il croscio dell'Incastro a valle, continuo come il tempo. Un cane uggiolava in un casale. Cigolava un baroccio su la strada di Anzio. Su i Monti Lanuvini brillava l'Orsa. Era come una notte nota che ritornasse nel giro degli anni, di molto lontano.
Il superstite camminò fino alla colonna che doveva sostenere il bronzo. Il monolito ancora giaceva al suolo, ma rialzato alquanto da fasci di frasca ch'erano come i guanciali sotto il dormente. Egli vi sedette; e, pensando all'opra che nell'ora ferveva intorno alla statua lontana, respirò nell'anima stessa del fuoco e nell'anima del fratel suo. Aveva già lo statuario gittato nel bacino l'anello?
Rientrò nella tettoia. S'appressò alla gabbia di papiro che pendeva dalla trave. L'airone lo sentì e si scosse. Era uno dei due aironi tutelari che Giulio Cambiaso amava e curava, nei giorni della gaiezza. Per gioco egli s'era piaciuto di deificarli coi nomi di due antenati mitici del primissimo Lazio: Dauno e Pilumno. Erano come i Penati nella casa di legno e di ferro. Scomparso l'uno, triste e meditabondo sopravviveva Dauno nella sua carcere egizia.
- Se potessi trovarti un posto nella fusoliera, ti porterei con me, povero solo! - gli disse Paolo Tarsis sorridendo, mentre gli sonavano in fondo all'orecchio le modulazioni strambe che Giulio inventava per parlare ai due vecchi Penati candidi dai piedi olivastri. - Proteggi intanto il mio penultimo sonno breve. Domani dormirò assai più lungamente.
Si bagnò; poi si coricò nel letto da campo come quando essi vivevano sotto la tenda. La medesima suppellettile ingegnosa, alle comodità e alle necessità, era sparsa intorno, di metallo, d'osso, di bosso, di tela, di gomma.
- La mia statua è fusa - disse, pensando che il rito del fuoco s'era compiuto.
Vide la forma traboccare, la leva abbassarsi, il turo chiudere la bocca rigurgitante, il metallo incandescente fermarsi e subito incupirsi nella creta e nel mattone. S'addormentò.
Albeggiava su i Monti Albani, quando si levò. I suoi meccanici credettero che Giulio Cambiaso fosse ritornato, tanto fu insolitamente allegra la voce dei comandi. Subito la tettoia fu piena di rombo. Le tavole tremarono, la polvere si sparse, l'airone si sbatté.. Egli prestava l'orecchio acutissimo alla settupla consonanza. I sette cilindri non erano più disposti a ventaglio ma a raggiera, irti d'alette intagliate nella massa stessa dell'acciaio. La nuova elica tirava a maraviglia, astro d'aria nell'aria. I meccanici ancora una volta ne provarono la forza, avendo legato la fusoliera con un canapo a un misuratore metallico e questo a un palo; e il canapo si tendeva allo sforzo come se la grande Àrdea prigioniera fosse impaziente d'involarsi; e un uomo inginocchiato osservava la freccia dell'indice.
- Pronti? - chiese il superstite.
- Pronti - rispose la voce fedele.
E l'elica s'arresto. L'Àrdea fu sciolta, fermo il battito del settemplice cuore raggiato.
- Dauno, - disse il volatore appressandosi alla gabbia di papiro ove l'airone bianco era molto inquieto - Dauno, voglio liberare anche te, in questo bel mattino d'aprile. Forse in qualche stagno Pilumno t'aspetta.
Distaccò la gabbia, mentre gli uomini afferrando la macchina per le traverse del corpo e per le cèntine delle ali si accingevano a spingerla verso lo spiazzo. Posò la gabbia a terra e l'aprì. Sorridendo si ricordò della parola vergiliana di Niso.
- Daune, - disse - nunc ipsa vocat res. Hac iter est.
Ma il triste prigioniero pareva non credere alla libertà che gli era offerta.
- Daune, hac iter est! - gli gridò il liberatore incitandolo.
