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Nel giardino, che al tempo dei granduchi
ora non altro per le lunghe noie
del giorno s'ode che il ronzar dei fuchi.
Tacciono le fontane un tempo vive,
che ridean tutte vive di zampilli.
Non altro s'ode che il cantar dei grilli
eguale e roco, ne le sere estive.
Chiudon la tromba del Tritone arguto
i licheni ed i muschi verdegialli.
Nettuno, senza braccia, i suoi cavalli
marini guarda ne la vasca muto.
Grandi urne vuote lungo i balaustri
s'alternan con le statue corrose:
urne d'antica forma, ove le rose
fiorivan per virtù di mani industri.
Luce ne l'ombra dei viali il busso
da la foglia polita. Ai luccicori
vaghi sogna quell'erma che gli amori
antichi vide ne l'antico lusso.
Ma è l'erma quella che ne l'ombra verde
biancheggia? S'ode un passo nel viale.
Il silenzio è profondo, sepolcrale.
Non il più lieve strepito si perde.
Qual creatura visita il deserto
luogo sola? Da qual sepolcro escita?
Da quale esilio torna a questa vita
la donna che ha sì lieve passo incerto?
Viene ella in una lunga veste bianca
di raso, a mille righe violette,
d'antica foggia. Il feltro ampio le mette
un'ombra su la faccia un poco stanca.
Chiari come i topazi e lunghi, gli occhi,
come le mandorle: umidi ma d'una
lacrima che non sgorga. Non la luna
è così dolce, se un vapor la tocchi.
Ondeggiano sul feltro i nastri ad ogni
passo, e la cipria vola da la nuca
bionda. Ella viene. Par che la conduca
un ricordo nei luoghi, e par che sogni.
Mormora a quando a quando un nome: «Alceste».
Si sofferma talvolta, e poi sorride
vagamente. Una foglia secca stride
sul suolo presa all'orlo de la veste.
Mormora: «Non fu ieri? Non fu ieri?
Le rose avean l'odor de le mie chiome
per lui. Dov'è? Dov'è, dunque? Il mio nome
era Climene; Alceste il suo. Fu ieri».