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Io fui Glauco, fui Glauco, quel d'Antèdone.
sentii la deità, sentii nell'intime
della potenza equorea trascorrere
io mortal nato di sostanza efimera,
Memore sono della metamorfosi.
nel rimembrare, s'inazzurra ed èstua,
dei mille fiumi che mi confluirono
immenso novamente par dissolversi
O Iddii profondi, richiamate l'esule,
però ch'ei sia miserrimo
nella sua carne d'acro sangue irrigua,
che per lotosi tramiti s'attardano,
forza del flutto convertita in muscoli
dopo che le correnti dell'Oceano
le divine di sé vicissitudini
O Iddii profondi, richiamate l'esule
sotto i fiumi lustrali ìnferi e sùperi,
la deità rendetegli!
Memore sono. Era già fatto il vespero
ardevano d'un foco inestinguibile,
e i golfi e i promontorii
e l'isole di contro negreggiavano
già notturni, allorché sostai nel pascolo
marino. Onusto di gran preda, sùbito
miei lini a noverar la mia dovizia.
feci schiere ordinate. E in cor godevami
veggendo per quel bruno intrico; «I nèssili
miei lini e i piombi e i sugheri
t'appenderò nel tempio, o dio propizio»
E allor vidi i pesci più risplendere,
e le branchie alitare e per le scaglie
E, come quando il nume di Diòniso
e si disfrena giù pe' monti il Tìaso,
infuriare, cedere a un'incognita
insania. «Qual prodigio è questo? Ahi misero
me!» gridai per grandissimo
spavento; ché la preda mia fuggivasi
rapidità, balzando e dileguandosi.
questo? e nell'erba è la possanza?» Attonito
era divino nella solitudine.
ma lungamente i cieli ultimi ardevano.
cupa sonar lungh'essi i promontorii
canti fatali spandersi dall'isole.
E quasi inconsapevole
la man correami per quell'erba strania,
il prodigio. Divelsi dalle radiche
a capra di virgulti avida, mordere
scendeami, tutto il petto conturbandomi.
era la terra intorno come nuvola
che fosse per dissolversi
ne' cieli, sotto i piedi miei fuggevole.
sorgeva in me, dell'infinito pelago,
degli abissi, dei vortici e dei turbini.
della gravezza terrestre. Nascevami
d'un'onda ismisurata e per le pàlpebre
splendor del sangue novo, e il collo e gli òmeri
e le ginocchia giugnersi, le scaglie
gelidi guizzi correre pei muscoli.
caddi nel gorgo, mi sommersi, l'infima
uomo non più, non anco dio, ma immemore
Fiumi correnti, odo il sublime sònito
di voi sempre nell'anima,
fiumi sgorganti d'ogni scaturigine,
di violenza, caldi come l'aure
nove che v'arrecarono
onde scendeste inviolati, d'auree
d'argille, pingui di limo o più limpidi
Cento e cento passarono passarono
vita dell'orbe mi fluì su gli òmeri
proni, con ineffabile
melodìa. L'Acheronte, il gran tartareo
su me nel cieco suo pallore i petali
Tutte l'acque rombarono crosciarono
ogni terrestrità dal corpo immemore
E mi risollevai dio verso l'etere
che una nave d'eroi sospinse. Io auspice
Di su la prora chino il cantor tracio
E presso lui, d'oro chiomato, florido
della prima lanugine,
(sentendo l'immortalità, saltavagli
splendido) presso Orfeo figlio d'Apolline
O Iddii profondi, richiamate l'esule,
la deità rendetegli!
Io fui Glauco, fui Glauco, quel d'Antèdone.
Ecco, tutta la luce è nel Mare Infero,
e per ovunque è tenebra.
O nunzia di prodigi Alba oceanica!