L'airone ruppe lo stupore, mise fuori della carcere le lunghe zampe nericcie; corse per un tratto come su i trampoli; poi, ripiegando con grazia il collo tra gli omeri e confondendo le lunghe piume dell'occipite con quelle della schiena, si librò a volo nel mattino.
Egli lo seguiva con lo sguardo.
- Dove vai? di là dal Numico? di là dal tumulo d'Enea? verso Laurento? Scenderai su lo stagno di Ostia? Dauno! Dauno!
Un'ala di malinconia gli batté su l'anima, vedendo scomparire l'ultimo dei Penati nel cielo di primavera. Tutto era nuziale. Il mare le spiagge le valli i poggi, i monti erano quali Canente li guardò con i suoi occhi limpidi e li incantò con i suoi carmi leni, prima del dolore, prima del pianto e del sangue, prima che la figlia crudele del Sole dicesse al principe saturnio studioso di cavalli: «O bellissimo, e non ti riavrà colei che canta».
- Hac iter est.
E guardò il Tirreno d'Ulisse e d'Enea, ch'era chiaro e dolce come in un giorno alcionio. In breve fu pronto. Non si tradì innanzi agli uomini con nessuna parola con nessun gesto. Egli stesso prese l'elica per le due pale e impresse il moto. Ascoltò il tono. Salì sul suo sedile; s'accomodò alla manovra tranquillo.
- Lascia!
Al modo dell'airone liberato, il velivolo corse per un tratto sul suo fumo azzurrigno, poi si levò a gran volo, rapidamente s'inalzò, filò verso il mare. «Ponente una quarta a libeccio!» Gli artieri e i pastori lo videro seguire dall'alto il corso dell'Incastro, oltrepassare la foce, salire salire ancora, colorarsi d'aria, farsi esile come Dauno, perdersi nell'immensità.
- Vedrete che va a finire in Sardegna - disse ridendo il più giovine.
- Non mi maraviglierei.
Erano allegri, senza dubbii, senza paure. Soltanto Giovanni, raccattando la gabbia vuota, scoteva il capo.
Il volatore non vedeva più se non acque acque acque in una infinita e chiara solitudine senza turbamento senza mutamento, in cui gli pareva esser sospeso e immobile su le sue ali adeguate. Era la grande serenità alcionia come nei giorni favolosi del solstizio iemale; era l'albàsia mattutina senza soffio senza flutto. Come quella quiete aboliva la rapidità così quel silenzio aboliva il romore. Il moto dei congegni non aveva risonanza ma era simile al moto del cuore e delle arterie, che l'uomo non ode quando egli è in armonia con sé e con l'Universo. Il superstite non più aveva il sentimento del sopravvivere ma del trapassare. Non vedeva a faccia a faccia il suo Pilota, come già nell'apparire dell'arcobaleno, ma era egli medesimo quel pilota; e la sua anima era la guida della sua anima, e la sua mente era la luce della sua mente; e le sue mani, che nel lavoro avevano conservata la loro nuova bianchezza e ch'egli aveva lasciate ignude, gli parevano anch'esse una forma della vita ideale; ed egli aveva persa la memoria della riva di giù ma non di quel viaggio, ché egli si ricordava di averlo compiuto.
Un repentino fulgore percosse tutta la faccia del mare, come la bacchetta del musico percote la pelle del timpano con un sol colpo fiero. Egli si volse, e la sua gota fu d'oro. Le ali risplendettero con tutte le nervature palesi; i metalli scintillarono; una via abbagliante segnò le acque. Era il Sole.
L'estasi letèa cessò. Le mani del timoniere si rinnervarono e riappresero l'arte. Egli scorse una nave che gli intersecava la rotta navigando a ostro levante; la raggiunse in calata verso il clamore che saliva dai marinai e dai passeggeri assembrati in coperta; sorpassò, si risollevò. Il tono della raggiera ignita era pieno ed eguale; l'astro mordace dell'elica trivellava l'aria infaticabilmente; l'equilibrio tra ala ed ala tra becco e coda era costante. La lieve brezza di ponente spirava senza colpi né salti né nodi; il mare mutava colore qua e là simile a un drappo broccato. Ma ora il silenzio era pieno del rombo che il volatore ascoltava di continuo nell'attesa della prima pausa. La solitudine era tutta d'acqua e d'aria, senza una vela senza un filo di fumo senza una linea di terra. Gli parve di percepire una pausa nella raggiera, poi un'altra, poi più altre intermesse. Vigilò il suo cuore, con un sorriso nella mente: il ritmo interno s'era accelerato. «Che farei se l'Àrdea in questa bonaccia rimanesse a galla per qualche tempo? Dovrei attendere o cercare di colarla a fondo?» Il tono ridiveniva pieno. Il vento rinfrescava; il soffio intaccava l'acqua e la copriva di squame; appariva lontano una zona sempre più cupa. Egli cominciò a manovrare con attenzione più acuta. «Compagno, compagno, sarà una bella morte! Se calcolo il tempo e la velocità, ho già percorso circa settanta miglia marine. Sono in mezzo al Tirreno. Ho una bella tomba profonda. Ti ricordi, all'isola del Tino, alla Maddalena, quando chiusi nello scafandro scendevamo verso gli orti delle Sirene?» Gli ritornava in tutto il corpo quella gioia nuova, l'insolita leggerezza, come se il senso della gravità fosse abolito pur sotto l'enorme peso. Gli ritornava singolarmente una strana divinità nelle mani, che sole rimanevan nude in contatto con l'acqua e potevan toccare e raccogliere per entro alla tremula alba opalina le corolle veggenti e le mostruose fami fiorite. «Fra quanto tempo il palombaro ridiscenderà nell'abisso per trovare la Sirena che non trovò mai?»
E il tempo passava, e il tempo passava. E un'altra nave apparve, navigandogli incontro diretta a levante verso la costa d'Italia. E la vide sotto di sé come un chiaro guscio distinto da una piumetta di fumo. Il clamore gli giunse appena appena. Egli volava a grande altezza, e la rapidità gli sferzava il viso entro il camaglio.
E intorno alla sua immobile aspettazione della morte incominciava un'ansia confusa, che ora pareva speranza e ora pareva rammarico e ora pareva terrore. L'astro mordace dell'elica trivellava l'aria salsa infaticabilmente. Egli aveva già percorso più di cento miglia marine. «La morte poteva divenire la vita? il giorno d'immolazione divenire giorno di trasfigurazione?»
Egli guardava di tratto in tratto le sue mani alla manovra, le sue mani nude come quelle che sporgevano dallo scafandro; e gli pareva che vivessero con una straordinaria potenza. Erano là, infaticabili come le due pale dell'elica, senza tremare senza lentare senza fallire. Il tono della raggiera ignita era pieno e gagliardo. Il sole dietro di lui salendo per l'erta feriva le ali ma non creava l'ombra. La grande Àrdea di metallo di legno e di canape era immune dall'ombra, come sparente, come inesistente, come cosa della riva di là, come segno spettrale. Ma in quelle due mani le ossa i muscoli i tendini i nervi erano tesi a un'opera disperata di vita, erano furenti di vita come quelle che brandiscono l'arme alla suprema difesa, come quelle che s'aggrappano al bordo del battello o alla scheggia dello scoglio nel naufragio.
E il cuore gli tremò d'un tremito novo, d'un tremito che per la prima volta moveva l'essere umano.
I minuti scoccavano, l'un dopo l'altro, come le scintille dell'accensione. La luce e l'azzurro e l'onda fuggivano di continuo Quel ch'era insperato poteva esser raggiunto! Egli vedeva a faccia a faccia il suo Pilota come in quell'altro giorno funebre quando gli aveva chiesto: «Tu vuoi? Tu vuoi?»
E il cuore gli tremò perché v'era rinata la volontà di vivere, la volontà di vivere per vincere.
Che poteva esser mai laggiù, in fondo alla linea dell'acqua, quella lunga nuvola azzurra? una catena di monti? la terra? Egli guardò le sue mani terribili. E sentì tutto il suo corpo proteso come per l'istinto di acuirsi, di sfuggire al contrasto dell'aria, di adeguarsi alla forma del fuso e del dardo. E sentì le sue pupille appuntate all'apparizione lontana con una intensità che moltiplicava il senso per prodigio.
E il suo amore del fratello e il. suo dolore e il suo ardore furono il sole dietro a sé, sopra a sé, furono una presenza raggiante, una immortalità incitatrice.
Tale quel sogno sognato con tutto il peso della carne sanguigna, con la faccia addentrata nell'origliere come la fame nella mangiatoia, col sudore che stilla, con le pieghe dei lenzuoli che lasciano nella pelle impronte come di percosse; e tale il suo sogno, tale il prodigio sostenuto con la tensione di tutte le fibre, con la durezza di tutte le ossa. E il tempo passava; e la raggiera irta rombava in ritmo; e l'astro dell'elica trivellava il cielo.
Era la vittoria. Era la vittoria!
E come allora e assai più, di tutta la sua volontà egli fece un dardo inflessibile, fece uno di quei dardi che i feditori chiamavano soliferro, tutto ferro asta punta e cocca: un ferro che vedeva come nessuno mai vide, un ferro che udiva come nessuno mai udì.
Udì in basso un lieve scricchiolio, udì qualcosa cadere d'accanto al suo piede sinistro Al calore s'accorse che s'era spezzata o distaccata la tavoletta d'alluminio contrapposta al tubo di scarico, e che il getto dei gas infiammati lo investiva senza riparo. Ma vedeva la terra. La vedeva ingrandirsi, avvicinarsi di continuo, co' suoi monti co' suoi poggi con le sue macchie con le sue spiagge. Il vento ora l'assaliva a colpi a buffi a rifoli a raffiche.
Lottò, contrastò, assalto per assalto. Scorse per entro l'onda eguale, a proravia, una flottiglia di battelli sottomarini che navigavano con lo scafo immerso in manovra di battaglia. Comprese che Terranova, il Capo Figari, Porto Cervo, Caprera, la Maddalena gli erano a tramontana e ch'egli aveva tenuta la rotta più verso libeccio. Ma non virò, non la mutò.
Anche una volta egli aveva tracciato con l'animo una linea più diritta di quella che le maestranze segnano col filo della sinopia.
La costa era là, deserta sterile gialligna; nella sua bassura, propizia all'arrivata. Scorse una muraglia informe di fichidindia; scorse più lungi in un seno verdiccio un armento presso una capanna conica. Scoprì in una calanca una lista di sabbione, contro una macchia cupa forse di ginepri forse di lentischi. La scelse per atterrarsi.
S'atterrò nel sogno e nel prodigio, sicuro e lieve, dismemorato e inconsapevole, quasi al frangente dell'onda.
Non clamore, non tuono di trionfo; non moltitudine pallida di facce, irta di mani. Silenzio selvaggio, erma gloria;
e il respiro del mare fanciullo che le braccia piegate della terra biandivano;
e la parola della segreta nutrice che sa la vita e la morte, e ciò che deve nascere e ciò che non può morire, e il tempo di tutto.
«Figlio, non v'è dio se non sei tu quello.»
Egli restò attonito e intento per alcuni istanti. Poi fece l'atto di balzare nella sabbia; ma lo spasimo della bruciatura perversa gli strappò un grido, lo contenne.
Allora discese cauto, cercando intorno un qualche sostegno.
Sedette sul lido solitario; e si pose a distaccare dal piede incotto i resti del cuoio incarbonito.
Come aveva esausta la lena e non sosteneva lo strazio, guardò l'onda: l'ascoltò.
Ecco che la sua carne ridiventava miserabile: non si poteva più esprimere se non col soffio lamentevole non udito da alcuno, chiedendo il sollievo d'un attimo a quella piaga empia che novamente costringeva e imbestiava in un punto angusto la volontà vittoriosa.
Fece l'estremo sforzo, con le coste contratte, con i denti stretti, con le palpebre chiuse, rispasimando nella sabbia attrita.
Allentò gomiti e polsi, rovesciandosi indietro, supino, nel toccare il gelo dell'acqua. Respirò dal profondo. Girò gli occhi verso la grande Àrdea immune. Fu certo dell'aver compiuto, primo e solo.
Allora al suo spirito parve che gli medicassero la piaga immersa gli spiriti del mare.
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